Tutte le novelle
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Tutte le novelle

  1. 866 pagine
  2. Italian
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Informazioni su questo libro

A partire da Nedda (1874) Verga introduce un nuovo e originale modo di fare racconto, ricorrendo ai criteri di un verismo crudo e asciutto in grado di trasmettere al lettore le condizioni di vita - gli istinti, i costumi e le prassi sociali - di un mondo arcaico e primitivo (la Sicilia dei ceti piú arretrati) ma anche di una ricca e moderna "metropoli" (la Milano postunitaria), dove dominano l'emarginazione e le sofferenze dei "vinti", tagliati fuori dal cosiddetto "progresso". Nelle raccolte da lui via via pubblicate ( Primavera, Vita dei campi, Novelle rusticane, Per le vie, Drammi intimi, Vagabondaggio, Don Candeloro e C.i, oltre alle "novelle sparse") l'aspra e difficile terra di Sicilia, con l'incessante lotta per la sopravvivenza e il conflitto per il possesso della "roba", insieme con la desolazione di una realtà urbana segnata dall'indifferenza e dall'incomunicabilità, sono tra i motivi piú rilevanti di un'espe-rienza che fa di Verga il massimo novelliere dell'Ottocento.

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Informazioni

Editore
EINAUDI
Anno
2015
Print ISBN
9788806207175
eBook ISBN
9788858411902

Tutte le novelle

Primavera

Primavera

Allorché Paolo era arrivato a Milano colla sua musica sotto il braccio – in quel tempo in cui il sole splendeva per lui tutti i giorni, e tutte le donne erano belle – avea incontrato la Principessa: le ragazze del magazzino le davano quel titolo perché aveva un visetto gentile e le mani delicate; ma sopratutto perch’era superbiosetta, e la sera, quando le sue compagne irrompevano in Galleria come uno stormo di passere, ella preferiva andarsene tutta sola, impettita sotto la sua sciarpetta bianca, sino a Porta Garibaldi. Cosí s’erano incontrati con Paolo, mentre egli girandolava, masticando pensieri musicali, e sogni di giovinezza e di gloria – una di quelle sere beate in cui si sentiva tanto piú leggiero per salire verso le nuvole e le stelle, quanto meno gli pesavano lo stomaco e il borsellino. – Gli piacque di seguire le larve gioconde che aveva in mente in quella graziosa personcina, la quale andava svelta dinanzi a lui, tirando in su il vestitino grigio quand’era costretta a scendere dal marciapiedi sulla punta dei suoi stivalini un po’ infangati. In quel modo istesso la rivide due o tre volte, e finirono per trovarsi accanto. Ella scoppiò a ridere alle prime parole di lui; rideva sempre tutte le volte che lo incontrava, e tirava di lungo. Se gli avesse dato retta alla prima, ei non l’avrebbe cercata mai piú. Finalmente, una sera che pioveva – in quel tempo Paolo aveva ancora un ombrello – si trovarono a braccetto, per la via che cominciava a farsi deserta. Gli disse che si chiamava la Principessa, poiché, come spesso avviene, il suo pudore rannicchiavasi ancora nel suo vero nome, ed ei l’accompagnò sino a casa, cinquanta passi lontano dalla porta. Ella non voleva che nessuno, e lui meno di ogni altro, potesse vedere in qual castello da trenta lire al mese vivessero i genitori della Principessa.
Trascorsero in tal modo due o tre settimane. Paolo l’aspettava in Galleria, dalla parte di via Silvio Pellico, rannicchiato nel suo gramo soprabito estivo che il vento di gennaio gli incollava sulle gambe; ella arrivava lesta lesta, col manicotto sul viso rosso dal freddo; infilava il braccio sotto quello di lui, e si divertivano a contare i sassi, camminando adagio, con due o tre gradi di freddo. Paolo chiacchierava spesso di fughe e di canoni, e la ragazza lo pregava di spiegarle la cossa in milanese. – La prima volta che salí nella cameretta di lui, al quarto piano, e l’udí suonare sul pianoforte una di quelle sue romanze di cui le aveva tanto parlato, cominciò a capire, ancora in nube, mentre guardava attorno fra curiosa e sbigottita, si sentí venir gli occhi umidi, e gli fece un bel bacio – ma questo avvenne molto tempo dopo.
Dalla modista si ciarlava sottovoce, dietro le scatole di cartone e i mucchi di fiori e di nastri sparsi sulla gran tavola da lavoro, del nuovo moroso della Principessa, e si rideva molto di quest’altro, il quale aveva un soprabitino che sembrava quello della misericordia di Dio, e non regalava mai uno straccio di vestito alla sua bella. La Principessa fingeva non intendere, faceva una spallata, e agucchiava, zitta e fiera.
