Il treno della notte
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Il treno della notte

  1. 160 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
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Il treno della notte

Informazioni su questo libro

Jennifer era bella, intelligente e fortunata. E si è uccisa. Perché? Il caso piú difficile del detective Mike Hoolihan. Il detective Mike Hoolihan ha un fisico da camionista, i capelli biondo tinto e una voce cavernosa per il fumo. Il detective Mike è una donna. Una donna grassa, brutta, ex alcolizzata. Un'amica d'infanzia, Jennifer, si è sparata tre colpi di pistola in bocca. Jennifer era bellissima, intelligente, realizzata professionalmente e sentimentalmente. Suo padre, pezzo grosso della polizia, non crede al suicidio e dà carta bianca a Mike. Cosí lei, che vorrebbe dimenticare la storia al piú presto, ci si ritrova invischiata fino al collo. E comincia a fare strane scoperte: errori inspiegabili sul lavoro, frequentazioni ambigue, depressioni... Martin Amis gioca con le convenzioni del thriller per affrontare, nel suo modo sornione e disincantato, lo spazio - la relazione - che corre tra gli eventi minimi della vita quotidiana e le leggi che governano l'universo: le misteriose tensioni conflittuali, il rapporto di affetti, invidie, le feroci rivalità che sembrano nascondersi in ogni amicizia.

