All’inizio lui c’era già, prima ancora che mari e terre e cieli figurassero il mondo. Anche lui senza volto, come quel caos confuso e senza misura che pesava inerte nel nulla, e aveva forma di sfera. Poi, quando acqua e terra e fuoco non vollero piú stare insieme e iniziarono a essere il mare, la terra e il cielo, parti distinte del cosmo, allora tornò a un aspetto finalmente degno di un dio.
Eppure gli rimase qualcosa di strano, un piccolo segno della dismessa sfericità. Non sembrava avere né davanti né dietro, sulla testa mostrava due volti, posti l’uno nel verso contrario dell’altro. Dove un dio avrebbe avuto normalmente la nuca, lui aveva un altro viso. Questo fatto non era motivo di confusione, al contrario era segno che lui vigilava sullo spazio nel quale regnava, perché poteva vedere sia davanti che dietro, e adesso che il mondo si era fatto ordinato il suo sguardo fissava lo spazio: non sarebbe tornato a confondersi ancora. Restava immobile, fermo, a fare il guardiano dei punti piú a rischio, dove la distinzione poteva sfuggire, dove il qui aveva inizio e il là terminava. Era il dio di tutti i «passaggi» e si chiamava Ianus, Giano, come iani erano detti i passaggi e ianua la porta. Cosí il dio Giano sorvegliava tutto quanto passava, da qui a là, da davanti a dietro, da fuori a dentro, e viceversa. Reggendo in mano un bastone di viandante e una chiave, sarà sempre il dio dell’uscita e dell’entrata, dell’andare e venire, di chi partirà e di chi troverà la via del ritorno. Per questo quando un esercito romano uscirà per fare la guerra le porte del tempio di Giano staranno aperte finché i soldati, salvi e possibilmente trionfanti, non saranno rientrati a casa. Domi, a casa: cosí si dirà per indicare lo stato di pace.
Ma a uscire ed entrare non sono solo uomini e cose.
Giano vedeva entrare la bella stagione, uscire l’inverno, entrare un anno nuovo e uscire il giorno al tramonto. Il tempo andava e veniva, in silenzio, un flusso continuo. Il dio guardava passare anche i mesi, senza che si fermassero mai, da bruma a bruma, da solstizio d’inverno a solstizio d’inverno. E adesso che c’era il cielo, che il sole andava e tornava, che passavano i giorni e le notti, lui vigilava sul tempo nel quale regnava. Diceva: «Il vecchio anno finisce qui e proprio qui il nuovo comincia» e il tempo acquistava un corso ordinato.
E cosí il mese che segue alla bruma, quello in cui un sole nuovo inizia il cammino, si chiamerà per sempre Ianuarius, di Giano, il nostro Gennaio. Nel suo primo giorno, alle Kalendae, i Romani si scambieranno gli auguri, per buon auspicio, e offriranno al dio miele, datteri e fichi secchi, perché la dolcezza passi a tutte le cose, sperando che il tempo a venire possa essere dolce come al suo inizio.
Il dio, però, non stava lí soltanto a guardare, a sorvegliare il cammino del tempo, ne aveva anche la conoscenza, piú a lungo e prima di tutti, perché riusciva a vedere tutto il passato e tutto il futuro, quanto era trascorso e quanto doveva ancora arrivare. Agli esseri umani – quando ovviamente ci saranno anche loro nel mondo – questa visione non sarà data. Per loro le cose funzioneranno in modo piú complicato. Ciascun uomo, infatti, nel suo cammino lungo la vita (perché anche gli uomini, ahinoi, verranno e andranno) si lascerà man mano il tempo passato dietro le spalle e avrà quello futuro davanti. All’avvenire potrà andare incontro, oppure potrà stare fermo ad aspettare che arrivi, questione di indole e di coraggio. Ma quando si tratterà di volerlo conoscere sarà come averlo di dietro, nascosto: non potrà vederlo e non saprà cosa lo aspetta. Il futuro gli starà «dietro», alle spalle. E quanto al passato, benché gli stia davanti agli occhi, l’essere umano non avrà lunga vista, né sempre buona. A saperne di piú a volte lo aiuteranno i sogni, facendo vedere avvenimenti futuri o svelando circostanze passate e sfuggite allo sguardo, altre volte gli dèi, inviando segni e messaggi, sotto forme diverse, attraverso voci, visioni, voli di uccelli, oracoli o profezie. Ma sogni e divinità parleranno un linguaggio particolare, ambiguo se non oscuro: per decifrarlo ci vorranno mediatori speciali, interpreti esperti, arguti indovini o sacerdoti sapienti. Il dio Giano, invece, grazie ai due volti, poteva vedere e sapere quello che c’era «dietro», per lui era nei fatti come averlo «davanti». Per questo lo conosceva. Per questo era signore dello spazio e del tempo.
