Un inverno cosí non lo ricordavo, forse ce n’era stato uno simile ventisette anni fa; ma dopo aver parlato con i nostri anziani ho saputo che nemmeno loro ricordavano le api che a gennaio raccoglievano polline e nettare. In questi giorni neanche di notte la temperatura è scesa sotto lo zero, mentre normalmente, a gennaio, si arriva come media notturna a –18°.
A novembre avevo impagliato e coperto le arnie; raccolto nel bosco vicino a casa la legna minuta e secca che, ogni mattina, appena mi alzo, mi serve per accendere il fuoco; avevo anche levato dalla terra le carote, i sedani e raccolto le ultime verdure per conservarle in cantina, come mi aveva insegnato lo zio Barba quando ero ragazzo.
Avevo anche levato gli sci dai supporti appesi sotto il soffitto; non gli sci leggeri e da competizione con sopra stampate le medaglie olimpiche vinte dalla marca, ma quelli finnici con sulla punta il goffo orso, un poco piú larghi e solidi, da camminare per i boschi fuori pista; e dopo aver controllato gli attacchi e incerate le scarpe, avevo anche ispezionato la cassetta delle scioline soffermandomi a contare i tubetti di polar, quella speciale da usare con temperature inferiori a –25°. Infine, davanti all’uscio di casa, misi in bella mostra la pala da neve.
Tutto questo tra una lettura e l’altra, lettere cui rispondere, pagine bianche da riempire di parole. Ogni mattina, con la nocca dell’indice, battevo sul barometro appeso al muro esterno per vedere in che senso si spostava la lancetta della pressione atmosferica, osservavo il termometro e la direzione del fumo dei camini: tutto mi indicava tempo bello, costante, secco. E non passavano beccacce, non arrivavano le cesene, non sentivo i frettolosi richiami degli uccelli di passo che certo avevano preso altre strade; sulle cataste di legna non vedevo scriccioli o pettirossi, e sui larici dietro casa si posava solo qualche rara coppia di crocieri o di ciuffolotti.
E i boschi erano talmente secchi che sarebbe bastata una piccola favilla per provocare un grande incendio; e quando dopo mangiato andavo a camminare per qualche chilometro lungo la valle con il mio cane Ast, dovevo mettermi gli occhiali per proteggere gli occhi dalla polvere che scendeva dagli alberi mossi dal vento del Nord.
Venne un po’ di neve prima di Natale, ma proprio poca; che, se per i villeggianti dava un’illusione festiva e la soddisfazione di rovinare la soletta degli sci sulle pietre che affioravano, personalmente non mi lusingava per il pensiero di rompermi una gamba. Cosí dopo Capodanno la neve era stata tutta consumata dagli sciatori cittadini, che pure riempivano il reparto di ortopedia. Gli impianti si fermarono e i maestri di sci rimasti disoccupati andarono nel bosco a far legna; quindi si chiusero anche gli alberghi perché vennero disdette le settimane bianche, e i negozi misero in vetrina le svendite di abbigliamenti e articoli sportivi. Restavano da pagare fornitori e personale.
A metà gennaio camminavo per le montagne come fosse settembre: mancavano soltanto i colori autunnali; e un giorno ritornai a casa con un mazzo di erica fiorita. Con la fioritura delle eriche le api si mossero e in uno dei passati giorni, lavorando con la finestra aperta come si fosse in aprile, sentii il loro volo e mi alzai dal tavolo.
Non era un volo di spurgo, ossia quello che d’inverno fanno una volta ogni tanto per scorporare fuori dall’arnia, ma un volo di raccolta perché appena si staccavano dal predellino andavano dirette verso il bosco a est, dove erano fiorite le eriche e sbocciati gli amenti del salicone. Sceso ad osservare, constatai che ritornavano alle loro case cariche di polline.
