Sorella
eBook - ePub

Sorella

  1. 112 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
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Sorella

Informazioni su questo libro

Amaranta è una suora invecchiata «nel sospetto di stare dentro una storia bugiarda». Rifugiatasi nella vocazione come in una tana, si sente dolorosamente diversa dalle altre suore che sembrano sempre indaffarate e felici.
Un giorno la madre superiora le ordina di dedicarsi alla cura dei bambini dell'asilo: una proposta terribile, per Amaranta, che i bambini non li ama né li capisce: i bambini, per lei, «sono la vita ancora non domata, e la vita vuole soltanto soddisfarsi, imporsi su chi le sbarra il passo. Allunga le mani, prende, strappa e non chiede scusa».
Amaranta non è affatto pronta. Le manca, dice lei, il cuore, la fede, la frusta. Però raduna intorno a sé quelle tredici creature che vagano come mosche stordite e comincia. Afferra le quattro ceste di vimini piene di dinosauri repellenti e bambole rotte, le rovescia sul tappeto e aspetta che accada qualcosa. E qualcosa, infatti, accade. Una battaglia infinita, pazza.
Perché i bambini sono pazzi: pazzi di desideri e di vita. Fanno le cose più strane. Si picchiano con furia e subito dopo si consolano con dolcezza infinita. Ridono, piangono, ti fanno vorticare nel loro girotondo. Suor Amaranta gira con loro, e mentre gira il suo cinismo e il suo disincanto sfarinano a poco a poco. Poi arriva Luca, un bambino silenzioso, quasi autistico. «Parla in modo strano, - la avvertono, - ma bisogna ascoltarlo perché ogni cosa che dice ha un senso».
Nel corso del libro Luca - angelo o diavolo tentatore - pronuncerà solo tre parole, tre parole strane e casuali che suor Amaranta interpreterà come ordini diretti a lei. Per ubbidirgli vivrà tre avventure rocambolesche e con paura e goffaggine, in un irresistibile crescendo dai risvolti comici eppure serissimi, andrà finalmente e totalmente incontro alla vita. Toccherà il mondo, e si troverà infine degna di se stessa e di una sorpresa che ha la forza di una rivelazione. «Mi dia il salmone, per favore».
«Quale salmone, di cosa sta parlando?»
«Quello che ha rubato come una zingara, quello che ha nella manica, per favore».
Avevo la mano rattrappita attorno alla busta, un gancio d'acciaio.
«Io sono una suora», ho detto.
«Lo vedo, ma mi ridia il salmone, sia gentile. Mi ridia il salmone e se ne vada, sorella».

