1.
Il còmpito degli uomini di cultura è piú che mai oggi quello di seminare dei dubbi, non già di raccoglier certezze. Di certezze – rivestite della fastosità del mito o edificate con la pietra dura del dogma – sono piene, rigurgitanti, le cronache della pseudocultura degli improvvisatori, dei dilettanti, dei propagandisti interessati. Cultura significa misura, ponderatezza, circospezione: valutare tutti gli argomenti prima di pronunciarsi, controllare tutte le testimonianze prima di decidere, e non pronunciarsi e non decidere mai a guisa di oracolo dal quale dipenda, in modo irrevocabile, una scelta perentoria e definitiva. Vi è qui uno degli aspetti del «tradimento dei chierici»; e il piú importante, a mio avviso, perché non è limitato al mondo contemporaneo ma si riconnette alla figura romantica del filosofo-profeta: trasformare il sapere umano, che è necessariamente limitato e finito, e quindi richiede molta cautela insieme con molta modestia, in sapienza profetica. Donde deriva la posizione, cosí frequente tra i filosofi, di ogni problema in termini di alternativa, di aut aut, di opzione radicale. O di qua o di là. Ascoltate il piccolo sapiente che respira la nostra aria satura di esistenzialismo: vi dirà che i problemi non si risolvono, ma si decidono. È come dire che il nodo – questo nodo aggrovigliatissimo dei problemi dell’uomo nella società di oggi – non essendo possibile scioglierlo, bisogna tagliarlo. Ma appunto, per tagliarlo, non è necessaria la ragione (che è l’arma dell’uomo di cultura). Basta la spada.
Si dirà che l’uomo di cultura non può appartarsi, che anch’egli deve impegnarsi, cioè scegliere uno dei due lati dell’alternativa. Ma l’uomo di cultura ha il suo modo di non appartarsi: che è quello di riflettere di piú di quel che si faccia di solito negli istituti ufficiali della cultura accademica sui problemi della vita collettiva (dalla costituzione del potere alla funzione dei sindacati, dalla disoccupazione alla pianificazione economica, dalla tutela delle libertà civili al promovimento del benessere), e di discutere un po’ meno coi propri colleghi sul primato del pensiero e dell’essere. Ha il suo modo d’impegnarsi: quello di agire per la difesa delle condizioni stesse e dei presupposti della cultura. Se vogliamo, ha anch’egli il suo modo di decidere, purché s’intenda bene che egli non può decidersi che per i diritti del dubbio contro le pretese del dogmatismo, per i doveri della critica contro le seduzioni della infatuazione, per lo sviluppo della ragione contro l’impero della cieca fede, per la veridicità della scienza contro gli inganni della propaganda.
2.
Non vi è nulla di piú seducente, oggi, che il programma di una filosofia militante contro la filosofia degli «addottrinati». Ma non si confonda la filosofia militante con una filosofia al servizio di un partito che ha le sue direttive, o di una chiesa che ha i suoi dogmi, o di uno stato che ha la sua politica. La filosofia militante che ho in mente è una filosofia in lotta contro gli attacchi, da qualsiasi parte provengano – tanto da quella dei tradizionalisti come da quella degli innovatori – alla libertà della ragione rischiaratrice. Non era forse una filosofia militante quella di colui che contro sètte chiese e stati del suo tempo proclamò come prima condizione di dignità dell’uomo il diritto alla libertas philosophandi, e combatté con incrollabile fermezza lo spirito superstizioso delle religioni ufficiali? Eppure, proprio Benedetto Spinoza, scrivendo ad un amico durante l’infuriar di una guerra, disse parole che scandalizzerebbero oggi uno di quegli ostinati fautori dell’engagement: «Queste turbe non m’inducono né al riso né al pianto, ma piuttosto a filosofare e ad osservar meglio la natura umana … Lascio, dunque, che ognuno viva a suo talento e che chi vuol morire muoia in santa pace, purché a me sia dato di vivere per la verità» (Ep., XXX). Spinoza sapeva esattamente qual sorta d’impegno fosse quello che spettava al filosofo. Non già ch’egli non fosse impegnato: era impegnato per la verità. E se questo impegno doveva in quei giorni, di fronte a quegli avvenimenti, indurlo a non parteggiare, a non scegliere, egli aveva pure il diritto, in nome della verità, di rifiutare all’una e all’altra