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Informazioni

Editore
EINAUDI
Anno
2013
Print ISBN
9788806207687

Parte seconda

Autosoppressione

L’autopsia psicologica.
Il suicidio è come il treno della notte, che ti fionda nelle tenebre. Non c’è altro modo di arrivarci cosí in fretta, non con mezzi naturali. Compri il biglietto e sali a bordo. Quel biglietto ti costa tutto ciò che hai, ed è un biglietto di sola andata. Il treno ti porta nella notte, e lí ti lascia. È il treno della notte.
Adesso ho la sensazione che qualcuno sia entrato dentro di me, come un intruso, sciabolando il fascio di luce della sua torcia. Jennifer Rockwell è dentro di me, e cerca di mostrarmi ciò che non voglio vedere.
Il suicidio è un conflitto mente-corpo che termina violentemente senza vincitori.
Bisogna che la prenda piú calma. Bisogna che freni questa valanga di merda.
Quello che sto facendo qui, con la mia biro, il mio registratore e il mio PC, non è diverso da quello che ha fatto Paulie No nell’ufficio del medico legale, con la sua morsa, la sua sega elettrica, il suo vassoio di bisturi. Con la differenza che questa la chiamiamo autopsia psicologica.
E io sono in grado di farla. Ho l’addestramento giusto.
Non per niente.
Per un certo periodo, anche se breve – e una sola volta in mia presenza – mi hanno chiamata «Suicidio Mike». L’epiteto era considerato offensivo, persino per la stazione di polizia del centro, e presto i miei colleghi lo abbandonarono. Offensivo non per i poveri cristi che trovavamo accasciati sul sedile dell’auto in un garage sigillato, o semisommersi in una vasca d’acqua rossa. Offensivo per me: significava che ero cosí stupida da accettare qualsiasi chiamata, anche le fregature. Perché un suicidio non serve a niente, non ti migliora i punteggi e non ti fa fare gli straordinari. A mezzanotte suonava il telefono, e Mac, oppure O’Boye, mettevano la mano sulla cornetta, sporgevano le labbra e dicevano, Vuoi occupartene tu, Mike? È una m.s., e io ho bisogno di grana per l’operazione di mia madre. Una morte sospetta, non l’omicidio dei suoi sogni. Perché il nostro amico è anche convinto che i suicidi siano un insulto alle sue doti forensi. Vuole qualcuno di regolarmente accusabile. Non un povero bastardo che un secolo fa sarebbe stato sepolto a un quadrivio, sotto un mucchio di pietre, con un picchetto piantato nel cuore. Poi, per un certo periodo breve, come ho detto, presero l’abitudine di porgermi il telefono con faccia stolida, È per te, Mike. Un suicidio. Finché non mi sono messa a strillare. Ma forse non avevano tutti i torti. Forse mi sentivo piú pungolata o costretta di loro, quando mi accucciavo sotto un ponte sulla riva di un fiume, o mi fermavo nella tromba delle scale di una casa a schiera a guardare un’ombra che ruotava lentamente sulla parete, pensando a coloro che odiano la vita al punto di scegliere di sfidare la terribile provvidenza divina.
Come molti altri colleghi, ho seguito il corso «Suicidio: una scomoda realtà» alla Pete University, e, sempre a spese della comunità, una serie di conferenze di aggiornamento su «Tipologia dei suicidi» al Tribunale della Contea. Ho fatto conoscenza con i grafici e i diagrammi del suicidio, con tanto di fette di torta, cerchi concentrici, codici a colori, frecce, percorsi a tranello come nel gioco dell’oca. Se si aggiungono le ronde di prevenzione suicidi, giú nella Quarantaquattresima, e i cento e passa suicidi di cui mi sono occupata lavorando nel Grande Circo, posso dire di conoscere non solo le devastazioni del corpo dopo la morte, ma anche il quadro fondamentale del suicida ante mortem.
E Jennifer non rientra nelle statistiche. Non ci rientra affatto.
Questa domenica mattina ho tirato fuori i miei raccoglitori e li ho messi sul divano. Voglio sfogliare i miei appunti per vedere se trovo qualcosa.
* In tutte le culture il rischio di suicidio aumenta con l’età. Ma non in modo costante. La linea diagonale del grafico sembra appiattirsi nella parte centrale, come un pianerottolo fra due rampe di scale. Statisticamente (per quel che valgono le statistiche in questo campo), se ce la fai a superare i vent’anni, sei sul terreno piatto fino all’impennata della mezza età.
Jennifer aveva ventotto anni.