Quando il mondo ebbe inizio e Giano tornò ad avere l’aspetto di un dio, poco a poco, si narra, apparvero ovunque le fonti, i laghi, i fiumi, le valli e i monti coperti di boschi. Apparvero pesci nell’acqua, animali sui prati e nelle foreste, uccelli nell’aria. Solo in ultimo fece il suo ingresso l’essere umano. Forse fu in quel momento che Giano si guardò intorno e scelse la sua dimora, una collina coperta allora di querce e farnetti.
«Da quassú, – si disse, – potrò godermi ogni cosa, basta solo aspettare».
E da quel colle – Gianicolo lo chiameranno – si dispose a guardare l’inizio del tempo e dello spazio di Roma.
Nello spazio sul quale si stenderà Roma c’era una volta una terra ricoperta di paludi e foreste. Vi arrivava, impetuoso, un fiume che scendeva da nord e che proprio ai piedi del colle di Giano, come spinto dallo sguardo del dio, si ritirava in un’ansa, per trovare sul lato opposto, sulla riva sinistra, sette alti colli. Erano coperti di boschi – querce, faggi, eschi o sottili sambuchi – e stavano su due file come in un anfiteatro, impedendo al fiume di smarrire il suo corso, di cercare una foce troppo lontana. E il fiume allora, formata ai loro piedi una grande palude, piegava indietro e se ne andava per una larga pianura, via verso il mare, in mezzo alle selve e fra le rive sabbiose.
Un giorno, quando lambirà le mura di Roma, questo fiume dalle acque terse e brillanti (in certe ore sembravano bionde) verrà chiamato Tiberis, Tevere [cfr. p. 75]. Non era un semplice corso d’acqua. In realtà era la sede di un dio, figlio di Giano e di Camesene, bella ninfa dei boschi. Viveva fra le correnti e poteva invertirne anche il corso, governava gorghi e fiumane, gonfiava e ritirava le piene. Aveva barba e capelli fluenti simili a onde, un manto sottile colore dell’acqua e il capo coperto da una corona di canne intrecciate.
Sarà invocato col nome di Tiberino e con queste parole: «Sia tu propizio, Padre Tiberino, con le tue inviolabili onde».
Verrà detto «padre» perché dava vita a tanti altri piccoli fiumi. E le sue acque saranno sempre inviolabili e sacre: non sarà lecito interromperne il flusso, né contaminarle con bagni o con lancio di oggetti. Offriranno anche la via per il mare, la migliore per incontrare genti straniere. Segneranno insomma lo spazio e tutta la vita di Roma.
Ma prima ancora di Roma, in quei tempi lontani, intorno al Tevere e al dio Tiberino fitte foreste coprivano una vasta regione. Uno spazio privo di campi, di case, di cippi e di strade, ma certo non privo di vita. All’ombra dei lecci, dei faggi, delle querce maestose, fra i canneti e le felci, vicino alle fonti e ai ruscelli vivevano creature diverse che abitavano insieme: animali, esseri umani e divinità mescolavano le loro voci, i loro richiami.
In ogni sorgente e in ogni ruscello vivevano bellissime Ninfe, o forse allora si chiamavano Linfe, ragazze dell’acqua dalla voce che sapeva incantare. Qualcuno sostiene che sarebbe bastato vederle, lí fra le onde, per perdere il senno. Vivevano insieme, molto unite fra loro e anche se non lo erano in senso stretto sembravano delle «sorelle»: non solo di specie ma unite e sodali fra loro, proprio come sorelle. Alcune erano figlie di Giano, altre di suo figlio Fontus, o Fons, dio di ogni fonte, al quale un giorno sarà dedicato un altare sul colle Gianicolo, vicino alla sede del padre. Per la sua festa, il tredici del mese di ottobre, corone di fiori saranno gettate in tutte le fonti o appese nei pozzi. Ma sarà alle Ninfe che i Romani dedicheranno culti speciali, accanto a ogni sorgente, alzando boschetti, templi ed altari, curati con molta attenzione. Quell’acqua che sgorgava viva e perenne da sotto la terra, piena di forza e mai toccata era purissima e sacra, e servirà per i rituali, ma avrà anche il potere di dare salute.