parte il suo assenso. Al di là del dovere di entrare nella lotta, c’è, per l’uomo di cultura, il diritto di non accettare i termini della lotta cosí come sono posti, di discuterli, di sottoporli alla critica della ragione. Al di là del dovere della collaborazione c’è il diritto della indagine. Antonio Gramsci, in uno dei suoi Quaderni del carcere – uomo impegnato, ferreamente e integralmente impegnato, se mai ve ne fu uno – scriveva: «Comprendere e valutare realisticamente la posizione e le ragioni dell’avversario (e talvolta è avversario tutto il pensiero passato) significa appunto essersi liberati dalla prigione delle ideologie (nel senso deteriore, di cieco fanatismo ideologico), cioè porsi da un punto di vista “critico”, l’unico fecondo nella ricerca scientifica»2.
3.
Facciamo un esame di coscienza. Chi oserebbe affermare che l’uomo di cultura rispetti sempre – soprattutto in questi anni di passioni ribollenti e talora scatenate – la norma ideale della «ricerca scientifica»? Si è detto poc’anzi della tendenza a porre i problemi fondamentali, seguendo piú la passione che non la ragione critica, in termini di alternative inconciliabili. Due civiltà in contrasto, si dice: nessuna conciliazione è possibile. Bisogna scegliere: aut aut. E per colui che ha scelto, l’altro, sia che abbia scelto il termine opposto, sia che non abbia scelto affatto, è un reprobo da combattere e da distruggere. Ebbene, troppo spesso l’uomo di cultura, per un suo malinteso dovere di partecipazione alla lotta a servizio dell’uno o dell’altro dei due contendenti, invece di porsi dinanzi all’alternativa per sottoporla alla critica della ragione, soffia anch’egli nel fuoco del contrasto e lo esaspera. Anzi, quasi a dare di questo contrasto una giustificazione teorica (che dovrebbe poi giustificare prima di tutto il suo atteggiamento pratico di partigiano dell’una o dell’altra parte), egli va evocando da diverse fonti e con diversi accenti una «filosofia della scelta», alla quale sarebbe serbato il compito di dissipare la filosofia del dubbio critico, a cui pure la nostra civiltà culturale è stata informata, e se ne è nutrita.
S’intende, non si chiede all’uomo di cultura che esorcizzi i contrasti storici eliminandoli in un flusso dialettico di continui superamenti alla maniera hegeliana. Ma non si chiede neppure che li irrigidisca, rompendo ogni comunicazione fra i due termini, nella alternativa kierkegaardiana. Non si tratta di contemplare la storia mettendosi dal punto di vista della storia universale, mediante una filosofia della perfetta adeguazione tra reale e razionale. Ma non si tratta neppure di condensarla rimpicciolendola nella singolarità di un’esperienza personale, in una concezione del mondo e della storia che sostituisca all’adeguazione assoluta una esasperata inadeguazione fra l’uomo e Dio, fra l’uomo e il mondo. Il primo atteggiamento conduce alla giustificazione panlogistica; il secondo al paradosso della scelta. Tutti e due denunciano l’orgogliosa pretesa di un criterio assoluto. Quello che importa, oggi, è di sfatare l’incanto delle parole magiche, che alimentano la speranza dell’avvento e addormentano l’alacrità della ricerca. Quello che importa, in questo riaffiorare di miti consolatori ed edificanti, è di impegnarsi a illuminare con la ragione le posizioni in contrasto, a porre in discussione le pretese dell’una e dell’altra, di resistere alla tentazione della sintesi definitiva, o della opzione irreversibile, di restituire, insomma, agli uomini – l’un contro l’altro armati da ideologie in contrasto – la fiducia nel colloquio, di ristabilire insieme col diritto della critica il rispetto dell’altrui opinione. Modello intellettuale dell’uomo di cultura non sarà piú il profeta che parla per oracoli, ma piuttosto lo scienziato che si piega sul mondo e lo osserva. Chi informa la propria attività di uomo di cultura allo spirito scientifico, non s’abbandona facilmente al gioco delle alternative radicali: al contrario, esamina, indaga, pondera, riflette, controlla, verifica. E trova alla fine che le antitesi non sono cosí nette come gli si vorrebbe far credere. La sua insegna non è la precipitazione di una soluzione, qualunque essa sia, ma la perplessità di fronte a qualsiasi soluzione.
