Critica della facoltà di giudizio
  1. 416 pagine
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Informazioni su questo libro

È una rigorosa «critica del gusto» che ha il suo centro nell'universale comunicabilità di esseri razionali e finiti quali sono gli uomini, ed è come tale premessa essenziale dell'intero svolgimento dell'estetica successiva. Ma la riflessione che essa svolge è estetica e mediatamente anche logica, e coinvolge molti altri temi strettamente interconnessi. Sempre su base estetica, vi si delinea infatti, innanzi tutto, una modernissima epistemologia, un esame critico del finalismo che sarebbe proprio della cosiddetta «materia vivente» (del quale Kant dà una versione singolarmente avanzata per i suoi tempi e forse oggi ancora insuperata) e infine una giustificazione e delimitazione del pensare filosofico. Nell'estetica kantiana è quindi ricompreso il problema che la filosofia critica pone a se stessa, in quanto questa non è giustificata dalle condizioni del conoscere che si sforza di esplicitare ed è tuttavia indispensabile per la comprensione dell'esperienza in genere e di quella universale comunicabilità che è il lascito prezioso (e tutt'altro che assimilabile a una «metafisica della ragione») dell'illuminismo kantiano.

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Informazioni

Prima parte della
Critica della facoltà di giudizio

Critica della facoltà estetica di giudizio

Prima sezione
Analitica della facoltà estetica di giudizio
Primo libro

Analitica del bello

Primo momento del giudizio di gustoa secondo la qualità.

§ 1. Il giudizio di gusto è estetico.

Per distinguere se qualcosa è bello o no, noi riferiamo la rappresentazione non all’oggetto mediante l’intelletto, per la conoscenza, ma al soggetto e al suo sentimento del piacere o del dispiacere mediante l’immaginazione (forse legata con l’intelletto). Quindi il giudizio di gusto non è un giudizio di conoscenza, e dunque logico, ma è estetico, intendendosi con ciò che il suo principio di determinazione non può essere a l t r i m e n t i c h e s o g g e t t i v o . Ma ogni riferimento delle rappresentazioni può essere oggettivo, perfino quello delle sensazioni (e allora esso denota ciò che di una rappresentazione empirica è reale), escluso solo il riferimento al sentimento del piacere o del dispiacere, con il quale nulla viene designato nell’oggetto, ma nel quale il soggetto sente se stesso secondo il modo in cui è affetto dalla rappresentazione.
Cogliere con la propria facoltà conoscitiva (in un modo rappresentativo distinto o confuso che sia) un edificio regolare e conforme a scopi è tutt’altra cosa dall’essere coscienti di questa rappresentazione con una sensazione di compiacimento. Qui la rappresentazione viene riferita interamente al soggetto, e cioè al suo sentimento vitale, sotto il nome di sentimento del piacere o del dispiacere: il quale fonda una facoltà di distinguere e di giudicare del tutto speciale, che non contribuisce in nulla alla conoscenza, ma solo pone la rappresentazione data, nel soggetto, a fronte dell’intera facoltà delle rappresentazioni, e di ciò l’animo diviene cosciente nel sentimento del proprio stato. Rappresentazioni date, in un giudizio, possono essere empiriche (e perciò estetiche), eppure il giudizio che vien dato mediante esse è logico, se solo, nel giudizio, le rappresentazioni siano riferite all’oggetto. Viceversa però, se le rappresentazioni date fossero addirittura razionali, ma venissero tuttavia riferite in un giudizio esclusivamente al soggetto (al suo sentimento), allora esse sarebbero in tal caso sempre estetiche.

§ 2. Il compiacimento che determina il giudizio di gusto è senza alcun interesse.

