Mai devi domandarmi
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Mai devi domandarmi

  1. 256 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
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Mai devi domandarmi

Informazioni su questo libro

La solitudine dell'infanzia e lo stupore della vecchiaia, i film visti e i libri letti, le esperienze di lavoro, la psicanalisi, la musica lirica (il titolo è tratto dal libretto del Lohengrin ), le faccende domestiche, la politica, il credere o il non credere in Dio: i brevi saggi raccolti in questo volume risalgono alla fine degli anni Sessanta e stanno idealmente accanto alle Piccole virtú. Somigliano alle pagine di quel diario che l'autrice dichiarava di non tenere. Di certo sono vicini, per affinità tematica e sapienza di racconto, a Lessico famigliare e, come altrove nell'opera di Natalia Ginzburg, sono inseparabili dalla vocazione del narrare di sé. Nella loro casualità, nel loro placido disordine quotidiano, affrontanno questioni che appartengono a ciascuno di noi. Mai devi domandarmi diventa cosí un'esperienza familiare, un oggetto destinato a farci compagnia giorno dopo giorno.
Con la cronologia della vita e delle opere, la bibliografia ragionata e l'antologia della critica.

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Informazioni

Editore
EINAUDI
Anno
2013
Print ISBN
9788806185589
eBook ISBN
9788858409619

Mai devi domandarmi

a Gabriele

La casa

Anni fa, venduto un alloggio che avevamo a Torino, ci mettemmo a cercare casa a Roma; e la ricerca di questa casa durò lungo tempo.
Io desideravo, da anni, una casa con un giardino. Avevo vissuto, da bambina, in una casa col giardino, a Torino: e la casa che immaginavo e desideravo assomigliava a quella. Non mi sarei accontentata di un magro giardinetto, volevo alberi, una vasca di pietra, cespugli e sentieri: volevo tutto quello che c’era stato in quel giardino della mia infanzia. Leggendo gli annunci sul «Messaggero», il giovedí e la domenica, mi fermavo su quelli che dicevano «villa con ampio giardino duemila metri quadri, alberi d’alto fusto»: ma dopo una telefonata al numero indicato nell’annuncio, apprendevo che «la villa» costava trenta milioni. Noi non avevamo trenta milioni. Tuttavia a volte la voce che mi rispondeva al telefono diceva «trenta milioni trattabili»: e quella parola «trattabili» mi impediva di rinunciare completamente a quei duemila metri quadri di giardino, che non avevo osato andare a vedere, ma che mi figuravo magnifici: mi pareva che quel «trattabili» fosse un terreno scivoloso sul quale si poteva slittare fino alla somma, molto inferiore a trenta milioni, che noi avevamo. Puntualmente, ogni giovedí e ogni domenica, scorrevo gli annunci del «Messaggero». Saltavo tutti quelli che cominciavano con «Aaaaa»: non so perché, diffidavo di tutti quegli «a». Non che io diffidassi delle agenzie. Sarei anche ricorsa alle agenzie (ne visitai anzi diverse). Ma insomma saltavo gli «aaa». Siccome volevo un giardino, e cioè una casa al pianterreno, saltavo anche gli annunci che cominciavano con «attico», «superattico», «panoramico». Mi buttavo su quelli che cominciavano con «villino», «villinetto», «villa». «Villa zona residenziale diplomatica eccezionali rifiniture vasto giardino»; «villa signorile, imponente, adatta personalità, attore, professionista, industriale. Termoautonomo. Parco alberato». Dopo essere andata a vedere due o tre «villinetti» e aver trovato che erano assai squallidi e che il giardino non era che uno stretto marciapiede di pietra cintato da una siepe, sempre piú mi diedi a scartare i «villinetti» e a sottolineare con la matita le «ville». «Villa decavani ampio salone patio ceramiche riscaldamento giardino alberato». «Villa tre piani ampio parco adattissima sedi diplomatiche comunità religiose svendo». Mi soffermavo anche per un attimo su annunci di case o di terreni fuori Roma figurandomi che avremmo potuto stabilirci in campagna. «Zona Frosinone svendo cava pietrisco su strada con soprastante oliveto ottimo affare». Mio marito gettava un’occhiata sugli annunci che avevo sottolineato e mi chiedeva cosa potevamo farcene d’una villa per comunità religiose noi che non eravamo per nulla una comunità religiosa e soprattutto cosa potevamo farcene d’una «cava pietrisco» nella zona di Frosinone, noi che dovevamo stare a Roma e avevamo bisogno d’una casa.