Il povero grande artista in erba le avea tanto parlato della gloria futura, e di tutte le altre belle cose che dovevano far corteo a madonna gloria, che ella non poteva accusarlo di essersi spacciato per un principe russo o per un barone siciliano. – Una volta ei volle regalarle un anellino, un semplice cerchietto d’oro che incastonava una mezza perla falsa – erano i primi del mese allora. – Ella si fece rossa e lo ringraziò tutta commossa – per la prima volta – gli strinse le mani forte, forte, ma non volle accettare il regalo: avea forse indovinato quante privazioni dovesse costare il povero gingillo al Verdi dell’avvenire, e sí che aveva accettato assai piú da quell’altro, senza tanti scrupoli, ed anche senza tanta gratitudine. Quindi, per fare onore al suo amante, si sobbarcò a gravi spese; prese a credenza una vesticciuola al Cordusio; comperò una mantellina da venti lire sul Corso di Porta Ticinese, e dei gingilli di vetro che si vendevano in Galleria Vecchia. L’altro le avea ispirato il gusto e il bisogno di certe eleganze. Paolo non lo sapeva, lui; non sapeva nemmeno che si fosse indebitata, e le diceva: – Come sei bella cosí! – Ella godeva di sentirselo dire; era felice per la prima volta di non dover nulla della sua bellezza al suo amante.
La domenica, quand’era bel tempo, andavano a spasso fuori la cinta daziaria, o lungo i bastioni, all’Isola Bella, o all’Isola Botta, in una di quelle isole di terraferma affogate nella polvere. Erano i giorni delle pazze spese; sicché quand’era l’ora di pagare lo scotto, la Principessa si pentiva delle follie fatte nella giornata, si sentiva stringere il cuore, e andava ad appoggiare i gomiti alla finestra che dava sull’orto. Egli veniva a raggiungerla, si metteva accanto a lei, spalla contro spalla, e lí, cogli occhi fissi in quel quadretto di verdura, mentre il sole tramontava dietro l’Arco del Sempione, sentivano una grande e melanconica dolcezza. Quando pioveva avevano altri passatempi: andavano in omnibus da Porta Nuova a Porta Ticinese, e da Porta Ticinese a Porta Vittoria; spendevano trenta soldi e scarrozzavano per due ore come signori. La Principessa arricciava blonde e attaccava fiori di velo su gambi di ottone durante sei giorni, pensando a quella festa della domenica; spesso il giovanotto non desinava il giorno prima o il giorno dopo.
Passarono l’inverno e l’estate in tal modo, giocando all’amore come dei bimbi giocano alla guerra o alla processione. Ella non accordavagli nulla piú di codesto, e l’innamorato si sentiva troppo povero per osare di chieder altro. Eppure ella gli voleva proprio bene; ma aveva troppo pianto, per via di quell’altro, ed ora credeva aver messo giudizio. Non sospettava nemmeno che dopo quell’altro, ora che gli voleva proprio bene, non buttarglisi fra le braccia fosse l’unica prova d’amore che il suo istinto delicato le suggerisse: povera ragazza!
Venne l’ottobre; ei sentiva la grande melanconia dell’autunno, e le avea proposto di andare in campagna, sul Lago. Approfittarono di un giorno in cui il babbo di lei era assente per fare una scappata, una scappata grossa che costò cinquanta lire, e andarono a Como per tutto un giorno. Quando furono all’albergo, l’oste domandò se ripartivano col treno della sera; Paolo lungo il viaggio avea domandato alla Principessa come avrebbe fatto se fosse stata costretta a rimaner la notte fuori di casa; ella avea risposto ridendo: – Direi di aver passata la notte al magazzino per un lavoro urgente –. Ora il giovane guardava imbarazzato lei e l’oste, e non osava dir altro. Ella chinò il capo e rispose che partivano il domani; quando furono soli si fece di bracia – cosí gli si lasciò andare.
Oh, i bei giorni in cui si andava a braccetto sotto gli ippocastani fioriti senza nascondersi, senza vedere le belle vesti di seta che passavano nelle carrozze a quattro cavalli, e i bei cappelli nuovi dei giovanotti che caracollavano col sigaro in bocca! le domeniche in cui si andava a far baldoria con cinque lire! le belle sere in cui stavano un’ora sulla porta, prima di lasciarsi, scambiando venti parole in tutto, tenendosi per mano, mentre i viandanti passavano affrettati! Quando avevano cominciato non credevano che dovessero arrivare a volersi bene sul serio; – ora che ne avevano le prove sentivano altre inquietudini.
