Javier Marías
Tutte le anime
Traduzione di Glauco Felici
Einaudi
a Eric Southworth
ai miei predecessori Vicente e Félix
e a Elide
Due di loro tre sono morti dopo che ho lasciato Oxford, e ciò mi fa pensare, in maniera superstiziosa, che forse hanno aspettato che io arrivassi là e che ci consumassi il mio tempo per darmi l’occasione di conoscerli e perché adesso possa parlare di loro. Può darsi, perciò, che – sempre in maniera superstiziosa – io sia obbligato a parlare di loro. Non sono morti fino a quando io non ho smesso di frequentarli. Se fossi rimasto nelle loro vite e a Oxford (se fossi rimasto nelle loro vite in maniera quotidiana), forse sarebbero ancora vivi. Questo pensiero non è soltanto superstizioso, è anche vanitoso. Ma per parlare di loro devo anche parlare di me, e del mio soggiorno nella città di Oxford. Anche se colui che parla non è lo stesso che era là. Lo sembra, ma non è lo stesso. Se chiamo me stesso io, o se uso un nome che mi accompagna da quando sono nato o con il quale alcuni mi ricorderanno, o se racconto cose che coincidono con cose che altri potrebbero attribuirmi, o se chiamo la mia casa la casa che prima e dopo altri hanno occupato ma che io ho abitato per due anni, è soltanto perché preferisco parlare in prima persona, e non perché io creda che sia sufficiente la facoltà della memoria perché qualcuno continui a essere lo stesso in tempi diversi e in spazi diversi. Colui che qui racconta quel che vide e quel che gli capitò non è colui che lo vide né colui al quale capitò, e neppure è un suo prolungamento, una sua ombra, un suo erede, un suo usurpatore.
La mia casa aveva tre piani ed era piramidale, e vi trascorrevo molto tempo, dato che i miei impegni nella città di Oxford erano praticamente nulli o inesistenti. A dire il vero Oxford è, senza dubbio, una delle città al mondo in cui si lavora meno, e vi è molto piú decisivo l’esserci anziché il fare o anche l’agire. Essere lí richiede tale concentrazione e tale pazienza, e richiede tale sforzo il lottare contro il naturale illetargirsi dello spirito che sarebbe un’esigenza spropositata pretendere che in piú i suoi abitanti si mostrino attivi, soprattutto in pubblico, sebbene alcuni colleghi fossero soliti eseguire i loro spostamenti sempre di corsa per suscitare l’impressione di andare perpetuamente di fretta e di essere estremamente occupati negli intervalli tra lezione e lezione, le quali, tuttavia, si erano o si sarebbero svolte nella tranquillità e nella quiete piú assolute, in quanto parte dell’essere e non del fare e neppure dell’agire. Cosí era Cromer-Blake e cosí era l’Inquisitore, chiamato anche il Macellaio e lo Squartatore e il cui vero nome era Alec Dewar.
