Sette anni dopo La Macchina del Tempo, che molto probabilmente non aveva letto, Jack London, debitamente mimetizzato da straccione, si avventurò nei bassifondi di Londra (l’East End) per vivere di persona quella condizione di miseria e di degrado: ne nacque uno dei suoi reportage piú impressionanti, Il popolo dell’abisso (1903). Piú che dalla reiterata metafora dell’abisso («l’abisso di Londra mi apparve come un’unica, enorme bolgia infernale»)1, il lettore di Wells rimane colpito dalla rappresentazione dei lavoratori in termini che sembrano descrivere i Morlock: «una sorta di razza a me ignota, una razza diversa fatta di gente di bassa statura e d’aspetto sordido»; «a poco a poco si viene creando una popolazione particolare, rachitica e bassa di statura, una vera e propria razza in tutto e per tutto – e sorprendentemente – diversa dalla razza dei padroni»; «una nuova razza è spuntata […]. Hanno tane e tuguri nei quali tornano a strisciare quando hanno sonno»; «altre forme strane e bizzarre, contorte mostruosità che mi urtavano da ogni parte, campioni inimmaginabili di attonita bruttezza […], morti viventi». Non c’è bisogno di citare passaggi della Macchina del Tempo a riscontro: la concordanza è assoluta, a partire dal concetto di razza (un concetto che quattro anni dopo Wells volle chiarire meglio con il “prequel” Quando il dormiente si sveglia2, nel quale gli operai del vicino anno 2100, costretti a lavorare in fabbriche sotterranee, si avviano a un inesorabile processo involutivo, a partire dalla destrutturazione linguistica).
Certo al volgere del secolo i derelitti di Londra vantavano una ricca letteratura (non solo Dickens, per esempio, ma l’insospettabile Wilde, che parla dell’East End nel Dorian Gray): ma mai come in Wells e in London erano stati rappresentati come una razza degenerata, secondo le teorie darwiniane dell’evoluzione e postdarwiniane della regressione. Wells e London sono anche gli unici che immaginano questa nuova razza in termini non neri (il buio del sottosuolo, la fuliggine del carbone, la pelle degli schiavi, la metafora calibanesca) ma, per l’assenza di luce, bianchi: «pallidi e anemici» scrive London, e Wells: «Provavo una ripugnanza speciale per quelle membra pallide: avevano l’identico colore biancastro dei vermi e degli altri esseri conservati sotto spirito nei musei zoologici».
La Macchina del Tempo è del 1895, l’edizione definitiva dell’Uomo delinquente di Lombroso è del 1897: a Darwin, rapidamente divulgato, era già subentrato il darwinismo, tanto che Wells, che pure aveva fatto un discreto tirocinio prima come studente e poi come docente di biologia, arriva a concepire la regressione per una via tutta formale: se dalla scimmia è derivato l’uomo, si chiede, perché non immaginare un’ulteriore evoluzione non in avanti ma all’indietro? Perché escludere «l’idea opposta», cioè una «regressione zoologica»3? Per questa via Wells giunse a ipotizzare la totale estinzione del genere umano, come inscenato appunto nella parte finale (la cosiddetta «visione ulteriore») della Macchina del Tempo. Dipendendo dal raffreddamento del Sole, la visione finale – un mondo senza esseri umani né mammiferi – ha comunque una sua pace; la cupezza della profezia wellsiana è invece tutta nel complementare destino dei ricchi e dei poveri rispettivamente come vegetali e come bruti, secondo la logica di un dissidio tutto interno all’evoluzionismo: da una parte Huxley e Wells, dall’altra un evoluzionista della prim’ora come Herbert Spencer, convinto che l’uomo avrebbe indefinitamente migliorato se stesso e il proprio rapporto con la natura (le magnifiche sorti e progressive), e scrittori come Edward Bellamy e William Morris, che nei rispettivi romanzi Looking backward: 2000-1887 (1888) e News from Nowhere (1890) avevano inscenato un’utopia socialista apertamente irrisa dal romanzo wellsiano.
Quasi piú che come scrittore, Wells fu celebrato come profeta: «Un autorevole personaggio inglese, il signor William Archer, ebbe a dichiarare […] che H. G. Wells meritava essere investito dallo Stato della carica di profeta ufficiale»4; ed è nota la dedica dell’Agente segreto che Conrad gli fece definendolo «storico delle età future»; né egli fece nulla per scrollarsi di dosso questa fama, rinfocolandola anzi con una pubblicazione come le fortunatissime Anticipazioni. È evidente però che non ci possiamo accontentare di questo: a tale stregua, infatti, il titolo di profeta spetterebbe piú legittimamente all’americano Edward Page Mitchell, che nel 1881 anticipò La Macchina del Tempo con il racconto The Clock that went backward, e L’uomo invisibile con il racconto The Crystal Man (altrove previde radio e telefono, oppure immaginò un cyborg o un acceleratore – la «tachipompa» – che spingendo le cose alla velocità della luce avrebbe ingenerato paradossi temporali come quelli poi formalizzati da Einstein). Ma, a differenza di Wells, Mitchell non era un vero scrittore: al punto da smettere di pubblicare racconti, lui giornalista, quando si accorse che il pubblico li prendeva per articoli scientifici! Del resto, come scrisse Forster, «con la profezia, nel ristretto significato di previsione del futuro, noi non abbiamo nulla a che fare […]. La profezia, nell’accezione nostra, è un tono di voce»5.
