PALAZZESCHI ALDO
Palazzeschi è stato uno dei governanti della mia infanzia ed è una delle voci piú limpide del Novecento. Lo rivedo come negli ultimi anni, quando stava alla finestra e faceva cenno con la mano. L’ho conosciuto nel 1949, avevo vent’anni. Lo incontrai grazie ad Alfredo Bianchini.
Palazzeschi mi ha tenuto quasi a battesimo sulle sue ginocchia; studiavo Lettere e facevo l’attore. Avevo compilato un recital con delle sue ricostruzioni di salotti d’epoca, una cosina modesta, ma di qualità, che recitavo all’ora del tè e dei pasticcini in un albergo di Firenze. A cinquant’anni, era un po’ obeso per la bassa statura. Aveva una furba aria di gallina decorosa, una vecchia gallina che aveva già dato le sue uova d’oro, le poesie dal 1905 al 1914, le sue piú belle. Venne a vedermi e mi disse due parole. Era piú bravo a scrivere che a parlare.
Bussavo a lungo a casa sua, lui non apriva perché aveva paura dei ladri. Era gentile e generoso e capitava che lo derubassero. Era molto timido, perché le checche dell’epoca non erano vittoriose. Lui era l’amico di De Pisis. Ora è uscito postumo Interrogatorio della contessa Maria. Non lo ha pubblicato mai perché tutti avrebbero capito che la contessina Maria era il pittore, che quando tromba col carbonaio torna a casa tutta nera, la volta invece che tromba col fornaio torna tutta bianca. Quando negli anni Sessanta a Torino ho messo in scena Il suggeritore nudo, una commedia di Marinetti, sono andato a trovarlo per sapere l’umore dei tempi del futurismo. Facemmo qualche sciocco pettegolezzo, sciocco per modo di dire, in realtà illuminante e leggero come tutto quello che lui diceva. «Eh, caro mio, si spaccava in quattro un capello che non c’era». Aveva sfiorato tutte le mode culturali, senza rimanerne invischiato, sapeva di essere un classico.
Ci siamo incontrati tante volte nel corso del tempo, a Venezia, nella sua casa romana all’ultimo piano di via dei Redentoristi 9 dove avevano abitato Gioacchino Belli e Adelaide Ristori. In pantofole, a passettini, quasi pattinando, per stanzoni un po’ bui pieni di quadri. Si lamentava dei giovani d’oggi che non erano poi cosí buoni.
Che bello quel suo romanzo, Perelà uomo di fumo, lo aveva tanto amato Luigi Baldacci, mio compagno di scuola. Sembrava nuovissimo, mentre la letteratura inciampava nel grande scalino chiamato D’Annunzio, in cui tutti hanno battuto la testa. Palazzeschi per fortuna sua era autodidatta, non aveva fatto studi letterari, era ragioniere. Prendeva dalla vita, la sua era una poesia periferica, un po’ malinconica, con tutti i suoi Freud nascosti, con tutti i suoi ragguagli di Parnaso. Nelle due zitelle sorelle Materassi ha messo molto della sua tenerezza, delle sue paure, e delle sue umiliazioni. Il risultato era un verismo poetico che piacque pure al pubblico meno preparato. Il testo aveva anche un valore di documento sui luoghi della mia infanzia, perché era un tempo in cui il ricamo fiorentino cominciava già a diminuire. Le ragazze non volevano perdere gli occhi, ma uscire la sera a ballare. Poi ci fu un altro fatto: la sciocca porcella del romanzo era americana, come la Simpson, che aveva fatto abdicare il re. Mentre la fama dei contemporanei di Palazzeschi si affievoliva, lui ha azzeccato qualcosa, poi ha ritentato il colpo nel dopoguerra con I fratelli Cuccoli: l’esito però fu meno fortunato. Quando ero bambino ho visto il film di Poggioli con le due sorelle Gramatica e l’ho molto amato. So che Palazzeschi aveva detto ai riduttori di togliere i toscanismi piú efferati, per evitare problemi nelle altre regioni. Io non capivo quasi nulla, ma mi piaceva vedere al cinema la mia città. Comunque parteggiavo per le zitelle e non certo per quel coglione del nipote, che nel film era bellissimo: Massimo Serato.
