Il capolinea del bus era proprio di fronte alla stazione di Verona Porta Nuova, ma l’indomani mattina Mirabel e i ragazzi siriani scesero un paio di fermate prima, per evitare i controlli delle forze dell’ordine.
Se avessero proseguito, Luz avrebbe visto scendere la giovane colombiana. Era uscita presto dalla pensione e si era messa a perlustrare il piazzale e le sale d’aspetto tra l’arrivo di un treno e l’altro.
Zaki controllò la cartina e guidò il gruppo in un bar di via del Fante, punto d’incontro del drappello di clandestini diretto in Germania.
Appena entrarono, la donna dietro il bancone li indirizzò con un gesto verso il retro. Nessuno degli avventori li degnò di uno sguardo.
Una scala che puzzava di cibo guasto conduceva a un appartamento al piano superiore. La porta era aperta. In cucina vi erano due uomini che giocavano a carte fumando e bevendo birra.
– Chi siete? – chiese il piú anziano, in una lingua che Mirabel non conosceva. Indossava una canottiera sporca, era grasso e non si radeva da un paio di giorni. Aveva l’aria di un tagliagole, mentre l’altro era piú giovane, molto magro e vestito con cura.
Zaki rispose e i due si scambiarono un’occhiata. Toccò allo smilzo parlare. Mirabel era confusa, anche perché il ceffo non smetteva di fissarla. Samar, la ragazza siriana, le sussurrò che i due li avrebbero aiutati ad attraversare il confine.
Maram tirò fuori da una tasca del denaro e lo mostrò. Il grasso indicò la colombiana parlando velocemente.
– Vuole vedere il tuo denaro, – spiegò Zaki.
Mirabel infilò la mano nella tasca dei pantaloni. I due trafficanti di esseri umani ridacchiarono. Aveva poco piú di cento euro.
– Il passaggio costa cinquemila euro, – disse Samar.
– Ho solo questi.
L’elegantone parlò in italiano. – E allora resti qui a fare la puttana finché non metti insieme i soldi.
Ma l’altro era di diverso avviso. – Vediamo cosa si può fare, – disse in tono conciliante. – Forse c’è un posto in piú nel furgone e quei pochi soldi vanno bene lo stesso.
Il suo socio lo guardò perplesso. – Ti posso parlare? – Si appartarono, spostandosi in un’altra stanza. – Io non posso trasportare gente gratis. I miei mi spaccano il culo.
Il tizio in canottiera gli diede una botta sulla spalla. – Sei proprio tonto. La ragazza è la colombiana che state cercando.
– Sicuro?
– L’ho riconosciuta dalla foto che avete fatto circolare. Forse eri all’estero e non l’hai vista.
Lo smilzo assentí e tornò in cucina. – Venite, – disse ai ragazzi.
Li fece salire su un furgone e li scaricò nei pressi di una fabbrica abbandonata della periferia. – Verrò a prendervi quando fa buio. Rimanete nascosti.
Mirabel e i siriani scavalcarono un muretto. Trovarono una palazzina e diversi capannoni con le porte e le finestre divelte. Molti altri prima di loro avevano soggiornato in quel luogo. Cercarono un angolo abbastanza pulito per trascorrere la giornata. Mirabel pigliò dalla borsa una tavoletta di cioccolata e la divise con gli altri. Si accorse che i siriani parlavano di lei.
– Cosa c’è? – chiese a Samar.
La ragazza cercò le parole. Indicò i due fratelli: – Pensano che sei in pericolo. Quella gente non fa mai favori.
Mirabel alzò le spalle. – Se c’è un posto vuoto, meglio cento euro che nulla, – ribatté poco convinta. In realtà era spaventata. Piú di quanto lo fosse stata in quei giorni di fuga. Se avesse potuto se ne sarebbe andata, ma non avrebbe saputo dove dirigersi. Non aveva piú nessuno a cui chiedere aiuto.
Le ore passarono lentamente. Avevano fame e Zaki andò in cerca di cibo. Tornò poco piú tardi con una busta di supermercato. Pane, formaggio, pomodori, frutta. Un po’ d’acqua.