Certo, non possiamo non rimanere impressionati dal fatto che nel 1914 Wells collocasse nel 1940 lo scoppio della Seconda guerra mondiale, coniando contestualmente la locuzione «bomba atomica»6; è però altrettanto vero che della «quarta dimensione» si parlava e si favoleggiava già da parecchio tempo (ancora Wilde per esempio, nel Fantasma di Canterville), al punto che già nel 1899, a solo un anno dalla pubblicazione della traduzione francese della Macchina del Tempo sul «Mercure de France», Alfred Jarry poteva pubblicare sullo stesso «Mercure» un irrisorio pamphlet, a firma del dottor Faustroll, intitolato Commentaire pour servir à la construction pratique de la Machine à explorer le temps.
Brillante studente di biologia, di fatto destinato a ricoprire a lungo il ruolo di studente-insegnante in almeno cinque istituzioni diverse, fortemente influenzato dalla personalità e dalle idee di Thomas Huxley (soprannominato «il mastino di Darwin» per la convinzione con cui aveva sposato l’evoluzionismo)7, Wells intrecciò prestissimo la produzione accademica, quella giornalistica e quella fantastica. Il primo suo racconto che insceni un viaggio nel tempo è del 1888, The Chronic Argonauts, il cui protagonista, palesemente ispirato a Edison, viene definito come «uomo anacronico»: ma piú dello spunto in sé è interessante il fatto che il racconto sia stato pubblicato dal Royal College of Science, la prestigiosa istituzione presso cui insegnavano Huxley e il suo giovane pupillo: è infatti evidente che questa contaminazione di piani epistemologici si spiega solo presumendo che, nella percezione comune e nelle stesse intenzioni di Wells, il racconto avesse la valenza di un’ipotesi scientifica (del resto già alla South Kensington School il giovane Wells aveva fondato un giornale, lo «Science School Journal», in cui agli articoli scientifici se ne alternavano altri piú leggeri e umoristici). Altrettanto significativo è che nel 1893, quando ormai la sua vita e la sua carriera si erano decisamente e irreversibilmente spostate verso il polo della letteratura, Wells pubblicasse per lo University Correspondance College un manuale di biologia (Text-Book of Biology) – suo canto del cigno prima di abbandonare la scienza e l’insegnamento – destinato a essere ristampato per oltre un trentennio (in esso leggiamo peraltro affermazioni come questa: «Per chi è in grado di decifrarne i simboli, la zoologia è una filosofia e una letteratura»)8. In ogni caso Wells diventerà un formidabile conferenziere, girando il mondo e riempiendo i teatri come solo aveva fatto Dickens con le sue celebri letture: lo sterminato e sicuramente incompleto elenco dei suoi articoli e delle sue conferenze, non tutte trascritte, comprende ogni tipo di argomento scientifico, tecnico, economico, urbanistico, antropologico, politico, tanto che non c’è un suo romanzo o racconto (il cui elenco è altrettanto sterminato) che non abbia uno o piú riscontri puntuali in questa pubblicistica.
