Per chi ama l’avventura, provare stupore è importante. È una delle forme piú pure di gioia che io conosca. È una sensazione stupenda. Mi capita di provarla un po’ ovunque, quando viaggio, leggo, incontro delle persone, sento il cuore che batte, vedo sorgere il sole. Nasciamo con il dono dello stupore, è una delle nostre abilità piú belle. E non mi stupisco soltanto in veste di esploratore, ma anche di papà o editore. È una sensazione che mi appaga. Soprattutto se non c’è nessuno a disturbarmi.
I ricercatori possono trovare delle verità. Mi sarebbe piaciuto fare questo lavoro, ma ho capito che non fa per me. Finora ho cambiato idea quasi su tutto. Mi stupisco per il gusto di stupirmi. È una sensazione fine a sé stessa, un piccolo viaggio di scoperta, anche se a volte può essere il seme che genera maggiore conoscenza.
Altre volte capita invece che mi stupisca non perché lo voglio, ma perché non posso farne a meno. Mi ritorna in mente qualcosa che è successo, di spiacevole. Un pensiero, un’esperienza. Ho lo stomaco che mi si contorce, e non posso fare a meno di chiedermi come mai.
Una sera mia cugina si è fermata da me a cena e mi ha regalato una raccolta di poesie di Jon Fosse. Dopo che se n’è andata, mi sono messo a letto e ho preso a sfogliare il libro. Poco prima di spegnere la luce, sono rimasto colpito da queste parole: «Esiste un amore che nessuno si ricorda»… Cosa intendeva dire l’autore con questo verso? Un amore invisibile ormai dimenticato? Si riferiva forse al silenzio? Ho chiuso la raccolta di poesie e sono rimasto sdraiato a pensare. I bravi poeti mi fanno venire in mente i grandi esploratori. Le loro parole, scelte cosí accuratamente, stimolano la mia immaginazione, un po’ come i resoconti di viaggio che leggevo da bambino. Prima di addormentarmi, ho deciso che l’indomani avrei scritto a Fosse per capirci di piú.
«In un certo senso è il silenzio che deve parlare», mi ha risposto sei minuti dopo che gli avevo mandato un’e-mail. Sembrava quasi che stesse aspettando la mia domanda, ma non era affatto cosí, non ci sentivamo da secoli.
Il silenzio ha per l’appunto un compito, deve parlare. Deve dirci delle cose, e noi dobbiamo parlare con lui e sfruttare il suo potenziale inespresso.
Forse perché il silenzio contiene in sé lo stupore, ma anche una specie di violenza, un po’ come l’oceano o una distesa sconfinata di neve. E chi non si è stupito davanti a questa violenza ne ha avuto paura. È per questo che molti temono il silenzio e che la musica è dappertutto e sovrasta tutto.
Ho ben presente la paura di cui scrive Fosse. Una sottile inquietudine nei confronti di qualcosa che conosco a malapena e mi induce a non essere presente a me stesso, tenermi occupato in qualche modo, evitare il silenzio, tuffarmi a capofitto in qualche nuova attività. Mando sms, ascolto musica, accendo la radio oppure lascio correre i pensieri, invece di resistere e magari chiudere fuori il mondo per un istante.
Io credo che la paura a cui Fosse non dà un nome sia il timore di conoscersi meglio. Mi sento un codardo ogni volta che evito di guardarmi dentro.
L’Antartide è il luogo piú silenzioso in cui sia mai stato. Sono andato da solo al Polo Sud, e in quel paesaggio monotono che si stendeva innanzi a me a perdita d’occhio non si udivano altri rumori umani se non i miei. Da solo sul ghiaccio, circondato da un grande nulla bianco, riuscivo a sentire e a percepire il silenzio.
La compagnia che mi aveva trasportato fino al margine settentrionale dell’Antartico mi aveva obbligato a prendere con me una radio. Poco prima di scendere dall’aereo buttai le batterie nel cestino della spazzatura.