Palazzeschi era un nanetto birichino che possedeva uno stile solo apparentemente semplice. Per questo non piaceva ai tromboni scolastici degli anni Trenta, che gli preferivano autori mediocri, piú idonei alla scarsa fantasia del regime. La sua ironia era impareggiabile, descrive molte tipologie umane surreali, che poi si ritrovano nei film di Fellini. Gigantesse, nani, ballerine, scoreggioni, gobbi, ladri, morfinomani, porcellone. Oggi c’è un momento di remi in barca, per cui c’è di nuovo un finto pudore in un’epoca in cui le bambine ammazzano la mamma col coltello, come si faceva nel piú bieco Cinquecento o Ottocento. Ci sono di nuovo le professoresse che mi dicono: «Belle le poesie di Palazzeschi, purtroppo troppe parolacce! In un momento difficile come questo per la scuola non ci prendiamo la responsabilità di portare a teatro degli allievi di diciotto o diciannove anni», che ovviamente ne fanno di tutti i colori.
PAOLI PAOLO
Nel 1962 a Milano, al Teatro Sant’Erasmo, mi offrirono una parte nella Colonna infame di Dino Buzzati, regia di Edmo Fenoglio. Lí ho conosciuto lo scenografo Eugenio Guglielminetti e mi misi a ragionare con l’aiuto del regista, Adolfo Moriconi. Mi disse che aveva appena tradotto Paolo Paoli, un testo del francese Arthur Adamov che apparteneva alla stessa leva artistica di Ionesco. Dato il titolo, quella era la mia commedia.
Presi l’aereo per Parigi, mi tinsi di bianco i capelli invecchiandomi. Ossigenato e biondo com’ero altrimenti… Quando gli telefonai sul posto, annunciandomi: «Je suis Paolo Poli», rimase per un momento zitto. Poi piú tardi mi confessò: mi sono sentito come Balzac quando gli dissero che c’era in anticamera la principessa di Cadignan.
Nel Paolo Paoli ci misi dentro un torrente di musica pescata a Parigi, eseguita da un’orchestra di donne scritturata in Svizzera, scovai al caffè Unica di Torino Lulú Panerai, una clarinettista formidabile, e ambientai la commedia in un luogo che poteva essere Montecatini, con i personaggi che parlavano di farfalle e di struzzi. Creai una strana unità di tempo e di luogo, tagliai e mescolai le scene, in modo che anche la recitazione piú scarsa venisse valorizzata. Avevo una compagnia insolita per un’epoca in cui valeva ancora la divisione per generi. Provavo la formula degli spettacoli misti, suggeritami da Franca Valeri e Dario Fo. Ma dovetti sostenere dure battaglie contro la burocrazia, proprio perché non si sapeva come classificare le mie cose. Appartenevano al varietà? Allora bisognava pagare piú tasse, perché il varietà, dopo la chiusura dei casini, era un genere richiestissimo dal pubblico. Adamov venne a Milano a vedere lo spettacolo: io gli proposi di vedere i monumenti, ma lui voleva le puttane.
PARADOSSO
Sono della generazione dei Carmelo Bene, uno che aveva capito che il Novecento è il secolo dei paradossi. Il nostro secolo vive della parola che si morde la coda, si apre con le Maschere nude e i Sei personaggi di Pirandello, con L’uomo senza qualità. L’Ottocento era il secolo delle certezze, il nostro è il secolo dei dubbi e delle paure, siamo nel secolo di Ionesco, con le parole che si mordono tra di loro.
PARISE GOFFREDO
Goffredo Parise l’ho conosciuto negli anni Sessanta a casa di Laura Betti, lui e Pasolini erano questi professorini veneti che venivano a Roma e riscoprivano la lingua. Eravamo tutti outsider nella capitale: loro venivano dal nord, io da Firenze, Laura da Bologna. Il giorno insegnavano nei licei cittadini e poi la sera tornavano nelle loro periferie, dove costava meno l’affitto di una stanza e venivano a mangiare dalla Laura che faceva dei risotti buonissimi. Di Parise mi ha sempre colpito la lingua parlata, cosí diversa da quella di Pasolini. Era semplice, quando ancora si stava digerendo lo strascico dannunziano, che ormai è rimasto solo nella burocrazia. Come quando si dice «obliterare il titolo di viaggio», che vuol dire solo bucare il biglietto.
