I tre cavalieri del Graal
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I tre cavalieri del Graal

  1. 112 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
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I tre cavalieri del Graal

Informazioni su questo libro

Guidati dai saggi consigli del Mago Merlino, tre cavalieri molto diversi tra loro partono alla ricerca del Santo Graal: Galvano è attratto irresistibilmente dall'amore, Perceval tende al rigore mistico, Galaad è uomo di accese fantasie. Dopo tante avventure, si ritroveranno in un castello per raccontare le loro imprese, e offrirsi al giudizio di una sorta di tribunale che dovrà decidere chi tra loro sarà degno di diventare il «re del Graal», il regno della bontà e della giustizia. Cosí, uno dei grandi miti della cultura dell'Occidente cristiano viene rivisitato con garbo sorridente, e diventa un invito ad abbandonarsi ai piaceri della fantasia, alla seduzione degli intrecci e alle raffinate atmosfere della vita di Corte.
Studiosa del mondo medievale, Laura Mancinelli si è ispirata alle leggende cavalleresche per reinventarle liberamente in un racconto destinato ai lettori di tutte le età.

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Informazioni

Editore
EINAUDI
Anno
2014
Print ISBN
9788806177294
eBook ISBN
9788858412114

2.

Il racconto di Galvano

– Seguendo le indicazioni che Merlino aveva letto nei libri segreti, iniziammo il nostro viaggio verso levante, verso il nascere del sole. Avevamo tutti le nostre armature, ma non la spada. Merlino aveva detto che dovevamo partire disarmati e che ciascuno di noi avrebbe trovato lungo la via quella che il destino gli aveva assegnata. Nessuno di noi aveva mai conosciuto la paura, ma quando la nostra strada s’inoltrò nel folto dei boschi dei Pirenei, che sapevamo popolati di briganti, procedemmo con molta cautela: come avremmo potuto difenderci senza spada se ci avessero assaliti? Decidemmo di procedere fino al calar del sole, e di cercare un rifugio sicuro per la notte.
Tutto andò secondo i nostri desideri, non facemmo incontri pericolosi, finché all’imbrunire vedemmo in cima a un colle un piccolo castello circondato da alte mura. Tutti ci rallegrammo, ma fu per breve tempo. È pur vero che molte belle fanciulle si affacciavano dagli spalti delle mura, ma tutte piangevano e tendevano a noi le mani come a salvatori: e salvezza chiedevano, porgendo le mani incatenate.
Smontati da cavallo, girammo intorno alle mura silenziosi e nascosti, finché giungemmo a un bel pozzo, accanto al quale sedeva, tutto armato, un guerriero.
– Fratelli, – dissi ai miei compagni, – qui conquisto la mia spada – e mi avvicinai allo scoperto chiedendo al guerriero ospitalità e sicurezza. Quello rise beffardo vedendomi disarmato, e disse:
– Vieni a prenderla, bel guerriero, l’ospitalità del castello. Io son qui a custodirla come m’impone il mio signore. Vieni a prenderla dalla mia spada –. E la sguainò dal fodero avvicinandosi minaccioso. Non avevo scelta; dovevo accettare la battaglia a mani nude. Il custode guerriero spiccò la corsa verso di me sicuro di aver presto partita vinta, menò un gran fendente per tagliarmi la testa con tutto l’elmo, ma con rapida mossa schivai quel suo colpo micidiale. Trascinato dall’impeto mi aveva superato voltandomi le spalle, e io da dietro lo afferrai sollevandolo da terra e stringendolo tanto da togliergli il fiato. Invano quello roteava la spada minacciando, ché essendo io dietro di lui non poteva ferirmi. Raccogliendo tutte le mie forze lo sbattei al suolo là dove era piú roccioso e calcai col piede la sua schiena per impedirgli ogni movimento, poi gli torsi il braccio destro all’indietro finché dalla mano dolorante la spada cadde al suolo. Cosí mi impadronii dell’arma. Con quella lo minacciai e lo costrinsi ad arrendersi, dichiararsi vinto e giurarmi fedeltà.
Allora sopraggiunsero i miei compagni, che solo per cortesia non avevano partecipato alla lotta, ché mai si devono scontrare con uno solo piú avversari: e tutti dissero che mi ero guadagnato la mia spada. Ordinammo al guerriero sconfitto di introdurci nel castello e rivelarci il mistero delle fanciulle prigioniere. Ed egli raccontò che padrone del castello era un nobile bandito, il conte Urgan, il quale si era circondato di una folta schiera di cavalieri disperati, senza terra e senza pane, con i quali compiva scorrerie in tutta la regione, assaliva castelli e villaggi e rapiva tutte le fanciulle, nobili o contadine purché fossero belle. Le teneva prigioniere nel castello, e