Mio marito nei primi tempi si astenne dalla ricerca e mi guardava quando sottolineavo gli annunci come se fossi stata preda d’una quieta follia. Usava dire che, in fondo, nella casa d’affitto in cui stavamo, lui si trovava benissimo, pur dovendo convenire che eravamo un poco allo stretto. Tuttavia qualche volta ammetteva, ma piuttosto fiaccamente, che forse sarebbe stato opportuno comperare una casa, perché i soldi dell’affitto erano soldi buttati dalla finestra; ma, ripeto, nei primi tempi la mia fu una ricerca solitaria, e un po’ folle; gli leggevo forte quegli annunci del «Messaggero», lui ascoltava di solito in un silenzio ironico e sprezzante, che mi scoraggiava e che insieme sempre piú mi spingeva sulla strada della follia; siccome comperare una casa mi sembrava impossibile, mancando il suo assentimento, inseguivo sogni impossibili e ombre sapendo che tanto non vi sarebbero state conseguenze reali. Andai anche a vedere qualche casa di quegli annunci, e mio marito sapeva che ci andavo, ma si rifiutava di venire con me; e io sentivo che mi accompagnava, nel corso di quelle spedizioni, la sua assoluta sfiducia nelle mie capacità di trovare una casa. Poi, a un tratto, mio marito si diede anche lui a cercar casa con me. Questa improvvisa determinazione fu originata, credo, dal fatto che lui si consigliò con un cognato, il quale gli disse che avremmo fatto malissimo a comperare una casa in un momento simile, perché tra qualche anno le case sarebbero scese di prezzo: previsione che poi si rivelò errata, perché le case a Roma costano sempre piú care. Dunque era opportuno per noi aspettare che i prezzi andassero giú. Piú volte avevo avuto modo di accorgermi che mio marito usava chiedere consigli a quel cognato, per fare esattamente il contrario di ciò che egli suggeriva: pur persistendo sempre, mio marito, a vantare la grande avvedutezza e saggezza di quel nostro parente, e la necessità di consultarlo in ogni circostanza di natura economica e pratica, cioè in tutte le cose in cui lui stesso si sentiva manchevole. Mio padre invece, da Torino, mi scriveva continuamente sollecitandoci a comprare una casa, anzi, come lui usava esprimersi, «un quartiere»: termine che, nel linguaggio arcaico da lui usato soprattutto per lettera, significava un appartamento. Adesso, nell’appartamento d’affitto troppo stretto per noi, facevamo dormire la donna di servizio in stanza da pranzo, cosa che mio padre trovava anti-igienica, e uno dei ragazzi nello studio, cosa che mio padre trovava sommamente indecorosa. Quanto a mia suocera, ci dissuadeva dal cambiare casa perché, nell’appartamento d’affitto che ora abitavamo, c’erano pavimenti gialli, i quali, essa diceva, emanano una luce che rende bella la carnagione: e ci consigliava, se volevamo proprio comperare una casa, di convincere il proprietario a venderci quella: il che era, come avevamo piú volte cercato di spiegarle, inattuabile, perché né il proprietario desiderava di vendercela, né noi, per vari motivi, desideravamo di comperarla.