* Circa il 50 per cento dei suicidi ha già provato a uccidersi altre volte. Sono parasuicidi, o pseudosuicidi. Circa il 75 per cento avverte delle sue intenzioni. Circa il 90 per cento ha un’anamnesi egressiva – un’anamnesi di fuga.
Jennifer non aveva mai provato. Che io sappia, non ha lanciato alcun avvertimento. Ed era una che andava sempre in fondo alle cose.
* Il suicidio dipende moltissimo dalla disponibilità del mezzo. Togli il mezzo (per esempio il gas domestico) e la percentuale crolla.
Jennifer non aveva bisogno del gas. Come molti americani, possedeva una pistola.
Questo è quanto ho scritto io nei miei appunti. Che dire invece di quello che scrivono i suicidi nei loro biglietti d’addio? Quanti li lasciano? Alcuni studi dicono il 70 per cento, altri il 30. È opinione comune che i biglietti d’addio vengano fatti sparire con una certa frequenza dai congiunti del defunto. I suicidi, come abbiamo visto, sono spesso camuffati – impiastricciati per confondere le tracce. Assioma: i suicidi generano dati falsi.
Apparentemente, Jennifer non ha lasciato alcun biglietto d’addio. Ma io sono sicura che ne ha scritto uno. Lo sento.
Il suicidio può essere ricorrente nelle famiglie, ma non è ereditario. È un modello, una configurazione. Non una predisposizione. Se tua madre si uccide, la cosa non ti giova, perché ti apre una porta...
Ecco qui un elenco di altri consigli. O meglio, di cose da evitare.
Non lavorare a contatto con la morte. Non lavorare a contatto con i prodotti farmaceutici.
Non essere un immigrato.
Non essere rumeno. Non essere giapponese.
Non vivere dove non brilla il sole.
Non essere un adolescente omosessuale: uno su tre ci prova.
Non essere un nonagenario che vive a Los Angels.
Non essere alcolista. È un suicidio a rate.
Non essere schizofrenico. Disobbedisci alle vocine nella testa.
Non essere depresso. Su con il morale.
Non essere Jennifer Rockwell.
E non essere un uomo. Non essere un uomo, qualunque cosa tu faccia. Naturalmente Tony Silvera parla a vanvera, quando dice che il suicidio è una «cosa da femmine». È vero il contrario, il suicidio è per gente con le palle. Il tentato suicidio è da donne: la loro percentuale è doppia rispetto a quella degli uomini. Il suicidio riuscito è da uomini: la loro percentuale è doppia rispetto a quella delle donne. C’è un solo giorno dell’anno in cui è piú sicuro essere maschi. Il giorno della mamma.
Il giorno della mamma è il giorno dell’autosoppressione. Perché? Me lo chiedo anch’io. Colpa del pranzo mangia-piú-che-puoi alla Quality Inn? No. A togliersi la vita sono le donne che rifuggono dai pranzi. Le donne che rifuggono dai figli.
Non essere Jennifer Rockwell.
Ma il punto è: perché no?
Fattori di stress e precipitanti.
La prima persona con cui dovrò parlare è Hi Tulkinghorn, il medico di Jennifer. Negli ultimi anni ho incontrato questo vecchietto un po’ di volte dai Rockwell (grigliate, cocktail la vigilia di Natale). Ricordo anche che il colonnello Tom mi fece visitare da lui mentre mi stavo disintossicando a casa sua: una settimana di vaneggiamenti in una delle stanze dei ragazzi al pian terreno. Non che nella mia memoria sia rimasto gran che di quel periodo. Piccolo, calvo, con gli occhi limpidi, Tulkinghorn è il genere di vecchio dottore che, con il passare del tempo, sembra indirizzare una fetta sempre piú grande delle sue conoscenze mediche verso l’interno, per mantenere in efficienza la sua carcassa. L’altro genere di vecchio dottore è l’ubriaco. Oppure quello che sta disintossicando se stesso dall’alcol. Durante quella settimana, Jennifer veniva in camera mia la sera. Si sedeva in un angolo e mi leggeva qualcosa. Poi mi sentiva la fronte e mi portava dell’acqua.
Ebbene. Ho chiamato lo studio di Tulkinghorn l’8 marzo, vale a dire quasi due settimane fa. E sentite un po’ questa. Il vecchio filibustiere era in crociera nei Caraibi, una crociera per fanatici del poker. Allora l’ho fatto chiamare dalla segretaria, e la sua voce gracchiante mi è arrivata in diretta dalla Straight Flush. Gli ho dato la notizia e gli ho detto che avrei seguito io il caso. Lui mi ha risposto di prendere un appuntamento. Allora ho richiamato il suo studio e mi sono messa un po’ a parlare. È venuto fuori che chi gioca a poker non è Tulkinghorn, ma la moglie. Mentre lui si crogiola e si abbronza su una sedia a sdraio, lei se ne sta rannicchiata al tavolo verde, giocandosi la seconda casa su una doppia coppia.