quando raggiungevano un certo numero le caricava su una nave e le portava a vendere in terra dei mori, dove le fanciulle bianche erano merce pregiata per gli harem dei califfi. In quei giorni il conte Urgan era lontano con i suoi uomini per far razzia e completare il carico per la prossima nave. Lui solo era rimasto come custode; io e i miei compagni liberammo le fanciulle e le accompagnammo fino al piú vicino convento dove furono accolte per essere poi riportate alle loro dimore. Il custode abbandonò il castello e si diede alla fuga dicendo che il conte Urgan lo avrebbe certamente ucciso se, tornando, avesse scoperto che aveva lasciato fuggire il suo prezioso bottino. Purtroppo avevamo una sola spada, la mia, e non potevamo affrontare una schiera di armati quale doveva essere quella del bandito e dei suoi cavalieri disperati. Ma il nostro desiderio sarebbe stato di attendere il ritorno e distruggerli tutti per liberare il mondo da quella piaga.
Decidemmo che, se si fosse data l’occasione di ripassare per quei luoghi, avremmo portato a termine l’impresa.
Continuammo il cammino per la nostra strada, seguendo gli insegnamenti di Merlino, e non incontrammo altre avventure. Unica fatica fu superare una catena di montagne seguendo un sentiero che correva tra aspre pareti rocciose, dove non vedemmo esseri umani, bensí animali che curiosamente ci guardavano dall’alto delle rocce. Scoiattoli e altri piccoli animali ci seguivano saltellando sul sentiero, mentre gazze e quaglie si levavano starnazzando dai loro bassi nidi al nostro avvicinarsi.
Al vedere tutti quegli animali cominciai a sentire un certo appetito.
– Non mi spiacerebbe, amici, – dissi, – di avere una di quelle quaglie arrostite. E voi?
– Troppe piume, – disse Perceval, – e troppo poca carne.
Dovetti convenire che aveva ragione. – Preferirei, – aggiunse, – una di quelle lepri rossicce che ci guardano tra i cespugli.
– Povere bestiole! – disse Galaad, che di noi tre era il piú tenero di cuore e il piú fanciullo.
– Vi faccio presente, amico Galaad, – dissi molto severamente, – che del pane e cacio che ci siamo portati non rimangon che le croste. Io non so del vostro appetito, ma del mio so che è grande e robusto. E non sono neppure un eremita, che debba cibarmi di bacche e di locuste.
– Qui, nei Pirenei, le locuste non ci sono, – disse Galaad, che oltre a essere tenero di cuore e molto fanciullo, era anche serio e un po’ pignolo.
– Ma se volessimo prendere una lepre, o anche due, – intervenne Perceval, che evidentemente cominciava a sentire i morsi della fame, – come facciamo? Non mi risulta che le lepri si uccidano con la spada.
– E se provassi come col custode del conte Urgan? – chiesi io. – Il difficile sarebbe riuscire ad acchiapparla. Quelle scappano –. Cosí dicendo, avevo visto una lepre che stava ferma sul sentiero, affascinata forse dagli occhi azzurri di Galaad. Smontai da cavallo e con mossa fulminea le fui addosso. L’avevo presa! Era nostra! Potevo strangolarla e avremmo avuto arrosto di lepre a pranzo! Stavo per rialzarmi quando un colpo in testa mi tramortí.
Caddi con la faccia a terra e sentii la lepre sgusciarmi tra le mani con un guizzo.
Mi alzai dopo un attimo di stordimento e vidi Galaad alle mie spalle tutto sorridente.
– Imbecille! – gridai, cercando di mollargli una sberla. Ma quello era già lontano, e gridava:
– Vergognati, voler mangiare un animale che potrebbe essere tuo fratello!
– Mai saputo che una lepre sia mio fratello, – gli urlai, – e se mai potrebbe essere mia sorella!
Ero cosí arrabbiato che presi la mia bisaccia quasi vuota, tirai fuori pane e cacio, secchi ormai tutti e due, e cominciai a rosicchiare quei poveri resti, magri sostituti di una lepre arrosto. Fu allora che avvenne il primo prodigio della nostra avventura.
Guardavo verso il punto in cui Galaad era sparito fuggendo la mia ira, e gli gridavo dietro alcune mie riflessioni sulla differenza che passa tra un pranzo di lepre arrosto e uno di croste di formaggio, quando vidi spuntare sulla cima di un dosso una bella contadina che guidava un mulo ai cui fianchi pendevano due ceste rigonfie. Io non sapevo se guardare il bel viso roseo della contadina o le ceste gonfie del mulo, che lasciavano presagire contenuti alimentari. La mia fantasia affamata si poneva mille domande su quei contenuti, e le risposte andavano dalle piú ottimistiche, vale a dire prosciutto, pane fresco, salsicce, alle piú modeste, schiacciata di miglio e fichi secchi.