Mangiarono in silenzio. Poi Maram e Samar si appartarono. Mirabel pensò a Hernán e le venne da piangere. Uno stupido ragazzino viziato. Anche lei aveva le sue colpe: avrebbe dovuto capire che il suo amato Hernán non aveva abbastanza spina dorsale per affrontare la sua famiglia. Sua nonna e sua madre l’avevano messa in guardia: stai lontana dai Montealegre. Da quelle parti non era cambiato nulla. I ricchi amoreggiavano con le belle ragazze e poi se ne liberavano.
Con l’arrivo del buio calò la temperatura. Avrebbero voluto accendere un fuoco ma temevano di essere visti. Rimasero in silenzio, in attesa, ascoltando i rumori dei mezzi che passavano.
Dopo un po’ sentirono aprirsi il cancello e il furgone entrò, fermandosi di fronte alla palazzina. I fari accesi illuminavano la notte. Mentre i ragazzi raccoglievano le loro cose, giunse anche un’auto.
I due fratelli indugiarono e parlottarono tra di loro. Poi Zaki prese l’iniziativa e si incamminò, seguito dagli altri.
C’era il tizio che li aveva condotti alla fabbrica abbandonata e altri tre uomini, che scesero dall’auto. Tirarono fuori le pistole con indolente tranquillità. Avevano a che fare con ragazzi disarmati e in fuga.
L’accompagnatore disse poche parole, e Mirabel vide che Maram consegnava i soldi. Poi il tizio fece segno a Mirabel. – Tu vai con loro, – disse.
Uno degli uomini con la pistola l’afferrò per un braccio e la trascinò verso la macchina.
– Lasciami, figlio di puttana! – gridò in spagnolo.
La giovane colombiana scalciava e cercava di divincolarsi, ma l’uomo le diede un colpo leggero con la canna della pistola sulla tempia. Mirabel si arrese per paura che quel delinquente, picchiandola, facesse del male al bambino.
Lui aprí il bagagliaio e la spinse all’interno. La ragazza si aggrappò al bavero del giubbotto. – Ti prego, non chiudermi là dentro. Ti prometto che starò buona…
Fu tutto inutile, e Mirabel venne chiusa in quell’angusta scatola di metallo.
Zaki fece segno a Maram che afferrò saldamente la mano della sua ragazza, e insieme iniziarono ad arretrare a piccoli passi. Gli assalitori notarono la manovra e parlottarono tra loro.
– Andate a fare un giro, – disse uno indicando con la pistola i due fratelli. – Lei rimane a farci compagnia.
Zaki si voltò verso il fratello e lo fissò con un sorriso affettuoso. Poi avanzò verso l’uomo che aveva parlato con un atteggiamento sottomesso e spaventato, ma quando gli fu vicino, estrasse un coltello dalla manica e glielo piantò nella pancia. Maram e Samar corsero verso la recinzione. Gli altri due criminali spararono a bruciapelo a Zaki e il siriano crollò a terra fulminato.
La detonazione terrorizzò Mirabel, che si mise a gridare. Per farla stare zitta dovettero minacciarla di morte. La giovane colombiana udí i lamenti di qualcuno che veniva caricato nell’auto. Poi il rombo del motore coprí ogni altro suono.
Il mezzo si fermò dopo una decina di minuti, ma la lasciarono al buio per un tempo che a lei parve infinito. Quando la fecero uscire, si ritrovò in un cortile. Lungo le scale che scendevano nel seminterrato notò chiazze di sangue. L’aggressore che era stato ferito da Zaki giaceva su un divano. Si teneva le mani sulla pancia e si lamentava a voce alta. Una donna e un uomo lo guardavano e discutevano sul da farsi. Indicarono una porta al tizio che si occupava di Mirabel. L’uomo la spalancò e spinse la ragazza in uno stanzone da cui erano stati ricavati dei cubicoli con le pareti e la porta di legno, illuminati da fioche lampadine al soffitto. La colombiana venne rinchiusa in uno di questi. Conteneva una brandina lercia e un recipiente di plastica che puzzava di feci e urina. Si rannicchiò in un angolo e iniziò a piangere, disperata.