Tutto mi sembrava uniformemente bianco, chilometro dopo chilometro, mentre mi avvicinavo all’orizzonte e attraversavo il continente piú freddo del mondo. Sotto i miei piedi trenta milioni di chilometri cubi di ghiaccio premevano sulla superficie terrestre.
Ero completamente solo. Col passare del tempo, iniziai però a notare che il paesaggio non era poi cosí uniforme. Il ghiaccio e la neve creavano formazioni astratte piccole e grandi. Il biancore omogeneo rivelava innumerevoli sfumature di colore. La neve era screziata di azzurro, di rosso, di verde e perfino di rosa. Mi sembrava che la natura mutasse sotto i miei occhi, ma mi sbagliavo. Il paesaggio rimaneva lo stesso, ero io che cambiavo. Nel mio diario, il ventiduesimo giorno, scrissi:
A casa mi godo solo i grandi bocconi. Quaggiú invece imparo a dare valore ai piccoli piaceri. Le sfumature di colore della neve. Il vento che si placa. Una bevanda calda. Le formazioni di nuvole. Il silenzio.
Mi ricordo che da bambino ero affascinato dalla chiocciola, capace di trasportare ovunque la sua casetta. In Antartide, la mia fascinazione per la chiocciola crebbe a dismisura. Tutto quello che mi serviva per il viaggio, cibo, attrezzature, combustibile, me lo portavo dietro su una slitta. Non aprii mai bocca. Stetti in silenzio. Non ebbi contatti né via radio, né via Internet, e per cinquanta giorni non vidi anima viva. Ogni giorno proseguivo verso sud, e anche quando mi arrabbiavo perché mi si rompeva un attacco, oppure stavo per cadere in un crepaccio, cercavo di non imprecare; le imprecazioni hanno un effetto deprimente, l’umore, già nero, peggiora ancora di piú. Ecco perché non do in escandescenze durante i miei viaggi.
A casa c’è sempre un’automobile che passa, un telefono che squilla, che fischia o che vibra, qualcuno che chiacchiera, sussurra o grida. Alla fine i rumori sono cosí tanti che li sentiamo a malapena. In Antartide era totalmente diverso. La natura mi parlava nel silenzio. Piú era totale, e piú distinguevo i rumori.
Ogni volta che facevo una pausa e che non c’era vento, avvertivo un silenzio assordante. Persino la neve sembrava immobile. Iniziai a prestare sempre piú attenzione al mondo di cui facevo parte perché non perdevo la concentrazione, né venivo disturbato. Ero da solo con le mie fantasie e i miei pensieri. Il futuro non contava piú niente, del passato non mi importava nulla, all’improvviso ero presente a me stesso. Il filosofo Martin Heidegger sosteneva che il mondo scompare non appena ci entri dentro. Era proprio quello che stava accadendo a me.
Mi sentivo un prolungamento dell’ambiente circostante. Poiché non avevo nessuno con cui parlare, stabilii un dialogo con la natura. I pensieri solcavano le pianure e arrivavano fino alle montagne, e mi ritornavano indietro altre suggestioni.
Nel diario della mia spedizione verso sud annotai quanto sia facile pensare che un continente inaccessibile, poco fruibile, non abbia valore. Dobbiamo esserci stati, averlo fotografato e condividere le sue immagini perché acquisti importanza.
L’Antartide continua a essere un continente lontano e sconosciuto ai piú. Mentre lo attraverso, spero che rimanga cosí. Non perché non voglio che altri facciano la mia stessa esperienza, ma perché sento che l’Antartide ha come missione quella di essere un territorio sconosciuto,
scrissi il ventisettesimo giorno. Sono ancora convinto che per noi sia importante sapere che esistono territori non del tutto esplorati e conosciuti, l’Antartide è un continente misterioso e quasi intatto «che può essere uno stato della fantasia», e in futuro il suo maggior valore per l’umanità potrebbe essere proprio questo.
