Li seppellimmo quella notte stessa, calandone i corpi in due fosse senza nome accanto alla stalla. Qualche preghiera ci sarebbe stata anche bene, ma avevamo i polmoni troppo pieni di pianto, perciò ci limitammo a coprirli di terra senza parlare, lavorando in silenzio, mentre il sale delle nostre lacrime ci si asciugava sulla pelle. Poi, senza tornare alla casa bruciata, senza nemmeno preoccuparci di controllare se l’incendio avesse risparmiato qualcosa, attaccammo la cavalla al carro e ci allontanammo nel buio, lasciandoci per sempre Cibola alle spalle.
Viaggiammo tutta la notte e metà del mattino successivo prima di raggiungere la casa di Mrs Witherspoon a Wichita, e per il resto dell’estate il dolore del maestro fu cosí cocente che temetti per la sua stessa vita. A mala pena si alzava dal letto, quasi non toccava cibo, parlava pochissimo. Se non fosse stato per le lacrime che gli colavano giú dagli occhi ogni tre o quattro ore, sarebbe stato difficile distinguerlo da una statua di pietra. Quel pezzo d’uomo grande e grosso era distrutto, devastato dal rimpianto e dai rimorsi, e per quanto io desiderassi con tutto il cuore di vederlo uscire da quello stato d’animo, lui non faceva che peggiorare con il passar del tempo. – Io me n’ero accorto, – lo sentivo ogni tanto borbottare tra sé. – Me n’ero accorto e non ho alzato un dito per impedire che succedesse. È tutta colpa mia. È colpa mia se sono morti. Tanto valeva che li uccidessi con le mie mani, e un uomo che uccide non merita nessuna pietà. Non merita neanche di vivere.
Io tremavo a vederlo ridotto cosí, abulico e inerte, e a lungo andare la sua condizione mi spaventò quasi quanto la fine di Esopo e Mamma Sioux, se non di piú. Non vorrei apparire spietato, ma finché c’è vita c’è speranza, e per quanto fossi sconvolto dal massacro dei miei amici, al tempo ero solo un ragazzo, uno sbarbatello col moccio al naso e le ginocchia graffiate, che non poteva certo concepire di miagolare il suo lutto per mesi. Versai le mie brave lacrime, bestemmiai il giusto, sbattei la testa nel muro, ma dopo qualche giorno, ero pronto a lasciarmi tutto quanto alle spalle e a occuparmi del resto. Immagino che questo non mi faccia poi tanto onore, ma non vedo la ragione di mentire a proposito di quel che sentivo e che non sentivo. Esopo e Mamma Sioux mi mancavano, avrei dato non so cosa per essere ancora con loro, ma di fatto non c’erano piú e non c’era supplica né preghiera capace di farli tornare indietro. A mio parere, era venuto il momento di darsi una mossa e rimettersi all’opera. Avevo ancora la testa piena di sogni sulla mia brillante carriera, e per quanto quei sogni potessero esser dettati da sporco egoismo, io non vedevo l’ora di realizzarli, di lanciarmi nel firmamento dei grandi e abbagliare il mondo con la mia grandezza.
Immaginate perciò la mia delusione nel constatare che giugno si trasformava già in luglio e ancora Maestro Yehudi languiva; immaginate come potessi sentirmi quando anche luglio si fece agosto e lui non dava alcun segno di riprendersi dalla tragedia. Non solo la cosa gettava un’ombra sui miei progetti, ma mi faceva sentire abbandonato a me stesso, messo da parte, piantato in asso. Avevo scoperto un fondamentale difetto nel temperamento del mio maestro, e non gli perdonavo quella mancanza di forza interiore, quell’incapacità e quel rifiuto ad affrontare il lato merdoso della vita. Dipendevo da lui ormai da troppo tempo, la mia forza era stata la sua, e adesso lui si comportava come un qualsiasi idiota ottimista, uno dei tanti che accolgono la fortuna a braccia aperte, ma non sanno accettar le disgrazie. Mi dava allo stomaco vederlo andare in pezzi a quel modo, e mentre il suo dolore non si placava, io non potevo impedirmi di perdere fiducia in lui. Se non fosse stato per Mrs Witherspoon, credo che avrei gettato la spugna e me ne sarei anche andato. – Il tuo maestro è un uomo grande, – mi disse una mattina, – e gli uomini grandi hanno grandi sentimenti. Sono piú sensibili degli altri: vivono gioie piú grandi, ire piú grandi, e dolori piú grandi. Adesso lui sta soffrendo e gli durerà piú di quanto non durerebbe a un altro. Tu però non ti spaventare, Walt. Alla fine ne verrà fuori. Devi soltanto avere pazienza.