4.
Non mi si obietti che al termine di un’indagine, per quanto cauta essa sia, si finisce pur sempre di accogliere una soluzione ad esclusione di altre. Guai se la perplessità fosse permanente, una specie di stato cronico: si cadrebbe dalla vetta piena di pericoli dell’opzionismo nell’intrico malfido del problemismo, cioè di quell’atteggiamento per cui «tutto è problema», e che per non cadere nel rischio dell’opzione esclusiva, lascia aperti tutti i problemi e finisce nell’inazione. Ma quella soluzione a cui si giunga in séguito ad un’indagine critica non ha per nulla il carattere fatale della scelta opzionale. L’opzione non tollera revisioni. La soluzione critica, invece, è per sua natura continuamente assoggettabile a nuovi controlli, e destinata ad essere riveduta. Ed è quindi una soluzione che per sua natura non esclude il colloquio, anzi lo esige; non interrompe la discussione, anzi la provoca e se ne alimenta.
Né mi si obietti ancora che questo preteso spirito critico finisca per incoraggiare quel vizioso modo di «vedere due facce in ogni questione», qual è stato pungentemente criticato da uno studioso dei miti intellettuali del nostro tempo, B. Dunham3; finisca insomma col rendersi complice del pacifico spirito di compromesso a spese della coerenza intellettuale e della intransigenza del carattere. Rispondo anche qui che rifiutare di porsi i problemi in termini di rigide alternative: «o di qua o di là», non significa risolverli in termini di bassi accomodamenti: «un piede di qua, un piede di là». Gli accomodamenti appartengono, se li vuol fare, all’uomo d’azione. La terza forza è un fatto politico: per l’intellettuale non si tratta di costituire una terza forza, ma di sapersi valere con serietà e destrezza dell’unica forza che è sua, l’intelligenza. All’uomo di cultura non spetta altro còmpito che quello di capire, di aiutare a capire. E, se nell’esercizio del suo còmpito favorisce lo spirito di compromesso, anziché quello di rissa, sarà tanto di guadagnato per la causa della pace, purché, s’intende, sia ben chiaro che dall’intelligenza del problema lo spirito di compromesso non deriva come necessaria conseguenza, perché può derivare con egual diritto la conseguenza contraria, cioè l’esclusione di ogni possibilità di compromesso. L’importante è che l’uomo di cultura, quando è impegnato nella sua funzione che è quella di capire, non si lasci frastornare dagli zelatori di ogni ortodossia o dai pervertiti di ogni propaganda, i quali saranno sempre pronti a gettargli in faccia l’accusa che egli – per il fatto che non sceglie l’alternativa di destra – tradisce la civiltà, o – per il fatto che non sceglie l’alternativa di sinistra – si oppone al progresso. Non vi è per l’intellettuale che una forma di tradimento o di diserzione: l’accettazione degli argomenti dei «politici» senza discuterli, la complicità con la propaganda, l’uso disonesto di un linguaggio volutamente ambiguo, l’abdicazione della propria intelligenza alla opinione settaria, in una parola il rifiuto di «comprendere», e in tal guisa di apportare agli uomini l’aiuto prezioso di cui la cultura sola è capace, l’aiuto a infrangere i miti, a spezzare il circolo chiuso di impotenza e di paura, in cui si rivela la contagiosa inferiorità della ignoranza.