È detto interesse il compiacimento che leghiamo con la rappresentazione dell’esistenza di un oggetto. Perciò un tale interesse ha sempre riferimento nello stesso tempo alla facoltà di desiderare, o in quanto suo principio di determinazione oppure in quanto connesso necessariamente al suo principio di determinazione. Ora però, essendo in questione se qualcosa sia bello, si vuole sapere non se a noi o a chicchessia importi qualcosa, o anche solo possa importare, dell’esistenza della cosa, ma come noi la giudichiamo nel semplice riguardarla (con l’intuizione o la riflessione). Se qualcuno mi domanda se trovo bello il palazzo che vedo dinanzi a me, mi è certo lecito rispondere che non amo simili cose, fatte solo per lasciare a bocca aperta, oppure al modo di quel sachem irochese: che a Parigi niente gli piaceva di piú delle trattorie1; per di piú posso ancora deprecare in buono stile r o u s s o i a n o la boria dei grandi, che impiegano il sudore del popolo in cose tanto superflue; infine posso addirittura convincermi assai facilmente che, se mi trovassi su un’isola disabitata, senza speranza di ritornare mai tra gli uomini, e potessi far apparire d’incanto, esprimendo un semplice desiderio, un tale sontuoso edificio, non mi darei neppure questa briga, se già avessi una capanna per me abbastanza comoda. Si può concedermi e approvare tutto ciò; solo che ora non si tratta di questo. Si vuole sapere soltanto se la semplice rappresentazione dell’oggetto sia accompagnata in me da compiacimento, non importa quanto indifferente io possa essere nei riguardi dell’esistenza dell’oggetto di questa rappresentazione. Per dire che un oggetto è bello e dimostrare che ho gusto, si vede subito che importa ciò che io faccio in me stesso di questa rappresentazione, e non ciò per cui io dipendo dall’esistenza dell’oggetto. Chiunque deve ammettere che quel giudizio sulla bellezza in cui si mischi il minimo interesse è assai parziale e non è un giudizio di gusto puro. Si deve essere non minimamente presi dall’esistenza della cosa, ma del tutto indifferenti al proposito, per fare da giudici in questioni di gusto.
Ma non possiamo chiarire meglio questa proposizione, che è di primaria importanza, se non contrapponendo al compiacimento puro e disinteressatob del giudizio di gusto quello che è legato a un interesse, soprattutto se nello stesso tempo possiamo essere certi che non ci siano altre specie di interesse oltre a quelle di cui ora dobbiamo dire.

§ 3. Il compiacimento per il p i a c e v o l e è legato a un interesse.