Dunque vi furono due periodi nella ricerca: uno nel quale io cercai da sola, con fervore ma insieme con timidezza e sfiducia, perché la diffidenza e la sfiducia di mio marito si erano contagiate a me: e perché sempre ho bisogno, nelle mie iniziative di natura pratica, che mi accompagni l’assentimento di un’altra persona. Poi vi fu un secondo periodo, nel quale mio marito cercò la casa con me. Quando lui cominciò a cercare con me la casa, scopersi che la casa che lui voleva non assomigliava in nulla a quella che volevo io. Scopersi che lui, come me, desiderava una casa simile a quella nella quale aveva trascorso la sua propria infanzia. Siccome le nostre infanzie non si assomigliavano, il dissidio fra noi era insanabile. Io desideravo, come ho detto, una casa con il giardino: una casa al pianterreno, magari un po’ buia, con del verde intorno, edera, alberi; lui, avendo passato l’infanzia parte in via dei Serpenti e parte in Prati, era attratto dalle case situate in una di queste due zone. Degli alberi e del verde se ne infischiava. Voleva vedere, dalle finestre, dei tetti: mura antiche, scrostate, rosicchiate dal tempo, biancheria rappezzata sventolante fra umidi vicoli, tegole muschiose, grondaie rugginose, comignoli, campanili. Cosí cominciammo a litigare: perché lui scartava tutte le case che a me piacevano, trovando che costavano troppo, o che avevano qualche difetto: e siccome anche lui s’era messo a guardare gli annunci, sottolineava con la matita soltanto le case che erano nel centro di Roma. Veniva con me a vedere le case alle quali io mi interessavo, ma il suo viso era, prima ancora che salissimo le scale, cosí accigliato, il suo silenzio cosí incollerito e sprezzante, che io sentivo che l’indurlo a guardarsi intorno con occhi umani, a scambiare qualche parola cortese col portiere o col proprietario che ci precedevano aprendo le imposte, era un’impresa impossibile. Gli dissi allora come mi era odioso il suo modo di trattare quei poveri portieri, o quei poveri proprietari, i quali non avevano nessuna colpa se a lui non piacevano le loro case; e dopo questa mia osservazione, divenne coi portieri e coi proprietari gentilissimo, cerimonioso, quasi servile: manifestava un profondo interesse all’appartamento, metteva il naso negli armadi a muro, perfino diceva quali lavori sarebbe stato utile fare: e io le prime volte mi lasciai trarre in inganno, m’illusi che forse la casa che stavamo guardando gli piacesse un poco; ma non tardai a capire che quel suo comportamento gentile era ironico verso di me, e che l’idea di prendere una simile casa non lo sfiorava nemmeno.
Ricordo con estrema precisione lo squallore di certe case che interessavano me: certe case in Monteverdevecchio, ingiallite, cadenti, in uno stato di profondo abbandono: giardinetti umidi, lunghi corridoi bui, lampade in ferro battuto dalla luce fioca, salottini dai vetri colorati dov’erano sedute delle vecchiette con lo scaldino; cucine con odore d’acquaio. E lo squallore di certe case che interessavano lui: sfilate di stanzoni grandi come granai, con pavimenti di mattoni e mura imbiancate a calce, grappoli di pomodori appesi al soffitto, cessi alla turca, stretti balconi affacciati su cortili profondi e umidi come pozzi, terrazze dove marcivano mucchi di stracci. Noi dunque amavamo due tipi di case nettamente dissimili; ma c’era una sorta di case che detestavamo entrambi. Detestavamo entrambi, e nella stessa misura, le case dei Parioli, seminuove, sontuose e raggelanti, che guardavano su strade totalmente prive di negozi e frequentate soltanto da stormi di nurses in velo azzurro, con carrozzine leggere e nere come degli insetti; e detestavamo entrambi le case del quartiere Vescovio, strette in un groviglio di vie e piazze piene di salsamenterie e drogherie, di mercati coperti e di reti tramviarie. Tuttavia andavamo a vedere anche questa sorta di case, che detestavamo. Le andavamo a vedere perché ormai ci possedeva entrambi il demonio della ricerca; le andavamo a vedere per odiarle di piú, per immaginarci con spavento, un attimo, esiliati ai Parioli come pesci rossi dentro una vasca, o affacciati a quei balconcini che sembravano