Confesso che pregai Dio di voler soddisfare le mie richieste piú ardite, promettendogli in cambio la sincera contrizione del mio animo per tutti i peccati commessi e da commettere. Intanto la bella contadina s’era avvicinata, tanto che io, aguzzando il naso, già cercavo di cogliere i primi presagi del prossimo pranzo.
– Che cosa mi date, bel signore, per il contenuto delle mie ceste? – fu il saluto della contadina.
– Non ho nulla, – risposi allargando desolato le braccia. – Ma un bacio, quello sí, posso darvelo, anche senza controllare il contenuto delle ceste, accontentandomi dell’odore…
Cosí dicendo le presi il bel viso e premetti le mie labbra sulle sue. Fu proprio mentre cercavo di prolungare quel freschissimo bacio che scorsi i miei due compagni, che avevano proseguito il cammino lasciandomi indietro da solo, loro, i puri di cuore, i protettori delle lepri, ricomparire in cima al dosso, attirati, evidentemente, dalle ceste della contadina.
– È una faccenda privata, – gridai loro pieno di rabbia, – potete anche andarvene e lasciarmi solo, come avete fatto prima –. Li vidi fermarsi indecisi; era chiaro che aspettavano lo sviluppo della vicenda.
– Questo per sentire il profumo, – disse la contadina aprendo una cesta da cui usciva un delizioso sentore di arrosto di capretto. – Qualcosa di meglio per mangiare.
Mi illuminai tutto pensando che volesse approfondire la nostra conoscenza con esperienze piú intime, e già pregustavo dolcissimi… Ma dovetti accorgermi subito che mirava a uno dei bottoni d’oro della mia giubba di velluto. Allungò una tenera manina, mi afferrò il bottone e me lo levò con uno strattone. Se lo mise in seno, e depose la cesta da cui usciva il profumo d’arrosto. Apparve infatti, avvolto in foglie di vite, un cosciotto di capretto rosolato alla perfezione, poi un pane bianco appena sfornato, ancor tutto croccante, e una fiasca di vino.
– È tutto per voi, mio signore, – disse la contadinella, e riappesa al mulo la cesta vuota, fece un inchino e se ne andò.
Mentre lei si allontanava, i due compari, indegni traditori, si avvicinavano silenziosi, con fare svagato. Ma sapevo benissimo quali erano le loro intenzioni. Raccolsi un sasso e feci l’atto di scagliarlo:
– Ce n’è appena per me! – gridai. – Sciò, fuori dai piedi, infami traditori, per i quali valgo meno di una lepre.
– Suvvia, – disse Perceval, – appena un pezzo di pane o un boccone di pelle, o l’osso da spolpare.
– Vi saremo riconoscenti in eterno, amico Galvano, se ci lascerete partecipare, anche in piccola misura, al vostro pasto, fratello – disse Galaad, quell’ipocrita, anima venduta. Ma tant’è, se non avessi dato loro da mangiare, quei due se lo sarebbero preso con la forza, e magari la parte migliore.
– Proprio perché sono troppo tenero di cuore, – dissi sospirando, – venite e prendete la parte che vi offro, anche se non ve lo meritate. E vi prego di notare che questo pasto mi è costato un bottone d’oro della mia giubba.
Cosí dicendo con un mio pugnaletto avevo tagliato la parte piú polposa del cosciotto e porgevo loro il rimanente, molto piú grosso a vedersi, ma con l’osso. Stappavo la fiasca, mi bevevo un bel sorso, e la passavo a loro dicendo:
– Bevete anche voi, ché il mio tenero cuore vede in voi dei fratelli, degeneri, ma pur sempre fratelli. E servitevi di pane. E quando sarò morto ricordatevi di pregare per l’anima mia.
I due si misero a ridere con la bocca piena di carne e dimezzando con un sorso la fiasca brindarono alla mia salvezza eterna.
Riprendemmo il cammino allegri e satolli: la fame ci aveva fatto litigare; il cosciotto di capretto ci aveva fatto far pace.
– La prossima cena la procurerà Perceval, – dissi, – oppure si digiuna –. E intonai una canzone francese che avevo imparato da bambino. La cantava la mia balia e parlava di amori agresti: «Bel signore che passasti sulla strada del mio pozzo, e dell’acqua mi chiedesti per bagnare le tue labbra, bella bocca che sorrise nel baciarmi quando già nella staffa avevi un piede per partire…»
Salimmo a cavallo e lietamente cantando riprendemmo la strada che dalla montagna scendeva verso le valli di Francia.
– Pensate che da un momento all’altro potremm...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. I tre cavalieri del Graal
  3. I. Sul monte Pirchiriano
  4. II. Il racconto di Galvano
  5. III. L’avventura di Perceval
  6. IV. L’avventura di Galaad
  7. V. Le tre strade
  8. VI. Il ritorno di Perceval
  9. VII. Il racconto di Galvano
  10. VIII. Il racconto di Galaad
  11. IX. Il vescovo di Chartres
  12. X. Il giudizio
  13. Conclusione
  14. Il libro
  15. L’autore
  16. Dello stesso autore
  17. Copyright