Ma chi negava tutti quei simulacri di agitazione e dava corpo e verbo alla staticità e alla stabilità del luogo era Will, il vecchio portiere dell’edificio (Institutio Tayloriana, cosí detto pomposamente e in latino) in cui ero solito lavorare con tranquillità e nella quiete. Non ho mai visto uno sguardo cosí limpido (di certo non nella mia città, Madrid, dove non esistono sguardi limpidi) come quello dell’uomo di quasi novant’anni, sottile e tirato a lucido, vestito invariabilmente con una specie di tuta blu, al quale era permesso rimanere molte mattine nella sua guardiola a vetri e dare il buongiorno ai professori man mano che entravano. Will non sapeva letteralmente in quale giorno vivesse, e perciò, senza che nessuno potesse prevedere la data da lui scelta e tanto meno sapere che cosa la determinasse, trascorreva ogni mattina in un anno diverso, viaggiando avanti e indietro per il tempo secondo la sua volontà o, meglio, probabilmente senza la sua volontà. Certi giorni, piú che credere di essere, era davvero nel 1947, o nel 1914, o nel 1935, o nel 1960, o nel 1926, o in qualunque altro degli anni della sua lunghissima vita. A volte si poteva intuire se Will si trovava in un brutto anno da una leggera espressione di timore (era un essere troppo puro perché in lui trovasse spazio l’inquietudine, in quanto assolutamente privo di senso del futuro, sempre associato a quel sentimento) che tuttavia non riusciva mai a oscurare il suo sguardo fiducioso e allegro. Si poteva immaginare che per lui una mattina del 1940 fosse dominata dalla paura dei bombardamenti della notte precedente o di quella che sarebbe venuta, e che una mattina del 1916 potesse trovarlo un po’ demoralizzato a causa delle cattive notizie che arrivavano dall’offensiva della Somme, e che una del 1930 lo avesse ridestato senza un penny in tasca e con gli occhi interrogativi e timidi di chi deve chiedere un prestito e non ha ancora deciso a chi. Altri giorni il leggerissimo appannarsi del suo immenso sorriso o del brillare del suo sguardo cosí premuroso appariva del tutto indecifrabile – neppure oggetto di affabulazione – perché senza dubbio era dovuto ad avvilimenti e dispiaceri della sua vita personale, che non avrebbero mai interessato nessun alunno e nessun professore. In quel continuo viaggiare lungo la sua esistenza, quasi tutto era insondabile per gli altri (allo stesso modo dei ritratti di secoli passati o di una fotografia scattata l’altro ieri). Come potevamo sapere in quale dolente giornata dei suoi numerosi giorni si trovava Will quando lo vedevamo salutare appena con un mezzo sorriso anziché con il gesto entusiasta delle date allegre o anche soltanto neutre? Come sapere quale tratto malinconico del suo interminabile tragitto stava percorrendo quando non alzava la mano con gesto infantile come succedeva nei giorni buoni? Quella mano alzata verticalmente che ti faceva provare la convinzione che in quella città inospitale qualcuno si rallegrava nel vederti, anche se quel qualcuno non sapeva chi fossi, o, meglio, ogni mattina ti vedeva come qualcuno diverso da quello del giorno precedente. Soltanto una volta, grazie a Cromer-Blake, ho saputo in quale preciso momento della sua vita senza soprassalti, trascorsa per tante ore dietro i vetri della sua guardiola, si trovava Will. Cromer-Blake aspettò sulla porta dell’edificio che io arrivassi e mi avvisò:
– Di’ qualcosa a Will, qualche parola per consolarlo. Sembra che oggi stia vivendo il giorno del 1962 in cui è morta sua moglie, e si dispiacerebbe molto se qualcuno di noi facesse finta di niente passando davanti a lui. È molto triste, ma il suo naturale buonumore gli permette di approfittare del suo protagonismo di oggi quanto basta per non fargli perdere del tutto il sorriso. Tanto che in qualche modo è anche soddisfatto –. E, senza piú guardarmi, accarezzandosi i capelli prematuramente canuti, Cromer-Blake aggiunse: – Speriamo che non gli venga in mente di restare tutti i giorni a quella data: ci toccherebbe attraversare ogni mattina l’atrio con le condoglianze sulle labbra.
Will portava una cravatta nera sulla camicia bianca sotto la tuta blu, e i suoi occhi chiarissimi sembravano ancora piú trasparenti e liquidi del solito, forse per effetto di una notte trascorsa fra lacrime e veder morire. Mi avvicinai alla porta della guardiola, che era aperta, e gli misi una mano sulla spalla. Sentii le sue ossa. Non sapevo bene che cosa dire.
– Buongiorno, Will, anche se per lei sono giorni cosí brutti. Ho appena saputo, mi dispiace moltissimo, che cosa posso dirle?
Will sorrise con aria tranquilla e ancora una volta si illuminò il suo viso rosato, tanto rosato da sembrare splendente. Appoggiò una mano sulla mia e mi diede dei colpetti senza forza, come se fosse lui a consolare me. Cromer-Blake, con la toga sulla spalla, ci osservava (Cromer-Blake portava sempre la toga sulla spalla e osservava sempre).