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Informazioni

Editore
EINAUDI
Anno
2014
Print ISBN
9788806193324
eBook ISBN
9788858413081

Marco Lodoli

Sorella

Einaudi

A Linda, la sorellina

Signore, scendi dentro di me come un bacio o un’accetta, fatti sentire, sono cosí sola.
Un uccellino sul davanzale freddo della stanza, piccolo da stare dentro il palmo della mano, con il petto rosso e il becco giallo, cinguetta una melodia che sembra una canzone d’amore, muove il capino e non vola via, anche se io sono lí, chiusa nel mio vestito nero che forse gli fa paura. Si scuote tutto, come se avesse un cielo di pioggia addosso. E d’improvviso rivolge i bottoncini scuri degli occhi proprio verso di me: mi guarda fisso, mi conosce, mi parla. Dice: Amaranta stai serena, va tutto bene, va come deve andare, e tu sei nel posto giusto, dove io ti ho voluta.
Cosí ho immaginato per tanti anni, come una povera sciocca.
Ora mi andrebbe bene anche una piaga su un fianco, una gamba che si storce e non cammina piú, un dolore alla testa, e che da quella pena venisse fuori una voce, come lava da un vulcano, una voce che geme e atterrisce, e mi dicesse una sola frase, violenta e chiara: tu ci sei perché io ci sono. Ecco, sarei felice anche nel dolore, io che del dolore ho tanta paura; la mia vita avrebbe un senso, una direzione, e una meta.
Invece non accade niente, semplicemente niente. Qui tutto scorre come sempre e giorno dopo giorno invecchio nella sfiducia, nel sospetto di stare dentro una storia bugiarda. Invecchio e tutto resta uguale. Guardo le sorelle, sembrano sempre indaffarate e felici, sorridono a non so chi o cosa, si muovono svelte nei corridoi, dentro un’obbedienza rassicurante. A qualcuna – a suor Genziana, per esempio, che ha il viso come una mela ed è cosí ingenua da non saper mentire – qualche volta, ma senza darci peso, cosí, come fosse un discorso tra amiche, gliel’ho domandato. Ma tu lo senti? Ti parla ogni tanto? La sua voce scende dal cielo fino a te? Gli occhi le si illuminano come se avessero dentro candele, e poi muove le mani nell’aria, sembra che stia per prendere il volo e non dice quasi niente. È cosí bella questa giornata, dice, non manca proprio niente. A volte poggia la testa da mela sulla mia spalla.
Dentro sento un vuoto tremendo, una fame che non passa mai e diventa cattiva.
La madre superiora ha le mani sottili, le labbra sottili, gli occhi sottili. Lei ci osserva tutte durante le faccende quotidiane e le liturgie, sa chi siamo. Forse sa anche chi non siamo, quali pensieri vaghi e pericolosi ci corrono nella testa, e come porre rimedio. Ha capito subito che suor Felicetta stava male; e a dire il vero l’avevo capito anch’io. Nel refettorio parlava a voce troppo alta, scostava la sedia con un gesto troppo deciso, tardava un attimo a inginocchiarsi nella preghiera. Diceva che il mondo sta andando in rovina, che c’è troppa cattiveria nell’aria, e ogni tanto si metteva un po’ di profumo dietro le orecchie. Allora la madre superiora l’ha destinata alla cucina, a pulire i piatti e a spazzare bene il pavimento. A scrostare le pentole e a piegare i tovaglioli. A raccogliere le briciole. Non sono punizioni, ma correzioni necessarie, stabilite per il bene di chi soffre l’inquietudine. Però non credevo che la madre superiora scrutasse da tempo anche me, fin dentro l’anima: io sto bene attenta a non fare mai niente di sbagliato, a nascondere ogni sentimento. E invece ieri mattina mi ha preso da parte e mi ha parlato a bassa voce, come fa lei, che sembra leggere piano le parole di un libro.
Amaranta, da domani farai la maestra ai bambini della nostra scuola, ha detto tenendo le mani giunte sul petto.
Quelli delle elementari? ho domandato tanto per non restare zitta.
No Amaranta, quelli piú piccoli, della materna.
Lo so, qui dentro bisogna accettare ogni ordine senza protestare, senza dubitare, ma mi è venuto spontaneo fare un passo indietro, come quando si giura sulla propria innocenza e si è colpevoli. Io non sono capace, mi creda madre, non sono adatta a stare con i bambini, non li capisco, non saprei proprio da dove cominciare.
È semplice, cominci da domani e vai avanti, mi ha detto fissandomi da quelle feritoie strette e celesti. Mi ha sorriso con i suoi denti piccoli e bianchi e mi ha stretto il braccio. Avrei voluto scrollarmi da quella presa, da quel sorriso, ma ho abbassato la testa. Sono piú alta della madre superiora, piú forte, ma sono infinitamente piú confusa di lei, che forse sa davvero quello che è giusto.
Sono belli i bambini, insegnano a dimenticare tante cose inutili, mi ha detto, e mi ha lasciato lí da sola, a farmi piccola.