Nessuno si occupava di lei. Diverse persone parlavano simultaneamente, e la voce del ferito sovrastava le altre. A un certo punto arrivarono altri uomini e quello che si era beccato la coltellata di Zaki ammutolí all’improvviso.
Poco dopo qualcuno spalancò la porta della piccola prigione. Era un uomo che non aveva mai visto. In mano teneva la sua borsa. Gliela porse.
– Sei Mirabel Arenas? – domandò.
– Sí, sono io.
Lui annuí e se ne andò senza aggiungere altro.
La ragazza non capiva. Conoscevano il suo nome e la tenevano segregata. Per riuscire a resistere a quell’incubo, si sforzò di riflettere. «Pensa, Mirabel, pensa», si ripeteva. Ma la verità era troppo contorta perché potesse anche solo sfiorarla.
Doveva essere notte fonda quando un altro uomo andò a farle visita. Era quello che aveva visto insieme alla donna. Puzzava di alcol. Si abbassò la cerniera dei pantaloni e tirò fuori il cazzo duro, pronto per lo stupro.
Mirabel gridò con tutte le sue forze. Lui l’afferrò per la testa e la costrinse a inginocchiarsi. In quel momento arrivò la donna, che lo colpí con uno schiaffo violento sulla nuca. Sibilò insulti e minacce e l’uomo si allontanò. Lei rimase sulla porta a fissare la ragazza.
– Grazie, – sussurrò Mirabel.
L’altra le si avventò contro e la bersagliò con calci e pugni, spaccandole un labbro e ferendola all’orecchio. – Non ringraziare, troia, – gridò. – Non ringraziare, ché sei già morta.
Mentre Luz, con un’inquietudine che faticava a controllare, scrutava ogni ragazza che si aggirava per la stazione, Daniel Ghiuselev telefonava a Mitzi.
– Ho trovato la tua Mirabel, – annunciò. – È ospite dei miei uomini.
– Sapevo che eri il migliore, – si complimentò lei con quel tono ambiguo che lui non sopportava. – Dov’è?
Il bulgaro non rispose. – Uno dei miei si è fatto male. Dovrai pagare le sue cure.
– Stai scherzando, vero?
– Ho chiesto a Sofia, – ribatté lui. Ed era la verità. Il mafioso aveva telefonato ai suoi capi in Bulgaria e aveva ricordato una delle regole dell’organizzazione. Le spese extra erano a carico del committente.
La sicaria pensò che lavorare con quei buzzurri era veramente una fatica. – E quanto mi costerà?
– Ventimila.
– D’accordo. Dove e quando?
– Verona. Dopodomani mattina.
– E perché non domani?
– Devo risolvere il problema del mio uomo infortunato, – mentí Ghiuselev.
– Ti chiamo quando arrivo, – tagliò corto lei. «Bastardo», pensò. Aveva capito il motivo che spingeva il bulgaro a rinviare la consegna della ragazza. Era curioso. Avrebbe fatto interrogare quella Mirabel per scoprire chi c’era dietro l’ingaggio di una killer professionista. Ghiuselev giocava col fuoco.
La sicaria turco-tedesca chiamò Fabiano Montealegre.
– Ho trovato la ragazza, ma ti costerà trentamila euro in piú, – annunciò con voce piatta.
Mitzi avrebbe potuto chiedere una cifra dieci volte piú alta e il colombiano non avrebbe creato problemi. Suo padre lo tormentava continuamente e aveva ripreso a insultarlo per la sua inettitudine.
– Mi stai facendo fare una figura di merda con «quelli», – ripeteva tra un’offesa e un incitamento a sbrigarsi. Non riusciva nemmeno a pronunciare il nome della famiglia con cui avrebbero dovuto imparentarsi attraverso il matrimonio di Hernán, ...