Nel filone dei classici dell’antimafia un posto di rilievo spetta a Maffia e delinquenza in Sicilia di Giuseppe De Felice Giuffrida (Catania 1859 - Aci Castello 1920). L’autore è uno dei piú importanti esponenti della storia del movimento socialista siciliano, di cui fu figura emblematica e di grande indipendenza. Sindacalista, direttore de «l’Unione», De Felice Giuffrida fu in particolare, come Napoleone Colajanni, uno dei massimi promotori dei Fasci siciliani, a cui cercò di assicurare unità politica e vasti legami sociali. Grazie al suo impulso la provincia di Catania, nella quale fu eletto deputato nel 1892, divenne epicentro della rivolta nella Sicilia orientale. E fu proprio questa sua funzione dirigente nella lotta contro il sistema di potere agrario dell’epoca, e contro i rapporti sociali nelle campagne di fine secolo, che lo trasformò in un avversario frontale del governo Crispi. Il quale, impegnato in una radicale e dura repressione del movimento contadino, lo fece condannare a diciotto anni di carcere dal tribunale militare di Palermo (De Felice Giuffrida ne scontò due, beneficiando della successiva amnistia).
Le pagine che seguono vanno lette collegandole dunque a questa incessante attività politica e sindacale e alla sua ispirazione ideale. Se infatti il funzionario di polizia governativo (anzi crispino) Giuseppe Alongi nulla concede alle classi popolari che offrono il loro consenso alla cultura e ai costumi mafiosi, il dirigente socialista antigovernativo e anticrispino si impegna a denunciare con passione le condizioni di ignoranza e di abbrutimento sociale in cui vivono i contadini e le classi popolari in generale. E a spiegare – se non giustificare – attraverso queste condizioni la mancanza di fiducia nelle istituzioni, il ricorso alla mediazione mafiosa, la ricerca della protezione, l’omertà culturale, la commissione del reato. L’analisi dei fattori della «Maffia» è dunque ben diversa da quella che abbiamo ritrovato nell’Alongi e si avvicina semmai per certi aspetti a quella del Colajanni. Ecco cosà la «necessità del furto» o la descrizione dello stato di disperazione nel quale cade il contadino vessato dall’usura e dalle tasse. Ecco l’analisi delle disuguaglianze sociali e la denuncia del sistema di favoritismi e di complicità che lega le classi dominanti al prepotere mafioso, un sistema svelato platealmente all’opinione pubblica proprio dalla vicenda dei Fasci siciliani, nel corso dei quali le forze dell’ordine erano state affiancate nella attività di repressione dalle bande mafiose.
Alla denuncia severa della penetrazione della mafia nelle amministrazioni, nelle banche e nelle opere pie (in questo non discostandosi troppo dal Franchetti e dall’Alongi), De Felice Giuffrida accompagna una difesa di principio del popolo, fino a sostenere che «il popolo è il solo nemico della mafia». Sarà dunque il socialismo con le sue realizzazioni e le sue conquiste l’unica via per sconfiggere il fenomeno mafioso. Si tratta di una prospettiva anticipatrice di quella coltivata piú di mezzo secolo dopo dal movimento comunista, non soltanto siciliano, secondo la quale solo la sconfitta del capitalismo avrebbe permesso la sconfitta della mafia. Anche per questo, oltre che per i toni talora assunti dalla sua denuncia, l’autore venne accusato di populismo. Eletto sindaco alla guida della prima amministrazione di sinistra di Catania (per diventare successivamente presidente della provincia), egli venne comunque ricordato per avere istituito i forni municipali con l’obiettivo di sostenere i ceti meno abbienti nel soddisfacimento dei propri piú elementari bisogni.
Benché il libro (scritto, come ricorda la prefazione, in una settimana) non si possa catalogare tra quelli dotati di maggiore spessore scientifico o analitico, esso resta però un documento storico fondamentale. Sia per illustrare lo spirito di un’azione politica volta incessantemente alla trasformazione sociale della Sicilia e alla lotta contro la mafia sia anche per indicarne l’incertezza delle premesse teoriche.
Opere principali di Giuseppe De Felice Giuffrida.
Popolazione e socialismo, Biondo, Palermo 1896.
Evoluzione storica della Proprietà e il Socialismo in Sicilia, sequestrato dalle autorità .
Maffia e delinquenza in Sicilia, Società editrice lombarda, Milano 1900.
La questione sociale in Sicilia, L. Cardi, Roma 1901.
Per saperne di piú:
S. F. Romano, Storia dei Fasci siciliani, Laterza, Bari 1959.
F. Renda, I Fasci siciliani (1892-1894), Einaudi, Torino 1977.
II. La maffia ed il delitto.
Ad un carattere forte per costituzione organica e ribelle per tradizione ereditaria, come quello del siciliano, aggiungete una condizione economica prossima a quella dello schiavo, una condotta delle autorità politiche, sempre violenta, spesso intollerabile, specialmente nei piccoli centri, dove un delegato di polizia giudica e manda secondo che avvinghia, ed ecco, nel complesso, la causa di quelle terribili malattie sociali che si chiamano maffia, delinquenza, brigantaggio.
Esaminiamo la maffia.