canestrelli di fiori. Tornando, stanchi, alla nostra casa d’affitto dai pavimenti gialli, noi ci chiedevamo se ci importava tanto, davvero, cambiare di casa. In fondo, non ce ne importava un gran che. Anche lí, in fondo, si stava abbastanza bene. Io conoscevo, di quella casa, ogni macchia sulla parete, ogni crepa nel muro, gli aloni scuri che s’eran formati al disopra dei termosifoni; conoscevo il fragore delle lastre di ferro che venivano rovesciate davanti al portone, avendo il nostro padrone di casa, proprio accanto al portone, un’officina: quando andavamo a pagargli l’affitto, ci riceveva tra i bagliori della fiamma ossidrica e il ronzio dei motori. Ogni volta che gli pagavamo l’affitto il nostro padrone di casa sembrava stupito, ogni volta sembrava immemore di averci affittato quell’appartamento; sembrava riconoscerci appena, pur mostrandosi sempre molto cortese: sembrava unicamente assorto alla sua officina, e agli arrivi di quei lastroni di ferro, che crollavano sul selciato con un sordo fragore. Io mi ero scavata, in quella casa, la mia tana. Era una tana dove, quando ero triste, mi rimpiattavo come un cane malato, bevendo le mie lagrime, leccando le mie ferite. Ci stavo dentro come in una calza vecchia. Perché cambiare casa? Qualsiasi altra casa mi sarebbe stata nemica, e io ci avrei vissuto con ribrezzo. Vedevo sfilare davanti a me, come in un incubo, tutte le case che avevamo visto e che per qualche momento avevamo pensato di poter comprare. Tutte mi ispiravano un senso di repulsione. Avevamo pensato di comperarle, ma nel momento che avevamo deciso di rinunciarvi, avevamo sentito un profondo sollievo, una leggerezza, come chi è sfuggito, per miracolo, a un rischio mortale.
Ma forse ogni casa, ogni casa, col tempo, poteva diventare una tana? e accogliermi nella sua penombra, benigna, tiepida, rassicurante?
Oppure non era forse piuttosto che io non desideravo vivere in nessuna casa, in nessuna, perché quello che sentivo di odiare non erano le case, ma bensí me stessa? E non era che tutte le case, tutte, potevano andar bene, purché le abitasse qualcun altro, e non io?
Poi mettemmo noi un annuncio sul «Messaggero». Nel comporre questo annuncio litigammo a lungo. Infine l’annuncio suonò cosí: «Acquisterebbesi appartamento in Prati o Monteverdevecchio, pentacamere, livelterrazzo o giardino». La parola «livelterrazzo» l’aveva voluta mio marito, perché lui amava le terrazze, e odiava, com’era risultato a poco a poco, i giardini: i giardini, lui diceva, ricevono dai balconi sovrastanti polvere e spazzatura. Cosí il mio sogno d’un giardino s’infranse: perché un nugolo di spazzatura investí quelle «piante di alto fusto» e quei sentieri ombrosi che la mia fantasia cullava. A questo annuncio risposero alcune persone: ma le case che offrivano non erano per nulla in Prati, né in Monteverdevecchio, e non avevano sorta di livelterrazzo o giardino. Tuttavia andammo a vederle. Ancora una diecina di giorni dopo l’annuncio, il nostro telefono squillava e ci venivano offerte case. Il telefono squillò una sera alle dieci: andai io a rispondere, e udii una voce d’uomo a me ignota, robusta, festosa e trionfante, che diceva:
«Pronto! Sono il commendator Piave! Ho un appartamento bellissimo in piazza della Balduina! È bellissimo! C’è il citofono! Nel bagno padronale c’è una colonna d’alabastro nero, con mosaici che rappresentano pesci di colore verde! Quando verranno a vederlo? Mi telefoni, se non ci sono io risponde mia moglie! C’è il citofono! Suo marito rientra con la macchina all’una, dalla portineria l’avverte di buttar giú gli spaghetti! C’è anche il garage! Quando vengono? Io e mia moglie saremo felici di conoscerli, possiamo prendere il tè insieme, l’accompagno all’appartamento con la mia macchina, ho una Spider! Mia moglie non guida, io guido ormai da diciassette anni, l’appartamento l’avevo fatto costruire per mia figlia, ma è andata a stabilirsi a San Paolo del Brasile, mio genero è brasiliano, commercia in tessuti, si sono conosciuti a Fregene. Ho anche una villa a Fregene, un gioiello, quella non la vendo, pensi se voglio venderla, ci andiamo io e mia moglie ogni fine settimana. Ho una Spider!»