Cosí mi disse, ma in fondo al cuore dubito che ci credesse persino lei. Col passare del tempo infatti, mi accorsi che era stufa quanto me della situazione e fui contento che la pensassimo allo stesso modo su una questione tanto importante. Era una tipa in gamba, Mrs W., e adesso che stavo da lei e passavo intere giornate in sua compagnia, scoprivo di avere un mucchio di cose in comune con lei, piú di quanto non avrei detto prima. Quando era ospite alla fattoria, sfoggiava maniere da vera signora, tutta moine e gran cerimonie per non offendere Esopo e Mamma Sioux, ma adesso che si trovava sul suo territorio, si sentiva libera di lasciarsi andare e cacciava fuori la sua natura piú schietta. Per le prime due settimane, quasi ogni aspetto di quella natura mi lasciò di stucco, tanto mostrava la corda di innumerevoli brutte abitudini e incontrollate cadute di tono. Non mi riferisco soltanto al suo debole per l’alcol – non meno di sei o sette gin tonic al giorno, – o per le sigarette, – era una ciminiera continua, e fumava quelle porcherie di marche ormai superate, come le Picayunes o le Sweet Caporal –, ma una certa diffusa rilassatezza di modi, come se dietro a quella facciata da principessa fosse in agguato l’animo autentico di una sciamannona pronto a saltare fuori alla prima occasione. La chiave di tutto però era la lingua, e una volta che si era tracannata un paio dei suoi beveroni preferiti, si lasciava scappare un vocabolario dei piú triviali che mi sia mai capitato di sentir uscire dalle labbra di una signora, e sparava battute a raffica, come proiettili da una mitraglia. Dopo tutti quegli anni di vita bene educata alla fattoria, provavo un certo sollievo nella compagnia di qualcuno il cui comportamento non fosse sempre dettato da alti principî morali, e il cui solo scopo nella vita fosse quello di spassarsela e fare un mucchio di soldi. Perciò diventammo amici, lasciando Maestro Yehudi a crogiolarsi nella sua angoscia, mentre noi cercavamo di venir fuori al meglio dalla noia bestiale di quella torrida estate a Wichita.
Sapevo già di piacerle, ma non vorrei esagerare le proporzioni del suo affetto per me, almeno non in quella prima fase del nostro rapporto. Mrs Witherspoon aveva ottime ragioni per volermi fare contento, e per quanto potrebbe lusingarmi il pensiero che lo facesse perché trovava irresistibile quel ragazzetto furbo e impudente che ero, la verità è che si preoccupava della futura salute del suo conto in banca. Perché mai, altrimenti una donna della sua intraprendenza e sensualità avrebbe dovuto perdersi dietro a un marmocchio alto un soldo di cacio com’ero io allora? No, lei vedeva in me la sua grande occasione; io per lei non ero un ragazzo, ma una montagna di dollari, e sapeva bene che se la mia carriera fosse stata sfruttata con abilità e con prudenza, io avrei fatto di lei la donna piú ricca di tredici contee. Non voglio dire che non ci passammo qualche bella serata insieme, per carità, ma era sempre tutto al servizio del suo futuro interesse, e lei si dava un gran da fare ad accattivarsi le mie simpatie per tenermi in pugno, per assicurarsi che non le scappassi via prima di darle il tempo di mettere le mani sui frutti del mio talento.