5.
Nella situazione in cui versa oggi il mondo, comprendere vuol dire anzitutto chiarire esattamente i termini in cui vengono proposte le antitesi, quelle antitesi con le quali si cerca di incatenare i fedeli ad una disciplina e di mettere con le spalle al muro l’avversario. Un’antitesi fondamentale è innanzi agli occhi di tutti, e a essa ogni altra si riconduce: il contrasto in cui il mondo è diviso – si afferma – è un contrasto di civiltà, o per meglio dire è un contrasto tra la civiltà e la non civiltà.
Questa antitesi assume due diverse forme a seconda che sia proclamata dai paladini del mondo occidentale o da quelli del mondo orientale. Per i primi l’antitesi si pone come contrasto tra civiltà senz’altro e barbarie. Per i secondi come contrasto tra civiltà nuova e civiltà vecchia o decadente. Comune agli uni e agli altri è la presunzione di combattere, essi soli, per la civiltà: i primi contro un mondo che non è ancora civile, e forse non lo sarà mai, perché la civiltà ha trovato la sua sede e raggiunto il suo vertice nell’Occidente e non è trasferibile altrove (se non come trasposizione pura e semplice di una civiltà già fatta, che è soltanto da accettare o respingere); i secondi contro un mondo che non è piú civile, e forse non lo è mai stato, perché solo la trasformazione radicale nei rapporti sociali permette la fondazione della civiltà dell’uomo totale. Entrambi si proclamano portatori dell’unica civiltà. Ma per gli uni la civiltà è già in un certo senso compiuta e non c’è che da accettarla o svilupparla dall’interno. Per gli altri la civiltà è quella che si sta formando e solo chi si spoglia del vecchio Adamo è degno di entrare. Civiltà come possesso dei valori tradizionali, da un lato; civiltà come conquista di valori nuovi, dall’altro. Al di fuori, per gli uni c’è il barbaro, colui che dev’esser tenuto lontano perché non infetti con la sua rozzezza la raffinata costruzione di un mondo già compiuto; al di fuori, per gli altri, c’è il decadente, che deve esser sommerso tra le rovine del suo vecchio mondo che crolla perché non corrompa coi suoi vizi le virtú dell’uomo nuovo. Si riproducono gli stessi termini dell’antitesi piú volte addotta, da due opposti punti di vista, per spiegare la crisi del mondo antico, e quindi si rende possibile la stessa ambiguità: il barbaro è insieme il vivificatore, il civile è anche il vinto estenuato. Ma per il nostalgico della vecchia civiltà il vivificatore rimane un barbaro, cosí come per il vagheggiatore del rinnovamento, il rappresentante della civiltà matura appare come un vecchio sfinito che deve cedere il passo.
Da queste due coppie di antitesi: civiltà-barbarie, civiltà-decadenza, discendono due modi diversi di intendere il rifiuto dell’altro. Nell’uno e nell’altro caso il rifiuto è totale, e l’antitesi appunto è tale che la posizione di un termine implica l’esclusione dell’altro. Ma dal punto di vista della civiltà come possesso il rifiuto significa restare immuni; dal punto di vista della civiltà come conquista significa fare «tabula rasa». E a tale rifiuto si dà immagine corporea nel primo caso fantasticando di una muraglia che divida e non permetta nessuna congiunzione né comunicazione delle due parti; nel secondo, evocando un fuoco purificatore che distrugga ed edifichi.
6.
Queste due diverse coppie di antitesi condizionano il modo di pensare dell’uomo medio di oggi, a seconda che si trovi a militare (essenzialmente per ragioni di appartenenza di classe) nell’una o nell’altra schiera. È inutile addurre esempi. Basta ricordare i due slogans caratteristici delle due parti, che gli uni e gli altri si rimandano in un alterco senza fine e senza sviluppo (proprio perché è un alterco...