Pur abitando a Roma ormai da molti anni, io non sapevo dove fosse piazza della Balduina. Interrogai mio marito e mi disse che era una zona che odiava.
Tre o quattro furono le case che noi ci trovammo proprio sul punto di comperare. Di solito, la nostra voglia di comperare una casa durava due settimane. In quelle due settimane, non facevamo che andare a vederla, in ogni ora del giorno; stringevamo amicizia col portiere, e gli davamo delle mance; e portavamo là i nostri figli, poi mia suocera, e infine quel cognato, di cui mio marito vantava la grande saggezza. I nostri figli si facevano pregare per venire, dichiaravano che a loro non gliene importava niente di case, ed erano scettici sul fatto che noi ne avremmo mai comprata una: gli sembravamo troppo irresoluti. Mia suocera prestava attenzione soprattutto ai pavimenti: se per esempio c’era qualche mattonella che ballava, ne traeva un giudizio negativo sulle condizioni dell’intera casa. Quanto a quel nostro cognato, di solito si piantava nell’ingresso, e scrutava i muri, grande e severo, con una mano infilata sotto la giacca, battendosi ritmicamente le dita sul petto, e oscillando sui calcagni: il suo parere era sempre negativo, a proposito di tutte le case, e soprattutto a proposito dell’idea di comperarne una; tuttavia riusciva a trovare in ogni casa dei difetti diversi, sempre allarmanti: o sapeva da suoi informatori che l’impresa non era seria, o sapeva che proprio lí davanti avrebbero costruito un grattacielo, per cui non si sarebbe visto piú niente; o sapeva che tutta quella zona sarebbe stata presto abbattuta, i proprietari espropriati e costretti a emigrare altrove; e poi non c’era casa che per lui non fosse buia, umida, mal fabbricata, o di odore cattivo; e sosteneva che le sole case che dovevamo prendere in considerazione erano quelle costruite da una ventina d’anni, non prima e non dopo: ed erano proprio quelle che a noi non piacevano.