Tant’è. Non la condanno certo per questo, e se fossi stato al suo posto, credo che avrei fatto lo stesso. Eppure non nego che certe volte mi infastidiva constatare quanto poco la impressionassero i miei miracoli. Per tutte quelle atroci settimane, e quei mesi, io mi mantenni in forma allenandomi almeno un paio di ore al giorno. Per non spaventare a morte i passanti, mi confinai in casa, lavorando nel soggiorno del piano di sopra con le tende tirate. Mrs Witherspoon non solo non si prendeva mai la briga di venirmi a vedere, ma quelle rare volte in cui capitava che entrasse nella stanza, osservava lo spettacolo della mia levitazione senza battere ciglio, studiandomi con la vuota indifferenza di un macellaio che ispeziona un quarto di bue. Non c’era numero, nemmeno il piú strabiliante, che lei non accogliesse come la piú naturale delle cose, non piú strano o inesplicabile della luna in cielo o del fischiare del vento. Forse era troppo sbronza per notare la differenza tra un miracolo e un avvenimento qualsiasi, o forse il mistero della mia impresa la lasciava fredda, e se poi si parla di forme di spettacolo, sarebbe stata prontissima ad affrontare qualunque uragano per andare a vedere l’ultima delle porcherie cinematografiche, piuttosto che stare a guardare me galleggiare su tavolo e sedie del suo maledetto salotto. Il mio talento per lei non era che un mezzo per raggiungere un fine. E a patto che il fine fosse garantito, a lei dei mezzi importava meno di niente.
Comunque fu buona con me, perché negarlo? Qualunque fosse la molla che la spingeva ad agire cosí, non mi lesinò il divertimento e mai neppure una volta esitò a spendere soldi per me. Due giorni dopo il mio arrivo, mi accompagnò a far spese nel centro di Wichita, e mi rivestí dalla testa ai piedi. Dopodiché passammo in gelateria, in pasticceria e facemmo anche un giro in una sala giochi. Era sempre un passo davanti a me e prima ancora che io sapessi di desiderare qualcosa, lei me l’aveva già offerto, consegnandomelo tra le mani con una strizzatina d’occhi e una pacca affettuosa sulla testa. Dopo tutto le vacche magre che mi eran toccate, non posso dire di aver opposto gran resistenza ad ammazzare un po’ il tempo nel lusso. Dormivo in un letto morbido con le lenzuola tutte ricamate e i cuscini di piuma d’oca, trangugiavo le gigantesche portate che preparava per noi Nelly Boggs, la cameriera di colore, e non dovetti mai mettere addosso le stesse mutande due giorni di seguito. Di pomeriggio per lo piú cercavamo rifugio dalla calura facendo un giro in campagna a bordo della berlina verde smeraldo, filando in mezzo alle strade deserte coi finestrini abbassati e l’aria che entrava da tutte le parti. Mrs Witherspoon adorava la velocità e non ricordo di averla mai vista piú felice di quando pestava a tavoletta sull’acceleratore: tra una sorsata e l’altra dalla bottiglia d’argento, i gonfi capelli rossi si scompigliavano agitandosi come le zampe di un gran bruco capovolto. Quella donna non conosceva la paura, non si rendeva nemmeno conto che un’auto lanciata a settanta, ottanta miglia all’ora avrebbe potuto uccidere un altro essere umano. Io facevo del mio meglio per nascondere il terrore quando si sparava sulla strada a quel modo, ma superati i sessantacinque, non ce la facevo piú. Il panico che mi montava dentro scatenava uno strano fenomeno nella mia pancia e in breve mi ritrovavo a mollare scorregge una dietro l’altra, una catena di bombe pestilenziali accompagnate da un ritmo sincopato. Inutile aggiungere che la cosa mi faceva morire di vergogna, anche perché Mrs Witherspoon non era certo il tipo da lasciar correre certe sgradevolezze senza un commento. La prima volta che accadde, scoppiò a ridere tanto fragorosamente che pensai le volasse via la testa dal collo. Poi, senza il minimo preavviso, pestò sul freno e inchiodò la macchina con una sbandata da mozzare il fiato.