P i a c e v o l e è c i ò c h e p i a c e a i s e n s i n e l l a s e n s a z i o n e . E qui si presenta subito l’occasione di disapprovare, richiamandovi l’attenzione, uno scambio comunissimo tra i due significati che può avere la parola sensazione. Ogni compiacimento (si dice o si pensa) è già sensazione (di un piacere). Perciò tutto ciò che piace, appunto per il fatto che piace, è piacevole (e, secondo i diversi gradi o anche secondo le relazioni con altre sensazioni piacevoli, è g r a z i o s o , a m a b i l e , d i l e t t e v o l e , g r a d e v o l e , e cosí via). Ma, se si concede questo, allora diventano del tutto identici, per quanto riguarda l’effetto sul sentimento del piacere, le impressioni dei sensi che determinano l’inclinazione, o i principî della ragione che determinano la volontà, o le semplici forme riflesse dell’intuizione che determinano la facoltà di giudizio. Infatti questo effetto sarebbe la piacevolezza che si prova nella sensazione del proprio stato, e, poiché infine tutto il lavoro con le nostre facoltà deve risolversi nel pratico e unirvisi come nel suo obiettivo, allora non si potrebbe attribuire ad esse alcuna altra valutazione delle cose e del loro valore che quella consistente nel diletto che promettono. In definitiva, il modo in cui vi giungono non conta; e, poiché al proposito solo la scelta dei mezzi può fare una differenza, gli uomini potrebbero, sí, accusarsi l’un l’altro di stoltezza e dissennatezza, ma non mai di bassezza e di malvagità, dal momento che tutti, ciascuno secondo il suo modo di vedere le cose, si volgono verso quell’obiettivo che per ognuno è il diletto.
Quando si chiama sensazione una determinazione del sentimento del piacere o del dispiacere, questa espressione significa qualcosa di completamente diverso rispetto a quando chiamo sensazione la rappresentazione di una cosa (mediante i sensi, in quanto ricettività che compete alla facoltà conoscitiva). Perché nell’ultimo caso la rappresentazione viene riferita all’oggetto, mentre nel primo unicamente al soggetto, e non serve affatto a una conoscenza, neppure a quella con la quale il soggetto stesso si c o n o s c e .
Ma, con la spiegazione appena fornita, noi intendiamo con la parola sensazione una rappresentazione oggettiva dei sensi; e, per non correre continuamente il rischio di essere fraintesi, decidiamo di chiamare con il nome, del resto usuale, di sentimento ciò che deve restare sempre semplicemente soggettivo e che non può assolutamente costituire una rappresentazione di un oggetto. Il colore verde dei prati compete alla sensazione o g g e t t i v a , quale percezione di un oggetto del senso; ma la sua piacevolezza compete alla sensazione s o g g e t t i v a , con cui non viene rappresentato un oggetto, e cioè al sentimento, con il quale l’oggetto viene considerato come oggetto di compiacimento (che non è una sua conoscenza).
Ora, che il mio giudizio su un oggetto, con il quale lo dichiaro piacevole, esprima un interesse per l’oggetto stesso risulta già chiaro dal fatto che questo suscita attraverso la sensazione il desiderio di oggetti simili, e di conseguenza il compiacimento presuppone non un semplice giudizio su di esso, ma il riferimento della sua esistenza al mio stato, in quanto affetto da un tale oggetto. Perciò del piacevole si dice non semplicemente che p i a c e , ma che d i l e t t a . Non è una semplice approvazione quella che gli dedico, ma si produce con ciò un’inclinazione; e a ciò che è piacevole nel modo piú vivo compete tanto poco un giudizio sulla qualità dell’oggetto, che coloro che mirano sempre e solo al godimento (poiché è questa l’espressione con cui si indica ciò che intimamente costituisce il diletto) si dispensano spesso e volentieri da ogni giudicare.

§ 4. Il compiacimento p e r i l b u o n o è legato a un interesse.