– Grazie, Mr Trevor. È vero quello che dice, i giorni non potrebbero essere peggiori per me. È morta questa notte, lo sa? all’alba. Da qualche tempo era un po’ malata, ma non molto. All’alba mi sono svegliato e stava morendo. È morta subito, senza preavviso, tutto d’un tratto, magari non voleva svegliarmi. Le ho detto di aspettare, ma non ha potuto. Non mi ha lasciato nemmeno il tempo di alzarmi –. Will si interruppe un momento e domandò: – Come mi sta la cravatta, Mr Trevor? Io di solito non la porto –. Poi sorrise e aggiunse: – Ma ha avuto una buona vita, o almeno cosí credo, e non è stata nemmeno breve. Deve sapere che era piú anziana di me di cinque anni. Ne aveva cinque piú di me, ma adesso non importa piú che io lo racconti. Adesso sarò io piú vecchio, forse. Continuerò a compiere anni e forse sarò piú vecchio di quanto lei sia mai stata –. Si toccò la cravatta, incerto. – E poi: anche se i giorni sono cattivi per me, non c’è ragione che io non gliene auguri di buoni. Buongiorno, Mr Trevor.
La mano non si sollevò dalla mia – né dalla sua spalla – aerea come altre volte, ma si sollevò, con il suo saluto verticale.
Quella mattina eravamo nel 1962, e per questo io ero Mr Trevor. Se Will si fosse trovato negli anni trenta, sarei stato il dottor Nott, e se fosse stato nei cinquanta allora mi avrebbe visto come Mr Renner. Durante la guerra del ’14 mi trasformava nel dottor Ashmore-Jones, negli anni venti ero Mr Brome, nei quaranta il dottor Myer e nei settanta e ottanta il dottor Magill, e quella era l’unica maniera per sapere verso quale decennio si fosse orientato e diretto Will, il viaggiatore del tempo, ogni mattina. Per lui io ero ogni giorno un membro della facoltà appartenente al passato, anche se sempre lo stesso in ogni periodo scelto quotidianamente dal suo spirito per abitarvi. E non sbagliava mai. In me, ai suoi occhi puri e senza tempo, tornavano a vivere il loro passato routinario i vari Dr Magill, e Dr Myer, e Mr Brome, e Dr Ashmore-Jones, e Mr Renner, e Dr Nott, e Mr Trevor; alcuni ormai morti e altri in pensione, altri semplicemente trasferiti o scomparsi senza lasciare altro ricordo se non quello dei loro nomi, o forse espulsi dall’università per qualche mancanza grave di cui il povero Will, nella sua eterna guardiola, non doveva aver ricevuto la benché minima notizia.
E stranamente visse in me, alcune mattine, anche un certo Mr Branshaw di cui nessuno serbava il ricordo né sapeva nulla, il che – tutte le mattine in cui mi sentivo chiamare cosí: «Buongiorno, Mr Branshaw» – mi faceva pensare che forse la capacità di Will di spostarsi nel tempo riguardava anche il futuro (forse quello piú immediato, quello che avrebbe potuto occupare ciò che gli mancava da vivere) e che, ormai negli anni novanta, salutava qualcuno che ancora non era arrivato a Oxford e che forse, dovunque si trovasse, ancora non sapeva che gli sarebbe toccato vivere nella città inospitale e conservata sotto sciroppo, come la chiamò tempo fa uno dei miei predecessori. Qualcuno che Will non avrebbe neppure riconosciuto con i suoi occhi sognanti e diafani e a cui forse avrebbe dato il mio nome, che mai pronunciò di fronte a me, quando lo avrebbe salutato con la sua mano festosa all’ingresso della Tayloriana.