Non so ancora se questa raccolta fuori stagione sarà un bene o un male, perché se le regine, come suppongo, incominceranno a deporre le uova e se nelle prossime settimane arriverà davvero l’inverno, le famiglie si troveranno a mal partito con larve e pupe da nutrire. E a nutrirle artificialmente mi sarà difficile perché diventerebbe troppo rischioso levare i ripari invernali.
Anche gli animali del bosco hanno avuto un comportamento analogo. Le lepri sono andate in amore prima del tempo e già hanno partorito i loro piccoli; tutto il loro territorio era sgombro e sui prati esposti a mezzogiorno uscivano al tramonto per mangiare i verdi germogli dell’aglio selvatico. Anche i caprioli hanno rotto i branchi e gironzolano per i boschi senza le difficoltà causate dalla neve; pure le volpi la fanno grassa perché le loro defecazioni dimostrano che non hanno crisi alimentari; quest’anno persino gli scoiattoli ignorano il pane che ogni inverno infilo tra la forcella di un abete, e l’urogallo dei Kheldar non si ciba di foglie d’abete bianco, ma di germogli freschi che ho visto spuntare nel sottobosco.
Ieri pomeriggio, però, un branchetto di cince si era posato a beccolare le briciole dove il mio cane è uso ogni mattina mangiarsi il suo pezzo di pane secco. E questa notte ho fatto un sogno non proprio strano: le mie arnie erano sistemate tra le gambe di una mandria di vacche e io cercavo di postarle con le aperture verso sud. Anche una famiglia che avevo considerato morta si era messa alacremente al lavoro, sí che le api passavano allegre tra le gambe e le mammelle gonfie di latte delle vacche. Poi mi trovai a camminare in mezzo ai prati e questi erano talmente coperti di fiori melliferi che non c’era posto per altre erbe; su questo tappeto di fiori: miosotidi, ranuncoli, salvia dei prati, narcisi, tarassachi, le api volavano numerosissime e operose nella raccolta, tanto che l’aria era piena del loro ronzio e densa di buoni odori.
Questa mattina l’alba entrò nelle mie stanze con luce diversa, ma io sapevo da dove proveniva. Pensavo a quando quarant’anni or sono aspettavo questa luce camminando con un gruppetto di compagni per le pianure dell’Ucraina. Affacciandomi alla finestra vidi un pettirosso tra i rami del ciliegio selvatico; i prati e i boschi erano leggermente imbiancati e un leggero pulviscolo scendeva dal cielo lattiginoso.
Era dal principio del secolo che a ogni primavera, al sabato, saliva dalla vicina pianura a vendere le semenze e poi, dopo la semente, le pianticelle che lui faceva crescere per noi nei suoi orti prima del trapianto nei nostri, dove la neve sempre stenta ad andarsene. Da ragazzo, ricordava mio padre che gli era coetaneo, veniva quassú con suo padre trasportando la merce con un mulo, e ora c’è suo figlio che sale con un camioncino; cosí sulle nostre terre di montagna, che già la guerra sconvolse, la vita e il lavoro degli uomini proseguono con pazienza, e, in certi momenti, malgrado tutto, serenamente.
Ma fino a quando? Sempre di piú sono gli orti abbandonati alle ortiche e sempre piú disordine si nota attorno alle case della gente perché è molto piú semplice andare a fare la spesa di ortaggi e frutta nei negozi-boutique dove fanno bellissima apparenza verdure insapori, o entrare in certe sofisticate fiorerie dove luci multicolori e zampilli d’acqua trasfigurano i fiori che poi portati in casa durano poche ore. Tutto questo perché è sempre meno faticoso che piegare la schiena e mettere le mani nella terra; come l’aprire una scatoletta è piú facile che fare una minestra.
Un sabato della primavera del 1981 fu l’ultimo che il novantenne Enrico venne a proporci le sue sementi. Era, lo ricordo bene, un giorno freddo, in cui la pioggia si alternava alla neve, ed io, malgrado il tempo poco favorevole, pensavo di proseguire le semine e la piantagione appena la terra si fosse un poco prosciugata (in montagna, questo, avviene in fretta). Anche il vecchio venditore di sementi quel giorno aveva freddo e, lasciato il banco al figlio e al nipote, si era ritirato al Caffè Nazionale dove andai a cercarlo per raccontargli i miei guai di ortolano un poco precipitoso.