Jules Verne, la cui vita si sovrappose a quella di Wells per circa un quarantennio, non poteva certo provare simpatia per chi gli aveva sottratto la corona di scrittore avveniristico: in piú di un’occasione affermò che le storie del rivale, per quanto «très jolies», erano assolutamente non realistiche né credibili9: Wells, sul filo della malafede, replicò che gli era estraneo «ogni interesse pratico-scientifico»10. A smentirlo basterebbe considerare la genesi della Macchina del Tempo. Inizialmente, nel 1894, Wells voleva affrontare l’argomento da un punto di vista se non scientifico almeno saggistico: e cosí incominciò a trattarlo in alcuni articoli (primi di una prevista lunga serie) sulla «Pall Mall Gazette»: colpito dal potenziale romanzesco della materia, W. Ernest Henley, direttore della «New Review», contattò immediatamente Wells per proporgli un romanzo a puntate sullo stesso tema, accordandosi con l’editore William Heinemann per la successiva pubblicazione in volume. Wells accettò, ma con grande spregiudicatezza non si peritò di fornire il testo anche a un’altra rivista, il «National Observer»: anzi, poiché a questo giornale egli trasmetteva i capitoli in tempo reale, man mano che li scriveva, mentre alla «New Review» consegnò un testo piú meditato e corretto, Henley si vide bruciato dalla concorrenza: la Macchina uscí infatti sull’«Observer» fra il marzo e il giugno del 1894, e sulla «Gazette» nei primi cinque mesi del 1895: e forse fu proprio per rivalersi sullo scrittore che Henley gli impose di allargare il capitolo XI per illustrare la «definitiva degenerazione» dell’umanità (riluttante, Wells fu costretto ad accettare, a patto che la parte aggiunta, nota come «interpolazione Henley», in seguito ripubblicata a sé stante con il titolo The grey Man, venisse esclusa dall’edizione in volume). L’edizione Heinemann uscí il 29 maggio 1895, ma, ancora una volta, a sorpresa, il 7 maggio ne era uscita un’altra presso Holt (Henry Holt and Company). Sarebbe logico supporre che, come la Heinemann riprende il testo della «Gazette» (con la menzionata espunzione), cosí la Holt riprenda il testo dell’«Observer»: ma cosí non è se non per una certa quota, sicché la filologia britannica ha avuto il suo bel da fare per districare il nodo, tantopiú che edizioni successive, con le relative traduzioni in altre lingue fra cui l’italiano, non solo si rifanno ora alla Holt ora alla Heinemann, ma contaminano le due edizioni, in qualche caso addirittura incrociandole con i testi delle due gazzette (noi, per sgombrare ogni dubbio, eccettuata la paragrafazione seguiamo rigorosamente la Heinemann). Basti qui ricordare, per dare la misura delle discordanze fra testo e testo, che nell’«Observer» il viaggio avveniva non nell’anno 802 701 ma nel 12 203, e che soprattutto mancava completamente la parte piú bella del romanzo, la «visione ulteriore» della Terra popolata solo da enormi crostacei: parte opportunamente reintegrata nell’edizione Holt grazie a un’evidente operazione di pirateria editoriale.
Nella sua autobiografia Wells lascia intendere di aver scritto La Macchina del Tempo a grande velocità, e, dopo una prima fase di conversione romanzesca degli articoli apparsi sulla «Pall Mall Gazette», quasi in stato di trance, ma al tempo stesso con la consapevolezza che una storia del genere doveva essere raccontata con un tono di normalità inversamente proporzionale alla sua incredibilità: «Capii che piú era inverosimile la storia che dovevo raccontare, piú ordinaria doveva essere l’ambientazione, e le circostanze in cui avevo posto il Viaggiatore del Tempo corrispondevano a tutto quello che potevo immaginare circa il comfort di una solida classe medio-alta». Naturalmente, per lui, l’incredibilità era tutta a carico della macchina in se stessa, perché la trasformazione dell’umanità nelle due razze distinte dei Morlock e degli Eloj corrispondeva quasi deduttivamente ai principî dell’evoluzionismo, per quanto l’enorme estensione del lasso di tempo interessato la configurasse pur sempre come «mera fantasia» rispetto al futuro piú ravvicinato dipinto in altri romanzi11. In ogni caso l’immediato successo del libro accelerò il distacco dall’accademia, instillando in Wells la persuasione di essere in tutto e per tutto uno scrittore («In primavera avrei pubblicato un libro, e sarei passato dallo status di giornalista – oltretutto di giornalista “occasionale” e anonimo – all’autorevolezza di chi scrive a nome proprio»; «Nel giro di due o tre anni fui salutato come un secondo Dickens, un secondo Bulwer Lytton e un secondo Verne […]; per diventare, quando mi dedicai ai racconti brevi, un secondo Kipling»)12, anche se in seguito, a piú riprese, egli si interrogò sul proprio valore e sulla propria personalità artistica. In particolare lo turbava la consapevolezza, indotta anche dalla severità non certo del pubblico ma della critica, di non creare mai dei personaggi profondi e compiuti («Tutti i personaggi di Wells sono piatti come fotografie», fu ad esempio il lapidario verdetto di Forster)13. Su questo aspetto egli discusse a lungo con l’amico Henry James, pubblicando anche diversi articoli nei quali, facendo di necessità virtú, sosteneva che in un romanzo l’idea o l’invenzione contano piú della creazione dei personaggi (compito riservato a Dio, poiché «va al di là del potere dell’uomo “creare” in assoluto degli individui»): «In quei primi anni di questo secolo non me ne rendevo conto cosí chiaramente, ma nel 1912 scrissi una sorta di pronunciamento contro l’ossessione del “personaggio”». Per questa via egli giunse a prendere le distanze da scrittori inizialmente ammirati come Conrad e lo stesso James, fino al punto di definirsi provocatoriamente (vezzo che lo accomuna a Kipling) un «giornalista»14.
Wells, che fin dall’i...