Le sue sono storie semplicissime, ma è una semplicità molto curata, molto colta: un ragazzo dalla bocca nera perché ruminava liquirizia, un pomeriggio di moltissime cicale. Pier Paolo è riuscito a rendere, a reinventare benissimo il dialetto dei ragazzi di vita, Goffredo ha scoperto invece un linguaggio semplice, quasi infantile: col quale però riusciva a esprimere concetti molto alti. Sillabari è composto da storie minime. I protagonisti sono gente anonima: bambini stupiti, zoppi, vecchietti arrabbiati in una società allo sbaraglio, donne sole dal quieto bovarismo periferico, ingenui uomini in perenne lotta per sopravvivere. Quella che descrivo attraverso la scrittura di Parise era l’Italia che cambiava velocemente nelle maglie di una lunga guerra e dava origine all’attuale Belpaese. Mi piace l’asciuttezza della lingua: con semplicità disarmante riusciva a descrivere la poesia, le bassezze, le incongruenze della povera gente. Mi piace la sua maniera serena di descrivere il periodo piú burrascoso della Storia italiana: la Seconda guerra mondiale. «Il 1944, l’anno piú bello della mia vita, perché il nonno mi regalò una penna stilografica».
I Sillabari scritti alla metà del secolo scorso riescono a sorprendere ancora oggi con la loro freschezza, per l’immediatezza quasi naïf del racconto, per l’incanto umile e alto dei personaggi, per i temi profondi trattati con leggerezza e garbo. Lui raccontava l’episodio di una bambina con in mano un quadernetto che si apriva e c’era scritto: l’erba è verde. E lí capí che quello era il segreto, di riscoprire di nuovo il potere del racconto.
E queste prose, che lui pubblicò sul «Corriere della sera» negli anni Settanta, si sperdevano un po’, con le notizie gravi che succedevano in quel momento. Parise era bravo con tutto quel repertorio di vinti che da Verga in poi sono sempre stati i preferiti, non a caso Luchino Visconti rimase colpito dai pescatori di Aci Trezza.
Il piú bel libro suo è Il ragazzo morto e le comete. Quando parla di bambini racconta della sua infanzia e della sua adolescenza e del mutamento cosí profondo con la guerra, che fu spartiacque terribile e affascinante.
PARODIA
In tutto quello che faccio c’è un po’ di parodia… perché non sono una donna vera, non sono giovane, sono un vecchietto. E quindi è tutto falso quello che io racconto. Però nel mio desiderio, nella mia fantasia, ecco che cerco una verità letteraria che sia anche specchio della storia. In fondo Joyce è la parodia di Omero, Picasso di un intero museo, e Stravinskij di Wagner.
PASCOLI GIOVANNI
Faccio Pascoli in scena per pigrizia, lo conobbi alle elementari, quando si sorbiva a grosse dosi, perché la sua orribile sorella Mariú faceva le antologie scolastiche. Non è il mio poeta preferito e poi chi se ne importa della sua tragedia familiare? Anche a me è morto il babbo quando ero ragazzino, ma non ci ho fatto sopra la poesia. Fu Contini, mio professore, a farmi capire cosa l’autore aveva di importante: il suo talento di versificatore, la leggerezza e il plurilinguismo. Prima dei futuristi ha inventato le voci degli animali. Ha dato la voce ai fringuelli che dicono: «Francesco mio», le capinere: «Io ti vedo», le galline: «Un cocco per te». Ha avuto l’intuizione di usare il dialetto della Lucchesia, lui che era nato in Romagna.
PASOLINI PIER PAOLO
Pasolini era un intellettuale acuto e una persona generosa, ma con degli scatti d’ira improvvisa. A me ricordava certa gente di Napoli: ti rubano la valigia, ma a volte ti danno il cuore. Si andava al mare nella stessa casa, perché la mia sorella Lucia stava insieme a Giuseppe Bertolucci e ci si vedeva. Non gli piacevo però, non piaccio a tutti: lui voleva i «ninettidavoli» con i brufoli e l’accento romanesco.
Certamente aveva molta piú personalità di me. Ricordo certe sere a cena dalla Laura Betti. Lui e Moravia che parlavano dell’Illuminismo, e noi muti, come soggiogati da tanta luce. A volte la Betti provava a intervenire, ma l’azzittivano subito.
Pasolini amava quello che faceva. I suoi film magari non sono belli come quelli di Lubitsch o di Dreyer o di Kubrick, però si sente che son fatti con un lungo studio e un grande amore. Per fare qualcosa nella vita non si può fare cosí tanto per fare: ci vuole un sentimento, insieme alla ricognizione mentale, ci vuole anche un’adesione affettiva.
Certo, con quella faccia segnata… non era bello, ma lo faceva venir duro, soprattutto alle donne, pazze, che s’innamoravano di lui col cervello, che dura di piú. Gli piaceva rimorchiare con la macchina decappottabile. Certe volte tornava dalle sue escursioni tutto stracciato, sporco e graffiato. A Pier Paolo piacevano i primati, le fiere, i maschi bestiali. Aveva il senso di colpa che io non ho mai conosciuto. Con lui però avevo in comune l’indole. Io non sono coniglio o cerbiatta, sono cacciatrice.