Quell’inverno era venuta poca neve e cosí l’orto si era scoperto e sgelato piú in fretta di sempre; dopo aver concimato con il letame e rivoltata la terra non avevo aspettato la seconda luna buona d’aprile ma seminato con la prima i piselli, gli spinaci, i ravanelli, i bulbini d’aglio e cipolla che non temono il freddo notturno, e il prezzemolo che impiega piú di trenta giorni a germogliare, e il tutto avevo coperto con rami fitti d’abete perché cornacchie, fringuelli e merli non venissero a metterci il becco. Ma restavano ancora da seminare insalate, radicchi, bietecoste, fagiolini, zucchini, carote e le piantine di cavoli verza e cappuccio, i sedani e, naturalmente, le patate perché per quest’ultime sempre abbiamo aspettato la metà di maggio, quando arrivano le quaglie, per levarle poi mature nella prima quindicina di ottobre quando passano le beccacce.
Sorseggiando un bicchiere di vino raccontavo al vecchio ortolano del freddo e della neve d’aprile che avevano arrestato sul nascere la germinazione e del dispiacere che si prova nel vedere le foglioline bruciate dal gelo. Lui mi ascoltava in silenzio fumando il suo toscano ma ad un certo punto mi interruppe bruscamente rimproverandomi la fretta e la mia bramosia di primavera. Non sei piú un ragazzo, mi diceva, e certe cose dovresti ben saperle; qui non sei in pianura e il tuo orto è a piú di mille metri. Aspetta dunque sempre dopo San Marco per seminare, se qualche anno anticipi vedrai che quello che tu credi un vantaggio nella produzione diventa un danno. Rivanga tutto quello che hai già seminato e aspetta ancora quindici giorni.
Piú non disse su questo argomento e centellinando il suo vino volle raccontare di mio nonno.
Ma il vecchio Enrico aveva mille ragioni a rimproverarmi perché il fatto di volere un poco anticipare le semine delle verdure era solamente dovuto a un desiderio personale di aria primaverile rallegrata nel lavoro dal canto dei tordi e delle allodole, e questo è una forza che riesce a farmi abbandonare la mia stanza dove ancora tanti libri rimangono da leggere, lettere attendono risposta e quaderni la scrittura di un racconto.
Ma è cosí bello vangare interrando il letame stagionato e odoroso, livellare con il rastrello e levare con pazienza qualche radice di gramigna che vorrebbe attecchire, poi scegliere l’angolo giusto o il posto per ogni tipo di semente immaginando come sarà una volta cresciuta: bisogna sapere se ama il sole o l’ombra, l’umido o l’asciutto e dove la corrente d’aria in autunno le potrebbe essere di danno. A bene osservare ogni metro quadro d’orto ha il suo microclima. Occorre anche ricordarsi il luogo delle specie coltivate per alternarle ogni anno perché il posto delle carote, o delle cipolle, o dei piselli, delle insalate non deve sempre essere il medesimo; ogni verdura dell’orto, poi, preferisce un dato terreno piú o meno concimato e siccome il mio è formato da terreno forestale con humus da anellidi e ha la tendenza, se troppo bagnato, ad essere attaccato dal muschio, devo sapere regolarmi anche su questo.
Insomma anche per un piccolo orto di montagna è necessario sapere molte cose, e osservare e imparare con la pratica e sui testi; ho anche sperimentato che certe semenze, anche se certificate e selezionate, prodotte in climi temperati, non mi dànno i risultati della semente proveniente da climi piú rustici. È poi anche inutile volere coltivare certi ortaggi, come pomodoro o cardi, dove il clima non lo consente.