La ninfa salutare per eccellenza si chiamava Iuturna, Giuturna, come dice il suo stesso nome che viene dal verbo iuvare, «far bene», «giovare». Le sue acque erano le piú benefiche, le piú pure, saranno sempre le preferite da sacerdoti e malati. Un giorno questa ninfa della salute sarà onorata con una festa, quella dei Iuturnalia, celebrata da tutti i Romani che avranno una relazione con l’acqua.
Si tramanda che fosse l’amante di Giano e la madre di Fons. C’è però chi racconta che anche Giove fosse stato preso da ardente passione per lei. Ma lei, crudele, non ricambiava e per sfuggirgli si nascondeva fra boschi di fitti noccioli o si tuffava nell’acqua. Giove irritato e umiliato convocò allora tutte le ninfe e parlò loro cosí:
– Giuturna non vuole fare l’amore con me, il piú grande degli dèi immortali, e cosí danneggia se stessa. Se aiuterete me, in realtà darete aiuto a vostra sorella. Mentre lei fugge, ponetevi sull’orlo della riva perché non possa immergersi nell’acqua del fiume. Cosí potrò prenderla. Io ne avrò un grande piacere, e lei un grande vantaggio.
Tutte le ninfe gli fecero cenno che sí, lo avrebbero fatto. C’era per caso fra loro la bellissima Lara, figlia del fiume Almone, un affluente del Tevere. A quanto pare nei primissimi tempi (cosí sostiene un antico poeta) aveva il nome di Lala – dalla parola greca lalē, chiacchierona – e in effetti era una ninfa che non sapeva tacere. Quante volte suo padre le aveva detto di tenere a bada la lingua, ma lei non poteva, non ci riusciva. E cosí anche quel giorno non si frenò. Corse al lago della sorella Giuturna e le riferí, per filo e per segno, le parole di Giove.
– Scappa, va via, non cercare rifugio nel fiume, – esortava.
Poi vide Giunone, la sposa di Giove, e ancora una volta non seppe tacere: – Tuo marito è innamorato della ninfa Giuturna.
Giove, si narra, divenne una furia. E senza esitare strappò a Lara quella lingua che lei non usava a dovere. Poi chiamò il dio Mercurio e gli ordinò di portare la ninfa fra i morti, muta per sempre.
– Che resti laggiú, dove regna il silenzio, dove nessuno ha piú voce, – tuonava. Mercurio, senza perdere tempo, prese Lara e volò verso i luoghi silenti dei Mani, anime dei defunti e dèi loro stessi del mondo di sotto. Ma lungo il percorso s’invaghí della bellissima ninfa e senza darsi pensiero le fece violenza. Lei cercava di implorare pietà, ma la sua bocca ormai muta non riusciva ad emettere nessuna parola. Sembra che da quello stupro divino siano nati due figli gemelli, chiamati Lari [cfr. p. 201] a ricordo del nome materno. Ma lei cambiò nome adesso che non poteva piú cantare e parlare. E cosí Lara, la chiacchierona, la ninfa indiscreta, divenne dea della discrezione, del silenzio opportuno e prudente, e venne chiamata per sempre Tacita.
Tacita vuol dire «che fa tacere», dea invocata da chi vorrà comportarsi da persona perbene, visto che a Roma essere di poche parole sarà sempre considerata una grande virtú, per uomini e donne. «Parla per ultimo, taci per primo», affermerà un noto precetto. Tacita allora difenderà tutti dalla propria eccessiva loquacità, ma soprattutto le donne, sempre inclini, si sa, a parlar troppo e anche male [cfr. p. 125]. La storia di Lara, d’altronde, avrebbe insegnato che le donne riescono a stare zitte solo se si strappa loro la lingua. La muta dea del silenzio però avrà anche il potere di proteggere dalle parole degli altri, cucendo labbra di maldicenti, bloccando lingue di nemici pettegoli. Finire nella bocca degli altri sarà sempre per i Romani un pericolo serio: si tratterà di una questione di pubblica reputazione, di prestigio sociale e di onore [cfr. p. 348-49 e 216].
