Su una cosa eravamo d’accordo, mia moglie e io: non potevamo reggere l’onda d’urto dell’arrivo di Penny senza un aiuto. I miei suoceri vivono a Firenze e potevano darci una mano ogni tanto, ma i nostri rispettivi lavori imponevano una presenza quasi fissa in casa. Io ero spesso in ufficio o nel mio studio. Lei, oltre all’impegno come attrice, stava scrivendo un manuale di naturopatia e aveva bisogno di qualche ora tranquilla tra una poppata e l’altra. La faccenda era seria e necessitava di una soluzione urgente. Claudia lanciò un accorato Sos tra le sue amiche e nelle chat delle neomamme (ho scoperto che sono una massoneria potentissima, governano il mondo senza dare nell’occhio). Arrivarono decine di segnalazioni, ma una in particolare la colpí subito: Kimberlee, una ragazza italo-inglese sui venticinque anni, super referenziata, una specie di Mary Poppins in erba che, misteriosamente, non restava a lungo a servizio nelle famiglie: ne aveva cambiate una ventina negli ultimi tre anni. Ma, nonostante questo andirivieni, ognuno dei suoi ex datori di lavoro le aveva fornito referenze eccellenti, quasi incredibili. Alcune di queste valutazioni furono anche verificate telefonicamente. Erano vere. A giudicare dal curriculum, Kimberlee era la persona giusta, una ragazza raffinata, efficiente, dinamica, sempre di buonumore. Un gioiello.
– La incontro giovedí e, se va bene, la facciamo cominciare subito, – disse Claudia. – Cosí può anche dare qualche lezione di inglese a Penny, a me e, soprattutto, a te.
Inutile ribattere che Penny aveva due mesi e io quasi cinquant’anni, due età alle quali è difficile apprendere qualcosa. Per mia figlia troppo presto, per me troppo tardi.
Quel giovedí sera rientrai a casa dal lavoro e mi trovai davanti una sconosciuta. Era la tata inglese di cui sopra.
– Hi, I’m Kimberlee.
– Hi Kimberlee, nice to meet you, I’m Fausto, – risposi utilizzando tutte le cartucce di inglese a mia disposizione.
Quello che mi colpí subito di lei non fu però la perfetta dizione british e nemmeno l’educazione e la cultura, o il fatto che sapesse suonare il pianoforte o che fosse una ex promessa del nuoto. No. C’era un altro talento piú evidente, a malapena nascosto da una gonnellina e una magliettina azzurra. Kimberlee era, decisamente, uno schianto. Non dico una bella ragazza, no no, proprio uno splendore, una modella atletica e formosa da copertina di «Vogue» con un sorriso disarmante che solo le anglosassoni hanno in dotazione. Sembrava Jennifer Aniston ai tempi della prima stagione di Friends. Chissà perché il mio sesto senso mi diceva che era stata appena scartata da Claudia al colloquio. Invece, contro ogni previsione e ogni logica, mi sbagliavo.
– Lei è Kimberlee, la nuova tata di Penelope! – affermò Claudia, sopraggiungendo con fare trionfante.
Non credevo alle mie orecchie.
– Lei? Nel senso che…
– Nel senso che ora fa una settimana di prova, ma mi sembra perfetta, – certificò la mia signora.
– Anche a me… sembra… perfetta, – balbettai con un fil di voce.
– Ma se l’hai appena conosciuta…
– Infatti… dicevo cosí… a una prima impressione… che poi si sa la prima impressione è quella che conta, – tagliai corto e mi rivolsi alla nuova assunta, lanciando il cuore oltre l’ostacolo linguistico. – Where are you from, Kimberlee?
– I’m from Liverpool… – rispose con un accento che nemmeno Elton John.
– Ah Liverpool, like the Beatles. I love Beatles.
– Ma mio padre è di Latina, – precisò con un accento che nemmeno don Buro.