Un anno, nel posto piú riparato e solatio, avevo provato a coltivare delle piantine di pomodoro; le avevo anche protette, innaffiate, diradate; avevano anche prodotto alquanta frutta che, ancora verde, avevo raccolto prima dei geli e stesa in soffitta: no, erano proprio immangiabili, e certi prodotti è meglio lasciarli fare agli orti del Sud.
Personalmente non amo nemmeno le serre e i prodotti che vengono raccolti nelle serre. Che senso ha mangiare ravanelli a Natale, patate novelle a febbraio, meloni a maggio? A meno di non essere talmente astratti come quel docente universitario che un giorno venne a salutarmi e dopo una saporita colazione non ricordava cosa aveva mangiato e bevuto. Nemmeno il congelatore uso; per i prodotti che raccolgo (verdura, tuberi, funghi, frutta, carne) uso per la conservazione i sistemi tradizionali che da mille anni dànno buoni risultati.
Amo questa terra e i prodotti della terra secondo le stagioni e il clima che la natura ci dà, e la cosa non è assolutamente monotona. Tutt’altro! E poi l’uomo vive meglio seguendo i ritmi circannuali e la biocenosi che gli è consueta, anche se è l’animale che piú di ogni altro si adatta ad ogni ambiente, nel bene e anche nel male.
Durante una missione nello spazio della Columbia, hanno portato lassú in alto tre pianticelle per studiare il loro comportamento in quasi assenza di gravità. Dicono che sono «impazzite». In otto giorni hanno sconvolto l’ordine del loro sviluppo: i diversi elementi del pino, avena e fagiolo cinese hanno preso orientamenti imprevedibili, e non solamente la parte aerea delle piante ma anche quella interrata: il cinquanta per cento delle radici sono uscite dal suolo verso l’alto. Gli esperti della Nasa dicono che le piante verdi aiuteranno gli equipaggi destinati a rimanere a lungo nello spazio. Ma che cosa penseranno nel vedere cosí sconvolto il regno vegetale? Non solamente Enrico, il vecchio novantenne venditore di semente, resterebbe perplesso.
Meteorologi alla televisione, previsioni del tempo sui giornali spiegano il perché e il percome i venti e le pressioni barometriche combinano il maltempo; ma un mio vecchio amico che faceva il pastore, semplicemente guarda il lunario appeso dietro la porta della cucina e mi spiega: «Siamo in ritardo di una luna, aspetta a mettere sotto le patate la prima deca di giugno». Gira i fogli del lunario a cominciare da gennaio contando le lune: «Vedi, quest’anno sono tredici, e poi siamo anche in un anno bisestile».
Mi spiega anche che la tredicesima luna, quella falsa, è venuta il due di marzo e tanti l’hanno presa per quella di primavera, sbagliando a seminare e a levarsi indumenti. «Sembrava, in un primo tempo, ma poi hai visto quanta neve è ancora venuta. E quest’anno le malghe dovranno caricarle almeno dieci giorni piú tardi».
Tredicesima luna o no, quest’anno si preannuncia nero perché, almeno da noi in montagna, le chiocciole non sono ancora uscite, le vipere non sono in amore e nel bosco ancora bruno appena ora fuoriesce il bianco farfaraccio; le betulle gentili e forti (pur apparendo cosí esili sopportano sbalzi termici di sessanta gradi e piú) hanno germogliato tenerissime sopra chiazze di neve sporca durante l’ultimo plenilunio, e i sorbi dell’uccellatore non hanno ancora messo le inflorescenze.
Anche gli uccelli hanno ritardato i canti, e i merli dal collare e le cesene sono nei boschi dabbasso. Anzi, quest’anno, forse, se la neve in alto perdurerà a lungo non saliranno a nidificare tra i pini mughi, ma a metà strada tra quote basse e fondovalle, nei solivi. «Molti non credono alla forza della luna, – continua il vecchio pastore, – ma ti posso assicurare che nascite e semine seguono la regola. E il taglio del bosco? I nostri commercianti di legname, quando dai Comuni comperano i lotti in piedi, aspettano la luna buona per far tagliare gli alberi. E la luna buona per il taglio è dopo il plenilunio, quando è in calare, perché in questo momento sono pieni di resina e il legno si conserva meglio e piú a lungo. Le tavole e le travi tagliate in una luna buona stanno piú ferme, non si svergolano. E sai perché? Perché con la luna in crescere gli alberi si muovono, ossia succhiano con piú avidità dalla terra».