Come ho detto, i miei impegni nella città di Oxford erano minimi, e ciò spesso mi faceva sentire un personaggio decorativo. Essendo cosciente, tuttavia, di come la mia sola presenza difficilmente avrebbe potuto decorare alcunché, mi sembrava opportuno indossare ogni tanto la toga nera (precettiva soltanto in non frequenti occasioni), con l’obiettivo principale di accontentare i numerosi turisti che incontravo di solito nel percorso dalla mia casa piramidale alla Tayloriana e con quello secondario di sentirmi mascherato e un po’ piú giustificato nella mia condizione di ornamento. Cosí, mascherato, arrivavo perciò a volte nell’aula in cui tenevo le mie rare lezioni o conferenze a diversi gruppi di studenti, i quali facevano tutti mostra di un rispetto eccessivo e di una ancor maggiore indifferenza. Per età, ero piú vicino a loro che alla maggior parte dei membri della congregazione (come si chiama l’insieme dei dons o professori dell’università, secondo la forte tradizione clericale del luogo), ma era sufficiente che io fossi nervosamente inerpicato su una pedana per le poche ore in cui stabilivo un contatto visivo con loro perché il distacco tra gli alunni e me risultasse pressoché monarchico. Io ero in alto e loro in basso, io avevo davanti a me un bel leggio e loro normali banchi tutti incisi, io indossavo la mia lunga toga nera (con i nastri di Cambridge e non di Oxford, a dire il vero, per maggiore complicazione) e loro non la indossavano, e questo era motivo sufficiente perché non soltanto non mettessero in discussione le mie tendenziose affermazioni, ma anche perché non mi rivolgessero domande quando parlavo della tetra letteratura spagnola del dopoguerra per un’ora che mi si rivelava tanto interminabile quanto lo stesso dopoguerra a quei letterati (a quelli anti-regime, ben pochi).
Gli studenti invece ne facevano di domande durante le lezioni di traduzione che davo loro in compagnia, alternata, dei miei colleghi inglesi. I testi che questi ultimi sceglievano per quelle lezioni (dal nome cosí stravagante che preferisco tacerlo per non creare un enigma gratuito e certamente trascurabile) erano cosí artificiosi o costumbristas che spesso dovevo improvvisare definizioni contraffatte per parole stantie o ermetiche che in vita mia non avevo mai viste né sentite e che naturalmente gli studenti non avrebbero mai piú viste né sentite nelle loro. Parole presuntuose e memorabili (concepite senza dubbio da menti malate), tra le quali ricordo con particolare entusiasmo praseodimio, jarampero, guadameco ed engibacaire (non sono riuscito a dimenticare neppure briaga, in un brano vinoso elegante quant’altri mai). A rischio di risultare un ignorante adesso che le ho tradotte in inglese e che so perfettamente cosa significhino, confesso che allora non ne conoscevo nemmeno l’esistenza. Ancora oggi mi meraviglio per la loro esistenza. Il mio ruolo in quelle lezioni era piú rischioso che nelle conferenze, poiché consisteva nel servire da grammatica e da dizionario parlanti, con il conseguente logorio per i miei riflessi. Le consultazioni piú ardue erano quelle etimologiche, ma nel giro di poco tempo, e spinto dall’impazienza e dal desiderio di compiacere, non esitai a inventare etimologie deliranti sul momento e per trarmi d’impaccio, fidando che nessun alunno né il collega di turno che mi affiancava avrebbero mai provato abbastanza curiosità per verificare piú tardi la validità delle mie risposte. (E nel caso che l’avessero provata, ero altresí convinto che avrebbero provato anche la compassione necessaria a non rinfacciarmi lo svarione il giorno dopo). Quindi, di fronte a domande che mi apparivano tanto maligne e assurde quanto sapere quale fosse l’origine della parola papirotazo, non esitavo a fornire risposte ancora piú assurde e maligne.
– Papirotazo, dunque. Questo tipo di colpo impartito con l’indice ripiegato si chiama cosí perché era in quel modo che si colpivano i papiri trovati in Egitto agli inizi del XIX secolo per verificarne la resistenza e per cominciare a determinarne l’antichità.