Tacita/Lara resterà per sempre nel mondo dei morti, dove è sovrano il silenzio, fra coloro che non hanno piú voce. Per questo anche lei verrà onorata il 21 febbraio nel corso dei Feralia, la festa dei morti, nei giorni dedicati ai parenti defunti.
Le sorelle di Lara continuavano invece a cantare. Fra tutte si distingueva Carmenta che doveva il suo nome proprio ai carmina, i canti, che sapeva intonare: non erano semplici melodie, erano dei vaticini. Come Giano, anche Carmenta infatti conosceva il passato e il futuro, e svelava il destino con la sua voce che risuonava fra i monti, nei boschi, nelle grotte nascoste. I Romani le faranno un altare, vicino alla Porta chiamata in suo onore Carmentale, e le daranno un sacerdote speciale, il flàmine carmentale, tanto importante sarà la sua profetica voce. Al suo fianco stavano altre due dee dal nome molto eloquente, Postvorta e Porrima (che qualcuno chiama anche Antevorta).
Postvorta, dea del «volgere indietro», sapeva vaticinare il futuro perché conosceva quanto stava nascosto dietro le spalle degli ignari esseri umani, Porrima/Antevorta, dea dell’«in avanti» (porro) vaticinava invece gli eventi passati: sarà di aiuto agli uomini quando vorranno capire quali colpe o errori, commessi in precedenza, abbiano scatenato l’ira e la punizione divina.
La festa dei Carmentalia sarà celebrata soprattutto dalle matronae, le donne sposate, perché Carmenta e le sue sorelle, tutte insieme dette Carmentae, verranno invocate anche in occasione del parto, momento pieno di segni premonitori per la vita di chi sta nascendo, per la sua sorte futura. In particolare Antevorta veglierà sul bambino che nasce dalla parte della testa e Postvorta su quello che nasce dalla parte dei piedi.
Ma altre ninfe popolavano il mondo intorno al dio Tiberino. Fra gli alberi ombrosi di una valle ricca di grotte e sorgenti abitavano le Camenae [cfr. p. 152], dal canto particolarmente armonioso. Nei boschi di querce, poi, stavano come custodi e padrone le arcane Virae, dee della forza rigogliosa, la vis, dotate di divina sapienza, che rendevano prudente chiunque volesse addentrarsi in un fitto querceto.
Altre presenze, questa volta maschili, abitavano quelle terre. Erano i Fauni, creature con la parte superiore del corpo di essere umano e quella inferiore di capro. Di questo animale condividevano esuberanza e vigore, ma non erano capri, né potevano dirsi esseri umani, nonostante fossero forniti di un’intelligenza speciale. Erano anche loro divinità che facevano risuonare oracoli e profezie dal fitto dei boschi [cfr. p. 37]. Preferivano stare sulle balze scoscese di monti, nelle caverne profonde, nelle dense foreste, tutti luoghi impenetrabili agli esseri umani. E anche se la loro presenza era svelata per lo piú dalla voce, poteva anche accadere che in certe ore del giorno si riuscisse a vederli saltare per qualche radura. A dire il vero, un giorno, quando al posto di foreste e paludi in quelle zone ci sarà una città ricca e potente, Faunos cernere, scorgere Fauni, vorrà dire piú o meno «avere allucinazioni», sarà sintomo di malattia [cfr. p. 38]. Per i Romani, comunque, i Fauni saranno sempre divinità dei tempi piú antichi, presenze di un mondo scomparso: queste creature dall’aspetto ibridato svolgeranno la stessa funzione degli ibridi in molte culture, quella di rappresentare l’alterità, in questo caso temporale e spaziale, immaginabile solamente attraverso la combinazione di quanto è già noto.
In quei tempi lontani anche gli esseri umani vivevano nelle foreste e sui monti, gente sparsa, senza città, senza leggi, ignara del lavoro dei campi. Cacciavano fiere selvagge, raccoglievano e mangiavano ghiande, dormivano dentro le grotte o sotto l’ombra dei lecci, distesi su pelli animali. Uomini rudi, certo, ma semplici e buoni, non facevano guerra, non cercavano terre e genti straniere, non chiedevano altro che un po’ di cibo e un riparo. Mescolavano le loro voci a quelle degli animali e delle divinità, e soprattutto prestavano orecchio, attento e stupito, a quei suoni diversi che riempivano l’aria, e impararono a capirne il linguaggio, disposti a lasciarsi incantare o guidare. E poi grazie ad essi sapevano di non essere soli in quel mondo silvestre ed arcano, un mondo sop...