– Parli italiano?
– Ho fatto le elementari in Inghilterra, poi ci siamo trasferiti a Latina.
– Pensa. Bellissima Latina, tra l’altro… ci passo sempre quando vado al Circeo… una città molto sottovalutata dal punto di vista turistico…
Anche in italiano il mio livello di conversazione è parecchio scadente quando sono impegnato a capire se, sotto una maglietta, c’è o no un reggiseno.
Il quarto d’ora successivo intavolai una piccola trattativa sul mensile (cedetti subito, perché una tata cosí non volevo mica perderla) e congedammo la ragazza dandole appuntamento al lunedí per iniziare il lavoro. Naturalmente, da buon padre di famiglia avevo insistito per averla in servizio full time.
– Amore, hai bisogno di riposare. Iniziamo a farle fare tutto il giorno, poi vediamo come ci troviamo.
Dopo che se ne fu andata, capii il perché di quella bizzarra e inaspettata assunzione. Per mia moglie, Kimberlee era una ragazza, come dire… bruttina.
– Hai visto che ha pure un dente mezzo storto? Un canino.
Oddio, devo ammettere che il canino mezzo storto mi era sfuggito, ma definirla bruttina per un problema che un odontotecnico risolve in mezz’ora era davvero esagerato.
– Cioè a te questa Kimberlee sembra bruttina? – chiesi timidamente.
– Perché, a te no? – specchio riflesso immediato di Claudia.
Sapevo che era una domanda a trabocchetto, le riconosco lontano anni luce, quindi risposi con un piccolo capolavoro di diplomazia:
– Bruttina no, ma sai, una di quelle insipide biondine che non sanno di niente?
– Infatti, – concluse lei. – È quello che ho pensato subito: questa a Fausto non piace sicuro perché è sciapa, non sa di niente. Perciò l’ho scelta. Non voglio certo mettermi il nemico in casa.
– Giustissimo.
– Hai visto poi che caviglie grosse?
– Sai che è la prima cosa che ho notato, le caviglie grosse? Non si possono vedere le caviglie grosse in una bella ragazza, figuriamoci in una «cosí cosí».
Nemmeno nel pieno della menzogna riuscivo ad abbinare l’aggettivo «bruttina» a Kimberlee.
Ora, è chiaro da sempre a tutti gli uomini che le donne non ci capiscono niente di bellezza femminile. È una vita che incontro ragazze definite «carine» dalle amiche che si rivelano un’atroce delusione, ma era la prima volta che un giudizio risultava cosí fuori bersaglio. L’analisi dei piccoli difetti che Claudia aveva effettuato vivisezionando la nuova tata le aveva impedito di osservare l’insieme e classificarlo correttamente. Aveva stimato il valore di una Ferrari dai graffi sulla carrozzeria.
Quando mi sentivo ormai tranquillo, la mia dolce consorte infilò i suoi occhi dentro ai miei per la domanda delle domande. Piú che un trabocchetto, una trappola per tigri siberiane.
– Lo sai che il trenta per cento degli uomini tradisce la moglie con la baby-sitter?
Non feci una piega, come un baro consumato:
– Davvero? Pensa te, curioso. Però non sarà questo il caso. A me questa Kimberlee proprio… – sfoderai una faccia schifata ma non troppo. Non volevo strafare nella recitazione destando sospetti.
Claudia sembrava convinta. Era fatta. Ora lo so cosa state pensando: il solito dongiovanni da strapazzo di mezz’età che vuole provarci con la baby-sitter. Vi assicuro che, in questo caso, il mio era un interesse puramente estetico.
Qui, se questo fosse un monologo e non un libro, ci starebbe benissimo una pausa molto lunga. Lo so che non vi ho convinti, lo percepisco distintamente. In ogni caso, sono certo che rimarrete ammirati dalla strategia ideata da Claudia per tenere Kimberlee, bruttina o no che fosse, lontana da ogni possibile mia tentazione: le aveva chiesto di conversare con noi e la bimba sempre e soltanto in inglese.