B u o n o è ciò che, per mezzo della ragione, piace mediante il semplice concetto. Chiamiamo b u o n o - a (l’utile) qualcosa che piace solo come mezzo; ma chiamiamo b u o n o i n s é qualcosa che piace per se stesso. In entrambi è sempre contenuto il concetto di uno scopo, quindi il rapporto della ragione con il volere (almeno possibile), e di conseguenza un compiacimento per l’e s i s t e n z a di un oggetto o di un’azione, cioè un qualche interesse.
Per trovare buono qualcosa, debbo sempre sapere che cosa deve essere l’oggetto, cioè averne un concetto. Per trovarvi la bellezza, non ne ho bisogno. Fiori, disegni liberi, linee intrecciate tra di loro senza intento, che vanno sotto il nome di fogliame, non significano niente, non dipendono da un concetto determinato, eppure piacciono. Il compiacimento per il bello deve dipendere dalla riflessione su un oggetto, che conduce a un qualche concetto (ma senza che sia determinato quale), e perciò si distingue anche dal piacevole, che riposa completamente sulla sensazione.
In molti casi, è vero, il piacevole sembra fare tutt’uno col buono. In questo senso si dice comunemente: ogni diletto (soprattutto se durevole) è in se stesso buono; il che all’incirca vorrebbe dire che l’essere durevolmente piacevole e l’essere buono fanno tutt’uno. Ma si può subito notare che questo è semplicemente un erroneo scambio di parole, poiché i concetti che propriamente corrispondono a queste espressioni non possono in alcun modo essere scambiati l’uno con l’altro. Il piacevole, che come tale rappresenta l’oggetto unicamente in riferimento al senso, deve essere innanzi tutto riportato mediante il concetto di uno scopo sotto principî della ragione perché si possa chiamarlo, come oggetto della volontà, buono. Ma che si tratti di un riferimento del tutto diverso al compiacimento, quando nello stesso tempo chiamo buono ciò che mi diletta, può essere ricavato dal fatto che nel buono si pone sempre la domanda se esso sia solo mediatamente buono oppure immediatamente buono (se utile o buono in sé); là dove invece nel piacevole tale domanda non può porsi affatto, dato che la parola significa sempre qualcosa che piace immediatamente. (E altrettanto accade anche con ciò che chiamo bello).
Anche nei discorsi piú comuni si distingue il piacevole dal buono. Di un piatto, che esalta il gusto con spezie e altri condimenti, si dice senza esitazione che è piacevole, e si riconosce nello stesso tempo che non è buono, dal momento che è, sí, immediatamente gradito al senso, ma poi dispiace se considerato mediatamente, cioè con la ragione, che ne vede le conseguenze ulteriori. Inoltre, anche quando si giudica della salute, si può notare questa distinzione. Essa è, sí, immediatamente piacevole per chiunque la possegga (almeno negativamente, vale a dire come ciò che tiene lontani tutti i dolori fisici). Ma, per dire che è buona, bisogna che inoltre la si indirizzi a scopi mediante la ragione, vale a dire che essa sia uno stato che ci dispone a tutte le nostre occupazioni. Dal punto di vista della felicità, ognuno crede in definitiva di poter chiamare vero bene, addirittura il sommo bene, la maggiore somma (tanto per la quantità che per la durata) delle cose piacevoli della vita. E tuttavia anche a ciò si oppone la ragione. La piacevolezza è godimento. Ma, se si riponesse tutto in esso, sarebbe sciocco essere scrupolosi nei riguardi dei mezzi che ce lo procurano, se esso sia ottenuto passivamente dalla liberalità della natura oppure mediante la spontaneità e il nostro proprio agire. Ma che abbia un valore l’esistenza in sé di un uomo che viva semplicemente per godere (e che pure, da questo punto di vista, si dia molto da fare), perfino se egli fosse in ciò, come mezzo, del piú grande giovamento agli altri che ugualmente vanno in cerca appunto solo del godere, e proprio perché egli gode insieme a loro di ogni diletto mediante la simpatia: di ciò la ragione non si lascerebbe mai convincere. Solo per ciò che fa, senza riguardo al godimento, in piena libertà e indipendentemente da ciò che la natura, lui passivo, potrebbe procurargli, egli dà un valore assoluto alla sua esistenza in quanto esistenza di una persona; e la felicità, con tutta l’abbondanza delle sue piacevolezze, non è di gran lunga un bene incondizionatoc.
Ma, nonostante tutte queste differenze tra il piacevole e il buono, entrambi tuttavia si accordano nel fatto che sono sempre legati al loro oggetto con un interesse, non soltanto il piacevole (§ 3) e ciò che è buono mediatamente (l’utile), ciò che piace come mezzo per ottenere una qualsiasi cosa piacevole, ma anche ciò che è buono assolutamente e sotto ogni riguardo, cioè il buono morale, che comporta l’interesse piú alto. Poiché il buono è l’oggetto della volontà (cioè di una facoltà di desiderare determinata dalla ragione). Ma volere qualcosa e provare compiacimento per la sua esistenza, e quindi prendervi interesse, è identico.

§ 5. Comparazione dei tre tipi specificamente diversi del compiacimento.