La sua morte? Comunque sia andata, è stato il clima di fascismo che c’è in questo paese. Endemico, ineliminabile, un’idiozia insanabile.
PECCATO
Il peccato maggiore è annoiare a teatro, ma lo aveva già detto Oscar Wilde.
PENNA SANDRO
Sandro Penna è il piú puro poeta del mio secolo (dico mio perché io appartengo al Novecento e non capisco nulla di ciò che vedo oggi). Me lo presentò Laura Betti a Roma negli anni Sessanta. Era un uomo di apparenza modesta, umile, ma un vero signore. Uno che la sera si faceva accompagnare in macchina sui sette colli per vedere il tramonto. A casa quando andavo a trovarlo, baciava il suo cane lupo in bocca, parlava rattristandosi della sua giovinezza. Non viveva certo nell’agio, la Betti insisté con la Siae perché avesse una piccola pensione. A volte passava a trovarmi a casa dopo che era stato dalla Morante, si metteva sul letto, toglieva le scarpe ed emanava puri raggi di luce. Un modo poetico per dire che gli puzzavano i piedi, per via che le calzature erano di gomma. Lo so perché eravamo intimi, ma l’amore non s’è mai fatto, per carità, a lui garbavano i fanciulli.
Penna ha avuto il coraggio di essere un poeta d’amore, di parlare di un sentimento già fuori moda allora e tanto piú obsoleto oggi. E lo ha fatto con uno stile tutto suo, fuori da qualsiasi scuola e corrente, in un clima letterario che soffriva ancora dello strascico dannunziano. Le sue sono poesie che vanno lette con gli occhi; non si dovrebbero recitare. Le liriche piú belle sono quelle degli anni Venti; quelle dove c’è il treno che sbuffa, la corriera, il garzone del fornaio… La sua lingua è semplice, sebbene strutturata, e in certi passaggi ricorda persino Dante. Anche Caproni, anche Saba cercarono la semplicità, ma Penna è un caso a sé.
PERSONAGGI
I personaggi non ci sono piú: sono andati con Luigi Pirandello a cercare l’autore. Dopodiché, c’è differenza tra Mike Bongiorno personaggio e Mike Bongiorno uomo? Charlot quando faceva l’accattone era sempre un dandy. Nella nostra tradizione burattinesca, si finisce per essere quelli che siamo.
Io, come Greta Garbo, ho tirato a me tutti i personaggi. Sono sempre stato un personaggio in scena, non ho mai voluto presentare la mia privata persona.
PINOCCHIO
Quando incontro Roberto Benigni, glielo dico sempre: il tuo Pinocchio al cinema non è andato tanto bene perché dovevi prendere me per fare la Fatina dai capelli turchini, non tua moglie. Il gran romanzo l’ho fatto alla radio, ma non in scena perché c’era già Carmelo Bene. Ai tempi nostri si facevano le fette di torta e non si invadeva il campo altrui. Ognuno aveva le sue specialità: una volta alla Rai mi chiesero di fare Molly Bloom, ma io risposi che c’era già Piera Degli Esposti. Carmelo poi mi offrí la parte di Lucignolo, peraltro, in un suo film che non si realizzò; comunque avevo già troppi impegni in teatro.
POLIFEMO
Alle scuole medie sono caduto in amore per Polifemo ed ero infelice all’idea che il cattivo Ulisse me lo dovesse accecare per meschinità. Credo che un po’ tutte le creature fuori taglia siano spontanee come i ragazzi selvaggi di Rousseau. La stranezza m’è sempre piaciuta, mi ha sempre attratto l’estremo: i nani e i giganti. Che emozione ho avuto la prima volta che ho visto la cupola del Correggio a Parma, con quegli angelini che stanno in mezzo alle cosce dei titani!
POLI LUCIA
La biologia in primo luogo. La nostra somiglianza paradossale è una dissimiglianza biologica, ma è una somiglianza di cervello, di scelte, di preparazione, di humus da cui siamo venuti fuori. Però è come un gioco di specchi. Anche perché bambini insieme non abbiamo intrecciato carole, tra noi c’è una generazione di mezzo.
La mia sorellina Lucia per me è come un figlio. Perché quando avevo vent’anni lei ne aveva nove. Quando ci voleva, la picchiavo di santa ragione. Lei comunque era spupazzata da tutti e viziatissima da me. Le facevo i compiti, l’accompagnavo a scuola. La vestivo da maschio, con camicia di picchè e scarpe mas...