Nooooo, in inglese no! Era una cattiveria. Peggio, un sopruso.
La tata era autorizzata a utilizzare la lingua italiana solo in caso di emergenza, e la mia padronanza della lingua di Shakespeare è tale da spingermi a non rischiare una conversazione che non vada oltre i commenti sul clima e sul pranzo. Non avendo degli addominali scolpiti nel marmo, o il profilo di Brad Pitt, l’unica mia arma di seduzione, fin dalle scuole medie, è l’eloquio. Se mi viene tolta l’arma delle chiacchiere piú o meno spiritose, non mi resta quasi nulla.
Chapeau, amore mio!
Il lunedí seguente Claudia, Penny e Kimberlee passarono a trovarmi in studio. Ero impegnato a scrivere un nuovo film in compagnia di un paio di colleghi sceneggiatori. Che naturalmente restarono folgorati dall’inglesina.
– Come hai fatto a convincere Claudia? – mi chiesero quasi in coro, dopo che se n’erano andate.
– Veramente è lei che ha insistito.
– Ma è pazza? – fece uno di loro.
– Se un giorno la licenzi, la assumo io, – incalzò l’altro.
– Ma non hai figli, – ribattei.
– Li faccio con lei, cosí non perde il lavoro, – rispose lui con un sorriso complice.
Dal mattino seguente i miei premurosi colleghi insistettero per lavorare a casa mia al fine, nemmeno tanto nascosto, di poter scambiare quattro chiacchiere con la mia procace bambinaia. Pranzavamo tutti insieme come una allegra comitiva, dimenticandoci completamente della scrittura del film.
Dopo alcuni giorni Claudia cominciò a mostrare insofferenza per questa insolita invasione di campo.
– Ma perché non scrivete piú nel tuo studio?
– I ragazzi sono di strada a venire qui. E poi sanno che preferisco stare a casa in questo periodo, cosí vedo di piú Penny. Sono molto gentili, – replicai improvvisando.
– Ecco, va bene, ringraziali. Da domani, però, scrivete dove vi pare ma non qui. Non è mica un campeggio.
A malincuore, tornammo nel mio studio che è allestito con ogni gadget necessario per intrattenere gli adolescenti: dal calcio balilla ai videogiochi passando per il fondamentale Subbuteo. Non avevo mai pensato di aggiungere una tata. Avrei rimediato alla prossima ristrutturazione.
Kimberlee, devo ammetterlo, era davvero brava nel suo lavoro. Dolce con la bambina, attenta e per nulla invadente. Una baby-sitter perfetta. L’avremmo tenuta a lungo se… no, non è successo quello che state sospettando dall’inizio del capitolo.
Una sera, Claudia e io andammo a un aperitivo organizzato da uno dei miei due colleghi per il suo compleanno. Era la sera libera della tata e Penny era rimasta con la nonna che era venuta a Roma per qualche giorno. Entrammo nel locale, e la prima cosa che Claudia vide fu Kimberlee seduta al bancone accanto al mio amico, che flirtava allegramente con lei. Era vestita con calzoncini e canotta. In fondo era quasi estate, pensai.
La salutammo cordialmente e Claudia la tenne d’occhio per l’intera durata dell’aperitivo. La nostra tata era senza ombra di dubbio il centro spumeggiante dell’attenzione dei maschi presenti. Tutti le rivolsero la parola, sfoggiando il loro inglese scolastico prima di scoprire che era di Latina e tirare un indigeno sospiro di sollievo.
Mia moglie cominciò a fare domande in giro e capí che i nostri amici consideravano Kimberlee decisamente da urlo.
– Amore, – mi chiese senza giri di parole, – ma a te piace quella?
– Be’… brutta non è.
– Ma avevi detto che non ti piacev...