Ma, prima di tutto, non generalizziamo.
Non può dirsi che la maffia sia una malattia siciliana; e quelli che credono che la Sicilia sia tutta un covo di maffiosi, danno prova di non conoscere le condizioni reali dell’isola.
La maffia ha una geografia: la parte orientale dell’isola, che va da Messina a Catania ed a Siracusa, è quasi completamente guarita da questa malattia sociale; e la parte occidentale – Palermo, Trapani, Girgenti – nella quale la maffia, disgraziatamente, si manifesta ancora con qualche violenza. Tra le due parti, esiste una specie di zona intermedia, la provincia di Caltanissetta, nella quale non si può dire che la maffia sia completamente scomparsa, come non si può dire che abbia vaste ramificazioni.
Determinando meglio, bisogna ancora notare che le stesse provincie piú travagliate dalla maffia non sono poi dei covi di maffiosi, come alcuni credono, confondendo la parte sana con la parte corrotta della società .
La maffia ivi si estende, esercita la sua influenza, fa sentire il suo peso, come la camorra a Napoli, come la teppa altrove, ma non va al di là di una determinata categoria di persone.
È anche lÃ, come altrove, la parte ammalata della società che la produce e l’alimenta.
Semplicemente c’è questo di diverso, tra la maffia e le altre malattie sociali: che la maffia assume spesso forma e carattere politico, serve ad esercitare una pressione, a garentire una clientela, ad imporre un interesse, mentre la camorra mira piú direttamente al furto e la teppa ha carattere quasi esclusivamente sanguinario.
E badate che la maffia ha due aspetti completamente diversi, due tendenze perfettamente opposte.
La forma piú brutta è quella tradizionale del signorotto, abitualmente prepotente, che se ne serve quasi per ragioni ereditarie. Una volta imperava nella campagna, spargendovi il terrore, per mezzo dei campieri; ora, fatta piú civile, impera nelle elezioni, per mezzo degli accoliti.
Ed il governo la protesse allora, per domare il popolo; la protegge adesso, per vincere tutte le resistenze, anche legali, e trionfare nelle elezioni.
L’altro aspetto della maffia è quello che si presenta guardando gli accoliti, i proseliti, i fratelli.
Ordinariamente la maffia, esaminata da questo punto di vista, non è che una forma degenerata di quella solidarietà che è un bisogno fortemente sentito dall’uomo.
Crederete, come ho accennato, che lo scopo della maffia sia il furto? Manco per sogno!
La maffia non è stata che rarissime volte implicata in reati di furto.
La «Rivista Carceraria» – anno V, pagina 176 – ne dà la miglior prova.
Scrivendo a proposito del famoso processo contro la Fratellanza, il quale, diversi anni addietro, si svolgeva a Girgenti, è costretta a confessare che la Fratellanza (una manifestazione violenta della maffia) non era un’associazione di ladri.
Quanto agli attentati contro la proprietà – osserva – potevano essere un mezzo di vendetta, poiché questa si compie contro una persona anche devastandone i beni; ma, come dicemmo, non era fra i canoni della «Fratellanza» il furto organizzato a scopo di lucro, e lo dimostra anche il fatto che di tanti chiamati innanzi al tribunale2 non uno era accusato di furto...
E la maffia è diversa della camorra (malattia napolitana) in quanto che questa fonda la sua esistenza sull’illecito guadagno conseguito con ogni possibile mezzo, laddove quella piú platonicamente suole contentarsi della sola supremazia anche infruttuosa.
Il camorrista ha piú del ladro, il maffioso piú dell’assassino.
C’è molta esagerazione, specialmente nella chiusa, ma il fondo è relativamente vero.
La maffia è dunque una società di sanguinari, di assassini, o peggio?
Nemmeno ciò può sostenersi, senza correre il rischio di essere frequentemente smentiti dai fatti.
«Nella generalità dei casi – riferisce il Lombroso, riproducendo il giudizio dell’avv. Benenati – il maffioso non commette reati gravi: la cerchia della sua delinquenza è in massima ristretta alle contravvenzioni all’ammonizione ed alla speciale sorveglianza, a qualche furto e raramente a dei reati di sangue»3.
Ed anche questo è vero.
Ma allora che cosa è la maffia?
È una esplosione violenta d’ira popolare, dovuta ad un impulso collettivo ed istintivo, il quale unisce in un patto quasi delittuoso molti di coloro, tra i piú impulsivi, che, trattati come cani dalla società , giurano di non aver fiducia in altra giustizia che in quella che si fanno con le loro stesse mani.
Rifarsi segretamente delle violenze ogni giorno patite, bruciando i pagliai, guastando la messe, devastando i poderi dei nemici; aiutarsi e sorreggersi reciprocamente, senza antipatie tra fratelli, sino alla morte, sicut cadaver, come dice la «Rivista Carceraria»; sfuggire in tutt’i modi agli artigli della giustizia, facendo tacere i testimoni che dovrebbero parlare e facendo parlare quelli che dovrebbero tacere: ecco lo scopo della maffia.
In altri termini, convinta che la giustizia è meretrice del ricco, la maffia mira a sostituirsi essa stessa alla legge.
Il ricco, il signore, che fa pa...