– Avanti cosí, – disse, – ci toccherà viaggiare con le maschere antigas.
– Perché? Io non sento niente, – replicai, fornendo la sola risposta che mi sembrasse possibile.
Mrs Witherspoon tirò su col naso rumorosamente, poi arricciò la faccia in una smorfia eloquente. – Allora, annusa di nuovo, amico. C’è un’orchestra Dixie al completo su questa automobile e la tromba la suoni senz’altro tu, e alla grande anche.
– Uh, quante storie per un po’ di gas, – dissi io astuto, cambiando subito tattica. – Se non sbaglio, le macchine nemmeno camminano, senza.
– Dipende dal numero di ottani, tesoro. Qui stiamo parlando di un esperimento chimico che ha buone probabilità di farci saltare in aria tutti e due.
– Sí, be’, sempre meglio che andarsi a schiantare contro un tronco d’albero.
– Tranquillo, bambino, – ribatté lei addolcendo improvvisamente il tono della voce. Allungò una mano e mi accarezzò sulla testa, passandomi le dita fra i capelli. – Al volante io sono imbattibile. Per quanto veloci si vada, si può stare sereni finché ai comandi c’è Lady Marion.
– Mi piace sentirvelo dire, – esclamai, gustandomi la pressione della sua mano sulla testa, – ma mi sentirei molto meglio se me lo metteste anche per iscritto.
Lei fece una risatina furba. – Ti dò un consiglio per il futuro, – disse. – Quando ti pare che stia correndo un po’ troppo, tu chiudi gli occhi e ti metti a strillare. Piú forte strilli e piú ci sarà da ridere.
E cosí feci in effetti, o quanto meno, ci provai. Nel corso delle gite seguenti, mi imposi sempre di chiudere gli occhi ogni volta che il contachilometri raggiungeva i settantacinque, ma in alcuni casi le scorregge arrivarono subdole già a quota settanta, per non parlare di quando mi fregarono addirittura a sessantacinque (c’è da dire però che quella volta tutto lasciava supporre che ci saremmo ammucchiati contro il muso di un camion, fin quando lei non si decise a sterzare all’ultimo secondo). Quegli incresciosi incidenti non irrobustirono certo la mia fiducia in me stesso, ma non furono nulla in confronto al trauma prodotto da quel che mi accadde al principio di agosto, quando alla fine il tappo non resse e mi ritrovai a cagarmi addosso di brutto. Il caldo era atroce quel giorno. Non pioveva da piú di due settimane e non c’era albero, non c’era foglia in tutto il fottuto deserto di quella campagna piatta che non fosse completamente coperta di polvere. Mrs Witherspoon si era credo stuccata la faccia un po’ piú del solito e prima ancora che fossimo fuori città, si era già caricata ben bene di quel suo umore del genere fatemi-largo-se-no-vi-inculo. Lanciò la carretta a piú di cinquanta fin dalla prima curva; dopodiché non la fermò piú nessuno. Viaggiavamo in una tempesta di polvere. Ne pioveva sul parabrezza, ci entrava dentro i vestiti, ci impastava i denti, e lei non faceva che ridere, pestando su quell’acceleratore come se si fosse messa in mente di battere il record di Mokey Dugway. Chiusi gli occhi e gridai con quanto fiato avevo in corpo, affondando le unghie dentro il cruscotto, mentre l’auto sfrecciava a tutta birra rombando su quella strada piena di buche. Dopo una trentina di secondi di terrore crescente, fui certo che fosse arrivata la fine. Su quella stupida strada, io sarei morto e quelli erano i miei ultimi istanti sulla faccia della terra. Fu a quel punto che mi scappò: un bel sigaro viscido che andò a toccare il fondo delle mutande diffondendo un umidore tiepido e nauseabondo, prima di prendere la via della gamba del pantalone. Quando mi resi conto di quel che era successo, non riuscii a trovare niente di meglio da fare che mettermi a piangere.