La prima casa che seriamente pensammo di comperare fu una che si trovava nei pressi del viale Trastevere. La chiamavamo piú tardi, nel ricordarla, «Montecompatri», perché siccome era situata nell’alto su una specie di collina, mio marito diceva che vi si respirava un’aria purissima. «Ti rendi conto – diceva – che là c’è un’aria come se si fosse a Montecompatri?» «Montecompatri» era una casa nuova, non mai abitata. Stava a picco su un precipizio, una forra selvosa, che scendeva giú fino al viale in un punto dove il viale s’allargava in uno spiazzo, nel quale era stato installato un Luna Park. Oggi, dopo qualche anno, non esiste piú né quella forra selvosa, né quel Luna Park. Oggi là non ci sono che case, tanto che quando passo là davanti, mi è impossibile riconoscere quella che noi allora volevamo comprare e che s’affacciava, alta e stretta come una torre, sul vuoto. C’era un terrazzo e c’era un grande soggiorno, con ampie finestre che s’aprivano su quella voragine verde, selvaggia, e andammo là piú volte al tramonto, perché il panorama era in quell’ora desolato e solenne, con la città lontana vampeggiante fra nuvole di fuoco. La casa era di proprietà d’un’impresa, il cui numero telefonico stava scritto su un cartello piantato su un palo, nel mezzo della voragine verde; ma quel numero o suonava occupato o non rispondeva; il portiere ci diceva di insistere, cosa che facevamo puntualmente, ma senza risultato. Il portiere era una persona molto simpatica e gentile, e sembrava ansioso che prendessimo noi quella casa. Un giorno andammo là risoluti a comprarla: erano le tre del pomeriggio, era estate, il sole batteva a picco sul terrazzo dalle piastrelle roventi; su dalla voragine ci parve salisse un forte odore di spazzatura: difatti un cumulo di spazzatura, al quale non avevamo mai molto badato fino a quel momento, cuoceva al sole fra l’erba, pochi metri al disopra del Luna Park. Il Luna Park era muto e deserto, con le grandi ruote immobili e i tendoni calati; la città in lontananza cuoceva contro il cielo d’un azzurro accecante. Pensai che quel panorama era forse stupendo, ma evocava pensieri di suicidio.
Cosí fuggimmo da quella casa per sempre. Mio marito disse che si era accorto che la scala era troppo orribile: civettuola, leziosa, e c’era un grande ragno nero e oro nell’androne, a due passi dalla guardiola di quel simpatico portinaio. Mio marito disse che non avrebbe tollerato di vedere ogni giorno quel ragno nero.
Poi ci incantarono due case gemelle, una attaccata all’altra, che erano in vendita tutt’e due. Erano dalle parti di piazza Quadrata: zona che mio marito detestava. Io invece amavo i dintorni di piazza Quadrata, perché vi avevo vissuto molti anni addietro, quando non avevo ancora mai incontrato mio marito, non sapevo nemmeno che esistesse, c’erano a Roma i tedeschi, e io ero nascosta in un convento di suore da quelle parti; e pensai che amavo, di Roma, tutti i punti dove in un momento o nell’altro della mia vita avevo messo radici, sofferto, pensato al suicidio, le strade dove avevo camminato senza saper dove andare.
Delle due case gemelle nei pressi di piazza Quadrata, una aveva un giardino: a mio marito piaceva, di questa casa, soprattutto una scala interna, che portava in uno scantinato dove c’era una grandissima cucina e una sala da pranzo lunga e stretta; in genere, quando a noi piaceva un poco una casa, non facevamo che soffermarci a contemplare i punti e le stanze che ci piacevano, cercando di ignorare tutto il resto; cosí, mio marito non faceva che salire e scendere per quella scala, che era di mogano, lucida, e che lui trovava «di stile inglese»: saliva e scendeva, carezzando la ringhiera come fosse stata la groppa d’un cavallo. Insieme ammiravamo la cucina, tappezzata di allegre piastrelle a fiorellini celesti. Per amore della scala e della cucina, eravamo disposti a passar sopra al fatto che per noi mancava una stanza: avremmo messo un tramezzo, ricavato una cameretta in un corridoio; e mio marito sembrava aver dimenticato sia l’odio che nutriva per quella zona, sia ciò che aveva detto sempre a proposito dei giardini, sui quali piove da tutti i balconi spazzatu...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Mai devi domandarmi
  3. Diario d’amore ossessionato dalla ricerca di un padre
  4. Mai devi domandarmi
  5. Nota
  6. Avvertenza
  7. Appendice
  8. Cronologia della vita e delle opere
  9. Bibliografia essenziale
  10. Antologia della critica
  11. Il libro
  12. L’autore
  13. Dello stesso autore
  14. Copyright