Paolo non le avea mai parlato di quell’altro di cui avea indovinato l’esistenza fin dalla prima volta che la Principessa si era lasciata mettere sotto il suo ombrello: l’avea indovinato a cento nonnulla, a cento particolari insignificanti, a certo modo di fare, al suono di certe parole. Ora ebbe un’insana curiosità. – Ella possedeva in fondo una gran rettitudine di cuore, e gli confessò tutto. Paolo non disse nulla; guardava le cortine di quel gran letto d’albergo su cui delle mani sconosciute avevano lasciato ignobili macchie.
Sapevano che quella festa un giorno o l’altro avrebbe avuto fine; lo sapevano entrambi e non se ne davano pensiero gran fatto, – forse perché avevano dinanzi la gran festa della giovinezza. – Lui anzi si sentí come alleggerito da quella confessione che la ragazza gli avea fatto, quasi lo sdebitasse di ogni scrupolo tutto in una volta, e gli rendesse piú agevole il momento di dirle addio. A quel momento ci pensavano spesso tutt’e due, tranquillamente, come cosa inevitabile, con certa rassegnazione anticipata e di cattivo augurio. Ma adesso si amavano ancora e si tenevano abbracciati. – Quando quel giorno arrivò davvero fu tutt’altra storia.
Il povero diavolo avea gran bisogno di scarpe e di quattrini; le sue scarpe s’erano logorate a correr dietro le larve dei suoi sogni d’artista, e della sua ambizione giovanile, – quelle larve funeste che da tutti gli angoli d’Italia vengono in folla ad impallidire e sfumare sotto i cristalli lucenti della Galleria, nelle fredde ore di notte, o in quelle tristi del pomeriggio. Le meschine follie del suo amore costavano care! A venticinque anni, quando non s’è ricchi d’altro che di cuore e di mente, non si ha il diritto di amare, fosse anche una Principessa; non si ha il diritto di distogliere lo sguardo, fosse anche per un sol momento, sotto pena di precipitare nell’abisso, dalla splendida illusione che vi ha affascinato e che può farsi la stella del vostro avvenire; bisogna andare avanti, sempre avanti, cogli occhi intenti in quel faro, avidi, fissi, il cuore chiuso, le orecchie sorde, il piede instancabile e inesorabile, dovesse camminare sul cuore istesso. Paolo fu malato, e nessuno seppe nulla di lui per tre interi giorni, nemmen la Principessa. Erano incominciati i giorni squallidi e lunghi in cui si va a passeggiare nelle vie polverose fuori le porte, a guardare le mostre dei gioiellieri, e a leggere i giornali appesi agli sportelli delle edicole, i giorni in cui l’acqua che scorre sotto i ponti del Naviglio dà le vertigini, e guardando in alto si vedono sempre le guglie del Duomo che vi affascinano. La sera, quando aspettava in via Silvio Pellico, faceva piú freddo del solito, le ore erano piú lunghe, e la Principessa non aveva piú la solita andatura svelta e leggiadra.
In quel tempo gli capitò addosso una fortuna colossale, qualcosa come 4000 lire all’anno perché andasse a pestare il piano pei caffè e i concerti americani. Accettò colla stessa gioia come se avesse avuto il diritto di scegliere: dopo pensò alla Principessa. La sera, la invitò a cena, in un gabinetto riservato del Biffi, al pari di un riccone dissoluto. Avea avuto un acconto di 100 lire e ne spese buona parte. La povera ragazza spalancava gli occhi a quel festino da Sardanapalo, e dopo il caffè, col capo alquanto peso, appoggiò le spalle al muro, seduta come era sul divano. Era un po’ pallida, un po’ triste, ma piú bella che mai. Paolo le metteva spesso le labbra sul collo, vicino alla nuca; ella lo lasciava fare, e lo guardava con occhi attoniti, quasi avesse il presentimento di una sciagura. Ei sentivasi il cuore stretto in una morsa, e per dirle che le voleva un gran bene le domandava come avrebbero fatto quando non si fossero piú visti. La Principessa stava zitta, volgendo il capo dalla parte dell’ombra, cogli occhi chiusi, e non si muoveva per dissimulare certi lagrimoni grossi e lucenti che scorrevano e scorrevano per le guance. Allorché il giovane se ne accorse ne fu sorpreso: era la prima volta che la vedeva piangere. – Cos’hai? – domandava. Ella non rispondeva, o diceva – nulla! – con voce soffocata; – diceva sempre cosí, ch’era poco espansiva, e aveva superbiette da bambina. – Pensi a quell’altro? – domandò Paolo per la prima volta. – Sí! – accennò ella col capo, sí! – ed era vero. Allora si mise a singhiozzare.