Hi Tulkinghorn lavora in un condominio in stile gotico vicino ad Alton Park, sulla Trentasettesima. Mi sono seduta nello stretto corridoio, come una paziente, con un otitico sulla destra e un faringitico sulla sinistra. Una segretaria incartapecorita si agitava nel suo angolino, spostando fogli e rispondendo al telefono: – Studio medico? – Tizi piú giovani in camice, forse studenti, entravano e uscivano armati di bloc-notes e fiale. Pareti ricoperte di cartelline e raccoglitori, dal pavimento al soffitto. Con dentro che cosa? Sbiaditi referti di biopsie. Polverose analisi dell’urina. Quando la donna mi ha fatto cenno di entrare, Otite e Faringite hanno borbottato ingrugniti. Sono passata dalla penombra del corridoio alla teutonica asprezza dell’ambulatorio di Tulkinghorn, con il solito odore di collutorio.
Mi piacerebbe poter dire che l’abbronzatura dava a Hi un aspetto di morte riscaldata. Ma lui se ne stava là, dietro la scrivania, ammiccando in maniera sfuggente, pieno di sé che la metà basta. Ecco, questo lo ricordo. Di tanto in tanto, mentre ero in preda alle allucinazioni nella stanzetta di casa Rockwell, visitata da visitatori a volte reali a volte no, e mi chiedevo come diavolo avrei fatto a superare la prossima mezz’ora, pensavo: ho trovato. Accopperò uno di questi fantasmi. Servirà a passare il tempo. Ma non volevo accoppare Hi Tulkinghorn. C’è troppa conoscenza della morte, troppa conoscenza assimilata compostamente, nei suoi occhi azzurri.
– Dottore.
– Detective. Si sieda.
– Come è andata la crociera? Sua moglie ha fatto soldi?
– È andata piú o meno in pari. Mi spiace avere perso il funerale. Ho cercato di prendere un volo da Port of Spain. Ho parlato con il colonnello e con la signora Rockwell. Farò quel che posso per loro.
– Allora sa già perché sono qui.
Pausa. Ho aperto il taccuino e abbassato gli occhi sulla pagina. E all’improvviso sono rimasta molto colpita dalle annotazioni della sera precedente. Avevo scritto: Natura del disturbo. Reattivo/non reattivo? Affettivo/ideatorio? Psicologico/organico? Cause interne o esterne? Ho cominciato:
Dottor Tulkinghorn, che tipo di paziente era Jennifer Rockwell?
Di... di nessun genere.
Mi scusi? Mi parli dei suoi precedenti medici?
Non ne aveva.
Temo di non capire.
Da quel che mi risulta, non è mai stata malata un solo giorno in vita sua. Tranne che nell’infanzia, naturalmente. Le visite di controllo erano una formalità.
Quando l’ha vista l’ultima volta?
Vista qui? Circa un anno fa.
Era in cura presso qualcun altro?
Dove vuole arrivare ? Aveva un dentista, e una ginecologa, una certa dottoressa Arlington. È una mia amica. E anche con lei stessa storia. Come esemplare umano, Jennifer rasentava il fenomenale.
Allora perché prendeva il litio, dottore?
Litio? Non prendeva affatto il litio, agente.
Vede questo? È il referto tossicologico. Era in cura da uno psichiatra?
Sicuramente no. Sarei stato informato d’ufficio, lo sa.
Mi ha tolto la fotocopia di mano e l’ha esaminata con indignazione. Con pacata indignazione. Sapevo quello che stava pensando. Se non gliel’ha dato un medico, allora dove l’ha preso? E subito dopo: in questa città si trova di tutto, senza difficoltà. Già, come se non lo sapessi. E non da un delinquente all’angolo della strada, ma da qualche sorridente pezzo di merda in camice. I nomi delle droghe, nei laboratori farmaceutici, sono capaci di durare venticinque sillabe... C’è stato un silenzio. Un genere di silenzio che non deve essere raro in questo mestiere. In sala parto, durante la lettura dei risultati delle analisi, nella luce riflessa degli schermi dei raggi X. Poi il dottor Tulkinghorn ha deciso che Jennifer era una causa persa. Con una spallucciata appena accennata ha abbandonato Jennifer Rockwell a se stessa.
Sí, beh. Almeno s’intravede una spiegazione. La ragazza stava curandosi la testa. Un comportamento sempre maniacale.
In che senso?
Come l’ipocondria mentale. I farmaci psicotropi tendono a intensificarla. Con un effetto a spirale.
Mi dica, dottore: è rimasto sorpreso quando ha saputo del suicidio?
Sorpreso. Sorpreso. Ma ce...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Il treno della notte
  3. Parte prima - Vampa di ritorno
  4. Parte seconda - Autosoppressione
  5. Parte terza - L’occhio che vede
  6. Il libro
  7. L’autore
  8. Dello stesso autore
  9. Copyright