Fantasia o scienza non lo so, ma ho provato qualche volta a bruciare nella stufa legna tagliata in cattiva luna: si consumava molto male, facendo tanto fumo e con poca fiamma; la bracia, poi, restava carbonizzata, non si consumava in cenere e il calore che ne veniva era poco.
Una sera di primavera in osteria si parlava dell’influsso della luna sulla vita delle piante e sul bosco. Un ispettore forestale che era arrivato di fresco e che voleva far tagliare il legnatico per uso civico senza tener conto di queste tradizionali esperienze, non voleva assolutamente credere agli influssi lunari e disse che avrebbe pagato una cena di selvaggina a tutti i presenti se si fosse con prove dimostrato la nostra teoria.
Alla sua presenza in periodo di luna cattiva, in crescere, da una ceppaia di faggio si tagliò un pollone; dalla stessa ceppaia in luna buona, in calare, si tagliò un altro pollone. I due tronchi, spaccati e segnati, vennero messi a stagionare nello stesso posto e al controllo di tutti. Quando venne l’autunno con le legne distinte si accesero contemporaneamente due distinti fuochi: la prova venne cosí evidente che l’ispettore forestale dovette convertirsi e pagare la scommessa.
Abbiamo avuto la luna di aprile, dunque, fino al trenta di maggio, e tredicesima luna in anno bisestile. Potete crederci o no, ma ho provato a seminare nell’orto senza tener conto di questo e anche tenendone conto: voglio vedere il risultato. Intanto è certo che il bosco e gli animali sono in ritardo sul calendario.
L’altro giorno, qui dietro la casa, stavano allestendo dei tronchi di abete divelti da una bufera invernale, ebbene: pur essendo in maggio la corteccia non si staccava dal tronco con facilità perché ancora la linfa non le correva sotto. Anche le squisite spugnole sono in ritardo, appena ora incominciamo a mangiare le prime nella frittata, e i germogli delle ortiche per il risotto potremo raccoglierli ancora per una quindicina di giorni.
E le api? Come vanno le api? Penso proprio che siano state anche loro tratte in inganno dalla tredicesima luna perché dopo che la regina aveva deposto le uova anche per far nascere fuchi, ora si trovano in difficoltà e li cacciano via dall’arnia. Certo, dipende dal tempo piovoso e freddo, ma anche per il ritardo della fioritura: eriche e crochi fioriscono ora, e il tarassaco è di là da venire; cosí ho dovuto mettere nelle arnie, fuori dal diaframma, dei telaini di miele che si era indurito e che per loro avevo provvidenzialmente conservato. Speriamo anche per le api in una lunga estate, che consenta un buon raccolto.
L’altra sera andando per il bosco con i miei pensieri mi è capitato di sentire piú volte gli sternuti e i colpi di tosse dei caprioli: ohi! ahi! Le pesanti nevicate di marzo e aprile ne avevano fatto morire parecchi, ne sono stati ritrovati i corpi tra bosco e prato; ma ora i sopravvissuti a causa di questo tempo freddo e piovoso manifestano con piú virulenza i sintomi di una malattia cagionata da un dittero, il Cephonomya stimulator, le cui larve si annidano nelle cavità nasali e nella faringe. Non deve essere certo piacevole per loro, bestiole selvagge ma pur delicate, sentirsi questi vermi nelle vie respiratorie, e cosí cercano di liberarsene tossendo e sternutendo con forza e rumore.
E se dovessero fare una corsa per difendersi da un cane randagio o da una moto da cross, si troverebbero in grande angustia, fino a morirne: coraggio caprioli, con l...