Intanto, la corsa non era affatto finita e, prima che ci fermassimo una dozzina di minuti dopo, io ero fradicio dalla testa ai piedi: di sudore, di merda, di pianto. Il mio intero corpo sguazzava tra fluidi mefitici e disperazione piú nera.
– Porca vacca, evviva, – esclamò Mrs Witherspoon accendendosi una sigaretta per assaporare meglio il trionfo. – Ce l’abbiamo fatta. Abbiamo polverizzato il record del secolo. Sono sicura che non c’è un’altra donna in tutto questo stato di merda che abbia mai fatto una cosa simile. Tu che ne pensi? Mica male per una vecchia ciabatta come me, non trovi?
– Non siete affatto una vecchia ciabatta, madame, – dissi io.
– Ah, che carino. Davvero un tesoro. Sai proprio prenderle tu le donne, bambino. Aspetta ancora qualche annetto, e saranno tutte ai tuoi piedi per una frase del genere.
Mi sarebbe piaciuto continuare a chiacchierare con lei, calmo e disinvolto come se niente fosse, ma adesso che l’auto era ferma, l’odore saliva dai pantaloni sempre di piú, e io sapevo benissimo che nel giro di pochi secondi il mio segreto sarebbe venuto a galla. L’umiliazione mi assalí di nuovo e, prima di riuscire a dire anche solo un’altra parola, mi ero rimesso a singhiozzare con le mani sulla faccia.
– Gesú, Walt, – la sentii dire, – Signore Iddio Benedetto. Questa volta l’hai fatta sul serio, vero?
– Mi dispiace, – dissi io, senza osare nemmeno guardarla. – Non ho potuto farne a meno.
– Dev’essere colpa di tutti quei dolci che ti ho fatto mangiare. Il tuo stomaco non è abituato.
– Può darsi. O magari è solo che non ho fegato.
– Non dire cretinate, ragazzo. Hai solo avuto un piccolo incidente, ecco tutto. Può capitare a chiunque.
– Sicuro. Finché vai in giro con il pannolino, è normale. Non mi sono mai vergognato tanto in vita mia.
– Su, su. Non è il momento di piangersi addosso. Piuttosto, sarà meglio che ci diamo una ripulitina, prima che coli tutto sul mio sedile. Walter, mi senti? Io me ne frego dei tuoi subbugli viscerali; non voglio solo che a farne le spese sia la mia macchina. C’è un laghetto, là dietro quegli alberi, e io ti ci porto subito. Ci sciacqueremo di dosso la marmellata, e tornerai come nuovo.
Non avevo altra scelta che assecondarla. Alzarmi per camminare fu veramente terribile; mi sentivo quella roba molle che sciaguattava nei pantaloni, e non avendo ancora placato la voglia di piangere, continuavo a tremare e a singhiozzare, emettendo una vasta gamma di squittii e di urli strozzati. Mrs Witherspoon mi faceva strada verso il laghetto. Era a poche iarde dalla strada, nascosto alla vista da una barriera di rovi e di arbusti, una sorta di piccola oasi in mezzo alla prateria. Quando arrivammo sul bordo dell’acqua, lei mi si rivolse con un tono di voce deciso e pratico e mi disse di spogliarmi. Io non volevo, soprattutto con lei lí davanti che mi guardava, ma quando capii che non si sarebbe voltata, fissai gli occhi a terra e mi sottoposi al tormento. Per prima cosa mi slacciò le scarpe e mi sfilò le calze; poi, senza interrompersi, mi sganciò la fibbia dei pantaloni, mi sbottonò la patta e si mise a tirare. Calzoni e mutande mi scivolarono alle caviglie in un colpo solo ed eccomi là, uccello al vento di fronte a una donna matura, con le gambette bianche lorde di merda e il buco del culo che puzzava come una carogna frolla. Quello fu di sicuro uno dei momenti peggiori della mia vita, ma a Mrs Witherspoon va riconosciuto l’immenso merito di non essersi fatta scappare neppure una sillaba di commento, cosa che non ho mai potuto...