L’altro! voleva dire il passato: voleva dire i bei giorni di sole e d’allegria, la primavera della giovinezza, il suo povero affetto destinato a strascinarsi cosí, da un Paolo all’altro, senza pianger troppo quand’era triste, e senza far troppo chiasso quand’era gaio; voleva dire il presente che se ne andava, quel giovane che oramai faceva parte del suo cuore e della sua carne, e che sarebbe divenuto un estraneo anche lui, fra un mese, fra un anno o due. Paolo in quel momento ruminava forse vagamente i medesimi pensieri e non ebbe il coraggio di aprir bocca. Soltanto l’abbracciò stretto stretto e si mise a piangere anche lui. – Avevano cominciato per ridere.
– Mi lasci? – balbettò la Principessa. – Chi te l’ha detto? – Nessuno, lo so, lo indovino. Partirai? – Ei chinò il capo. Ella lo fissò ancora un istante cogli occhi pieni di lagrime, poi si voltò in là, e pianse cheta cheta.
Allora, forse perché non avea la testa a casa, o il cuore troppo grosso, ricominciò a vaneggiare, e gli raccontò quel che gli aveva sempre nascosto per timidità o per amor proprio; gli disse com’era andata con quell’altro. A casa non erano ricchi, per dir la verità; il babbo aveva un piccolo impiego nell’amministrazione delle ferrovie, e la mamma ricamava; ma da molto tempo la sua vista s’era indebolita, e allora la Principessa era entrata in un magazzino di mode per aiutare alquanto la famiglia. Colà, un po’ le belle vesti che vedeva, un po’ le belle parole che le si dicevano, un po’ l’esempio, un po’ la vanità, un po’ la facilità, un po’ le sue compagne e un po’ quel giovanotto che si trovava sempre sui suoi passi, avevano fatto il resto. Non avea capito di aver fatto il male, che allorquando aveva sentito il bisogno di nasconderlo ai suoi genitori: il babbo era un galantuomo, la mamma una santa donna; sarebbero morti di dolore se avessero potuto sospettare la cosa, e non l’aveano mai creduto possibile, giacché avevano esposto la figliuola alla tentazione. La colpa era tutta sua... o piuttosto non era sua; ma di chi era dunque? Certo che non avrebbe voluto conoscer quell’altro, ora che conosceva il suo Paolo, e quando Paolo l’avrebbe lasciata non voleva conoscer piú nessuno...
Parlava a voce bassa, sonnecchiando, appoggiando il capo sulla spalla di lui.
Allorché uscirono dal Biffi indugiarono alquanto pel cammino, rifacendo tutta la triste via crucis dei loro cari e mesti ricordi: la cantonata dove s’erano incontrati, il marciapiedi sul quale s’erano fermati a barattar parole la prima volta. – To’! – dicevano, – è qui! – No, è piú in là –. Andavano come oziando, intontiti; nel separarsi si dissero – a domani.
Il giorno dopo Paolo faceva le valigie, e la Principessa, inginocchiata dinanzi al vecchio baule sgangherato, l’aiutava ad assestarvi le poche robe, i libri, le carte di musica sulle quali ella avea scarabocchiato il suo nome, in quei giorni là. – Quei panni glieli aveva visti indosso tante volte! – una cosa copriva l’altra, e stringeva il cuore il vederle scomparire cosí, una alla volta. Paolo le porgeva ad uno ad uno i panni che andava a prendere dal cassettone o dall’armadio; ella li guardava un momento, li voltava e rivoltava, poi riponeva per bene, senza che facessero una piega, fra le calze e i fazzoletti; non dicevano molte parole, e mostravano d’aver fretta. La ragazza avea messo da banda un vecchio calendario sul quale Paolo soleva fare delle annotazioni. – Questo me lo lascerai? – gli disse. Ei fece cenno di sí senza voltarsi.
Quando il baule fu pieno rimanevano ancora qua e là, su per le seggiole e il portamantelli, dei panni logori e il vecchio soprabito. – A quella roba penserò domani, – disse Paolo; la ragazza premeva sul coperchio col ginocchio mentre egli affibbiava le correggie; poi andò a raccogliere il velo e l’ombrellino che aveva lasciati sul letto e si mise a sedere sulla sponda tristamente. Le pareti erano nude e tristi; nella camera non rimaneva altro che quella gran cassa, e Paolo il quale andava e veniva, frugando nei cassetti, e raccogliendo in un gran fagotto le altre robe.
La sera andarono a spasso l’ultima volta. Ella gli si appoggiava al braccio timidamente, quasi l’amante cominciasse a diventare un estraneo per lei. Entrarono al Fossati, come nei giorni di festa, ma partirono di buon’or...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Tutte le novelle
  3. Introduzione di Giuseppe Zaccaria
  4. Nota ai testi
  5. Tutte le novelle
  6. Appendice
  7. Dramma intimo
  8. Ultima visita
  9. Il libro
  10. L’autore
  11. Dello stesso autore
  12. Copyright