E vedendo che nessuno reagiva violentemente e che a nessuno veniva in mente di obiettare che un solo papirotazo avrebbe trasformato in coriandoli qualunque papiro dinastico, mentre invece gli alunni prendevano nota e il collega inglese – stupito senza dubbio dalla grossolana sonorità della parola e forse inebriato dall’inattesa visione di un Egitto napoleonico – approvava la mia spiegazione («Avete sentito? Papirotazo viene dalla parola papiro: pa-pi-ro, pa-pi-ro-ta-zo»), trovavo anche il coraggio di insistere e di completare quella falsità con un’annotazione erudita:
– È pertanto una parola abbastanza recente, assimilata al piú antico capirotazo, come viene anche chiamato quel colpo doloroso e vessatorio, – e facevo una pausa per illustrare il vocabolo con un papirotazo nell’aria, – in quanto è lo stesso che viene solitamente impartito ai penitenti incappucciati durante le processioni della Settimana Santa, sulla punta dei loro cappucci o capirotes, per umiliarli.
E il mio collega approvava di nuovo («Avete sentito? Ca-pi-ro-te, ca-pi-ro-ta-zo»). Il compiacimento con cui alcuni dei professori britannici pronunciavano parole strampalate in spagnolo non finiva di sorprendermi, e quelle che piú li soddisfacevano erano quelle di quattro o piú sillabe. Ricordo che il Macellaio ne godeva a tal punto da dimenticare il ritegno e, sollevata una gamba – lo stinco bianchissimo allo scoperto per colpa di calzini troppo corti e di grandi scarpe voraci –, l’appoggiava con disinvoltura e non senza grazia su un banco vuoto e la faceva dondolare al ritmo del suo euforico sillabare («Ve-ri-cue-to, ve-ri-cue-to. Mo-fle-tu-do, mo-fle-tu-do»). In realtà, ebbi motivo di pensare, in seguito, che l’applauso dei colleghi alle mie etimologie immaginarie fosse conseguenza della loro eccellente educazione, del loro senso della solidarietà e del loro senso del divertimento. A Oxford nessuno dice mai niente manifestamente (la franchezza sarebbe la mancanza piú imperdonabile, e anche la piú sconcertante), ma lo capii quando accomiatandomi da Dewar l’Inquisitore dopo i miei due anni di soggiorno mi disse tra le altre parole di circostanza:
– Mi mancheranno le tue fantastiche conoscenze etimologiche. Mi hanno sempre sorpreso in maniera straordinaria. Ricordo ancora il mio stupore quando hai spiegato che la parola papirotazo viene da papo, per indicare un colpo che si dava sulla papada, sulla pappagorgia dell’avversario: sono rimasto a bocca aperta –. Si fermò un istante per osservare compiaciuto la mia confusione. Fece schioccare la lingua contro il palato e aggiunse: – L’etimologia è una scienza appassionante, peccato che gli studenti, poveri ragazzi privi di discernimento, dimentichino il novantacinque per cento delle meraviglie che ascoltano da noi, e che le nostre brillanti trovate li colpiscano soltanto per qualche minuto, piú o meno fino alla fine della lezione. Ma io lo ricorderò: pa-pa-da, pa-pi-ro-ta-zo, – e piegò un po’ una gamba. – Chi l’avrebbe mai detto. Fantastico.
Credo di essere arrossito notevolmente, e appena mi fu possibile corsi in biblioteca a consultare il dizionario e a scoprire che, in effetti, la famosa parola papirotazo deriva dal papo su cui un tempo si riceveva l’ignominioso colpo. Mi sentii piú impostore che mai, ma sentii anche la mia coscienza parzialmente tranquillizzata, perché potei concludere che le mie etimologie dementi non erano molto piú spropositate né meno verosimili di quelle vere. Almeno questa mi sembrava stramba quasi quanto quella improvvisata. E in ogni caso, come aveva osservato lo Squartatore, questo tipo di conoscenze ornamentali durava pochi minuti, false, autentiche o semivere che fossero. A volte il sapere vero risulta indifferente, e allora si può inventare.