Il piacevole e il buono hanno entrambi un riferimento alla facoltà di desiderare, in quanto comportano, quello, un compiacimento condizionato patologicamente (mediante eccitazioni, stimuli), questo un puro compiacimento pratico, che è determinato non solo dalla rappresentazione dell’oggetto, ma nello stesso tempo dal collegamento, in quanto rappresentato, del soggetto con l’esistenza dell’oggetto. Non piace solo l’oggetto, ma anche la sua esistenza. Quindi il giudizio di gusto è semplicemente c o n t e m p l a t i v o , cioè un giudizio che, indifferente all’esistenza di un oggetto, congiunge solo la sua qualità con il sentimento del piacere e del dispiacere. Ma questa contemplazione stessa non è neanche indirizzata a concetti, poiché il giudizio di gusto non è un giudizio di conoscenza (né teoretico, né pratico), e perciò neppure è f o n d a t o su concetti, né mira a concetti.
Il piacevole, il bello, il buono designano quindi tre diverse relazioni delle rappresentazioni al sentimento del piacere e del dispiacere, in riferimento al quale distinguiamo tra di loro oggetti o modi rappresentativi. Anche le espressioni adeguate a ciascuno di essi, con le quali si designa il compiacimento per essi, non sono le medesime. Si chiama p i a c e v o l e ciò che d i l e t t a qualcuno; b e l l o ciò che gli piace senz’altro; b u o n o ciò che s t i m a , a p p r o v a , cioè in cui pone un valore oggettivo. La piacevolezza vale anche per gli animali privi di ragione; la bellezza solo per gli uomini, cioè per esseri che sono animali, ma anche razionali, non però in quanto semplicemente razionali (per esempio gli spiriti), ma nello stesso tempo animali; il buono invece vale per ciascun essere razionale in genere. Una proposizione, che solo in seguito potrà ottenere completa giustificazione e spiegazione. Si può dire che, tra tutti questi tre tipi di compiacimento, unicamente e solamente quello del bello sia un compiacimento disinteressato e l i b e r o , dato che nessun interesse, né dei sensi, né della ragione, costringe all’approvazione. Perciò del compiacimento si potrebbe dire che esso si riferisce nei tre casi suddetti o all’i n c l i n a z i o n e , o al f a v o r e , o al r i s p e t t o . Infatti il f a v o r e è l’unico compiacimento libero. Un oggetto dell’inclinazione e un oggetto che ci è imposto di desiderare da una legge della ragione non ci lasciano alcuna libertà di farcene in qualche modo da noi stessi un oggetto del piacere. Ogni interesse presuppone un bisogno o ne produce uno; e, in quanto principio di determinazione dell’approvazione, non fa piú essere libero il giudizio sull’oggetto.
Per quanto riguarda l’interesse dell’inclinazione nel piacevole, cosí dice ognuno: che la fame è il miglior cuoco, e la gente di sano appetito gusta tutto ciò che è anche solo mangiabile; di conseguenza un tale compiacimento non dimostra una scelta dovuta al gusto. Solo se il bisogno è soddisfatto, si può distinguere chi tra tanti ha gusto o no. Allo stesso modo ci sono costumi (condotte) senza virtú, gentilezza senza benvolere, decoro senza dignità, e cosí via. Infatti, dove parla la legge morale, là non c’è piú, oggettivamente, alcuna libera scelta riguardo a ciò che si deve fare; e mostrare gusto nel modo di comportarsi (o nel giudicare quello altrui) è qualcosa di completamente diverso dall’esprimere il proprio modo di pensare morale: ché questo contiene un comando e produce un bisogno, là dove invece il gusto morale gioca soltanto con gli oggetti del compiacimento, senza aderire a nessuno di essi.
D e f i n i z i o n e d e l b e l l o d e r i v a t a d a l p r i m o m o m e n t o .
Gusto è la facoltà di giudicare un oggetto o un modo rappresentativo mediante un compiacimento, o un dispiacimento, s e n z a a l c ...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Introduzionedi Emilio Garroni e Hansmichael Hohenegger
  4. Nota sulla traduzione
  5. Critica della facoltà di giudizio
  6. Prefazione alla prima edizione, 1790
  7. Introduzione
  8. Divisione dell’intera opera
  9. Prima parte della Critica della facoltà di giudizio. Critica della facoltà estetica di giudizio
  10. Seconda parte della Critica della facoltà di giudizio. Critica della facoltà teleologica di giudizio
  11. Appendice. Dottrina del metodo della facoltà teleologica di giudizio
  12. Elenco dei nomi citati da Kant
  13. Il libro
  14. L’autore
  15. Dello stesso autore
  16. Copyright