Se si vuole raggiungere il Polo Sud, si deve mettere un piede davanti all’altro un buon numero di volte. Il procedimento, da un punto di vista puramente tecnico, è molto semplice. Anche un topolino può mangiare un elefante, basta che le porzioni siano piccolissime. Tutto sta nel volerlo. La sfida piú difficile è alzarsi alla mattina quando fuori ci sono cinquanta gradi sotto zero. Oggi, cosí come ai tempi di Roald Amundsen e di Robert Scott. E la seconda sfida piú difficile? Stare bene con sé stessi.
Il silenzio è entrato a far parte della mia vita. Senza contatti con il mondo esterno, solo con me e con i miei pensieri, sono stato costretto a riprendere alcune riflessioni. E ancora peggio, a meditare sui miei sentimenti. L’Antartide è la distesa desertica piú grande del mondo, fatta di acqua, con piú ore di sole della California meridionale. Non ci sono posti in cui ci si può nascondere. Le piccole bugie e le mezze verità quotidiane che ci raccontiamo nel mondo civilizzato, viste da lontano appaiono totalmente prive di senso.
Forse sto dando l’impressione di filosofeggiare, ma non è cosí. A volte il gelo e il vento mi imprigionavano in una morsa. Avevo un freddo cosí terribile da mettermi a piangere. Un giorno, il naso, le dita dei piedi e delle mani diventarono sempre piú bianchi e persero la sensibilità. Il dolore si avverte quando le parti del corpo stanno per congelare, poi scompare. Ritorna quando iniziano a scongelarsi. Tutta l’energia che avevo la usavo per scaldarmi. Lo scongelamento è piú doloroso del congelamento. Quello stesso giorno, dopo che nel mio corpo era ritornato il calore, ritrovai l’energia per sognare a occhi aperti.
Al Polo Sud gli americani hanno costruito una base. Gli scienziati e i tecnici addetti alla manutenzione vi abitano per molti mesi di fila, isolati dal mondo. Un anno, a festeggiare il Natale, si ritrovarono in novantanove. Uno di loro era riuscito a introdurre di nascosto novantanove sassi che distribuí in dono, tenendone uno per sé. Nessuno vedeva un sasso da mesi. Alcuni da piú di un anno. Solo ghiaccio, neve e oggetti creati dall’uomo. Tutti rimasero in silenzio a guardare e a toccare il loro regalo. Lo tennero in mano, lo soppesarono senza dire una parola.
Nella mia marcia di avvicinamento al Polo Sud immaginai che il volto che ci pare di vedere quando guardiamo la luna stesse osservando la Terra. Nessun rumore del nostro pianeta, lontano trecentonovantamila chilometri, arrivava fin lassú, ma la luna poteva vedere il globo terrestre e allungare lo sguardo fino a sud, dove scorgeva un ragazzo con addosso un parka blu che avanzava sul ghiaccio e la sera montava una tenda. Il giorno dopo accadeva lo stesso. La luna vedeva lo sciatore proseguire nella medesima direzione settimana dopo settimana. Avrà pensato che fossi pazzo. Quell’idea un po’ mi deprimeva mentre proseguivo la mia marcia solitaria.
Un tardo pomeriggio, poco prima di togliermi gli sci e di montare la tenda, alzai lo sguardo al cielo e notai che la luna aveva spostato lo sguardo verso nord. Migliaia, se non milioni di uomini, lasciavano le loro minuscole abitazioni al mattino presto per ritrovarsi in coda e rimanerci a volte solo per alcuni minuti, altre anche per un’ora. Come in un film muto. Raggiunto un grande edificio, trascorrevano otto, dieci o anche dodici ore davanti a uno schermo, per poi ritornare a casa rimettendosi di nuovo in coda. Cenavano e guardavano il telegiornale alla stessa ora, ogni sera, anno dopo anno.
All’improvviso pensai che, alla fine, chi si dava piú da fare avrebbe avuto come unico premio una casa un po’ piú grande in cui dormire la notte. Quando a fine giornata mi tolsi gli sci per poi montare la tenda, mi sentii piú in pace con me stesso.