Io ho camminato interminabilmente per la città di Oxford e ne conosco quasi tutti gli angoli e anche i confini dai nomi sdruccioli: Headington, Kidlington, Wolvercote, Littlemore (Abingdon, Cuddesdon, piú lontano). Sono arrivato a conoscere quasi tutti i suoi volti di due o tre anni fa, per quanto fosse difficile tornare a trovarli. Nella maggior parte dei casi camminavo senza intenzioni e senza una meta stabilita, anche se ricordo che per circa dieci giorni durante il mio secondo periodo di lezioni (quello che si chiama Hilary e comprende otto settimane tra gennaio e marzo), camminai con un’intenzione poco adulta e allora – finché durò – non confessata neppure a me stesso. Fu poco prima di conoscere Clare ed Edward Bayes, e di fatto l’interruzione o l’abbandono dell’obiettivo (sí, fu un abbandono) furono di certo provocati anche dalla conoscenza di Clare Bayes e del marito e non soltanto perché l’intenzione risultasse compiuta e allo stesso tempo frustrata in un pomeriggio ventoso a Broad Street in quello stesso periodo.
Una decina di giorni prima che Clare ed Edward Bayes mi fossero presentati e cominciassi a frequentarli, stavo tornando da Londra – un venerdí – con l’ultimo treno, che partiva dalla stazione di Paddington verso mezzanotte. Era il treno che di solito prendevo ogni venerdí o sabato al ritorno dalla capitale, dove non avevo da dormire a meno di non andare in albergo, e questo potevo permettermelo solo ogni tanto. Normalmente preferivo tornare a casa e, semmai, partire di nuovo per Londra il mattino seguente – poco meno di un’ora con un treno diretto – se qualcosa o qualcuno richiedeva la mia presenza. L’ultimo treno da Londra a Oxford non era, tuttavia, diretto. Il fastidio che rappresentava il doverlo prendere era compensato dal poter disporre in cambio di un’ora in piú in compagnia di Guillermo e di Miriam, una coppia di amici che abitava a South Kensington e mi offriva la sua conversazione e la sua ospitalità come tappa finale delle mie errabonde giornate londinesi. Quell’ultimo treno di mezzanotte costringeva a un cambio nella località di Didcot, della quale non ho mai visto altro che la lugubre stazione, e sempre dopo il crepuscolo. Alcune volte il secondo treno, quello che ci portava da lí a Oxford con una lentezza incomprensibile, non era sul suo binario quando arrivavamo noi sei o sette passeggeri da Londra che prendevamo quella coincidenza (la British Rail doveva ritenere che noi viaggiatori di quel treno tardivo fossimo nottambuli irrecuperabili e che potessimo andare a letto anche un po’ piú tardi), e allora bisognava aspettare in quella stazione silenziosa e vuota e che, per quanto se ne potessero scorgere i contorni nel buio, sembrava staccata dal paese a cui apparteneva e circondata di campi da tutti i lati, come una falsa stazione di transito.
In Inghilterra gli sconosciuti di solito non parlano tra loro, neppure sui treni né durante le lunghe attese, e il silenzio notturno della stazione di Didcot era uno dei piú profondi che abbia mai conosciuto. Il silenzio è tanto piú profondo quando è spezzato da voci o rumori isolati e senza continuità, come lo stridio di un vagone che all’improvviso si sposta enigmaticamente di qualche metro e si ferma, o l’incomprensibile grido di un facchino che il freddo risveglia dal suo breve addormentamento per risparmiargli un brutto sogno, o il colpo secco e distante di alcune casse che mani invisibili decidono gratuitamente di trasferire da un posto quando nulla è urgente e tutto è rinviabile, o il suono metallico di una lattina di birra schiacciata e gettata in un cestino dei rifiuti, o il volo modesto di un foglio di giornale, o i miei stessi passi che ingannano l’attesa avvicinandosi inutilmente al bordo della piattaforma, come vengono chiamate le banchine in ...