Io non amo i bambini. Questa è la verità che mai potrei confessare, perché il mondo ha deciso una volta per tutte che i bambini sono la gioia piú grande dell’esistenza. Ma il mondo mente, non ha il coraggio di ammettere che ogni bambino precipitato qui con il suo fiocco celeste o rosa è altro tempo destinato a consumarsi vanamente. Tempo gettato nel tempo, compagno di sventura. «Lasciate che i bambini vengano a me», dice Gesú: ma aspetterà invano. I bambini sono la vita ancora non domata, e la vita vuole soltanto soddisfarsi, imporsi su chi le sbarra il passo. Allunga le mani, prende, strappa, e non chiede scusa. La sua legge non è l’amore, ma il desiderio. I bambini gridano perché vogliono, vogliono sempre, nulla mai li appaga per piú di un attimo. Succhiano avidamente il latte delle madri, e poi le energie dei padri, la loro brama inghiotte ogni moneta faticosamente risparmiata. Bisogna educarli, ossia reprimerli, strappargli dalle mani rapaci come quelle di un usuraio ciò che non gli spetta, metterli in riga per due, pulirli. Bisogna portarli al sonno, cioè alla scomparsa, almeno per qualche ora, il tempo di riprendere fiato e coraggio. E al risveglio è tutto uguale, ricomincia a girare la ruota dentata del desiderio, che cerca qualcosa a cui aggrapparsi per non girare a vuoto: e cosí per anni, fino a quando la sconfitta è certa.
E adesso dovrò occuparmi di loro; ogni classe ha almeno quindici o venti piccoli ingordi da sfamare. Dovrò imparare i nomi diversi di quella cosa sola che è l’esistenza allo stato puro, originale. Costringerla a cantare in coro canzoncine stupide, a recitare le preghiere la mattina e prima del pranzo; spegnerla a poco a poco. La maestra è solo una carceriera sorridente, e un giorno quei bambini, ormai diventati adulti, grassi, grigi, magari torneranno a ringraziarla per essere stati schiacciati con grazia, perché quella donnina gli ha messo un morso in bocca e una sella sulla schiena.
Domani si comincia. Io non sono pronta, mi mancano il cuore, la fede, la frusta. Io mi sento vuota, chi mi dovrebbe parlare tace e la caverna diventa sempre piú scura. Ho paura che dentro di me i bambini si perderanno, che le loro grida di paura mi spaventeranno.
I fiori hanno fame
Hanno corolle belle e tanta fame
Hanno profumi d’oro e fame nera
Vorrebbero correre lontano
Stare sempre addosso al vento
Come le belle farfalle
Che volano leggere nella fame
E ruotano sui prati dipinti dalla fame
Perché anche i prati hanno fame
Di pioggia fina, primavera e roba
Che piano piano si disfa sottoterra
Perché anche i morti hanno fame
Della vita che non c’è piú,
che gira col vento e le farfalle
e ruota nelle vene dei bambini
della vita che è cerchio di pane secco
e ha sempre fame e sete e niente
A sedici anni, davanti alla tazza del caffellatte, dissi a mia madre voglio farmi suora. Non frequentavo la parrocchia del quartiere, non facevo mai la comunione, mi ero confessata solo una volta, a nove anni, ma ero certa di quello che volevo. In una sola ora avevo capito che il mondo non era fatto per me e che l’unica via di scampo era la purezza. Avevo pianto sul cuscino fino a bagnarlo, avevo sentito un dolore acuto dentro al petto, come un uccello che becca disperatamente le sbarre della gabbia per volare via, avevo visto la mia figura vestita di nero, con la fascia candida sulla fronte, nella pace di un chiostro, nel silenzio che cancella la mente. La mia strada è la purezza, una strada bianca e senza curve, che sale lenta e tranquilla su un colle ventoso: la mia strada non sarà mai nella vita. Che la vivano gli altri, la vita, se ci tengono tanto, che si scontrino e si moltiplichino, che si diano appuntamenti e baci e spinte, che facciano tutto il rumore che serve a farsi notare, che chiedano per favore e voglio ancora. Che si facciano crescere corna in testa per caricare meglio. Io voglio avere il viso pallido delle suore, la loro grazia mansueta, grani freddi tra le dita.
Mia madre mi guardò con gli occhi gelati dallo sgomento.
Mi disse: ti senti male, ti ho forse fatto mancare qualcosa? Io facevo di no con la testa, senza aggiungere una parola. E allora lei prese un tono scherzoso, mi disse figlia mia, hai visto un angelo, forse? E com’era, con i boccoli biondi, con le ali aperte, o era una formichina d’oro che ti è entrata nell’orecchio e ti ha parlato di Dio? E che ti ha detto? Perché qualcosa ti ha detto, per forza, ti ha raccontato del cielo, dei santi, quelle storie da matti?
Il fiato suo aveva un ricordo dell’alcol della notte, e i capelli erano tinti di rosso e di biondo, perché neanche a lei la vita piaceva tanto.
Io continuavo a fare di no con la testa, e a sorridere. Nessun angelo mi ha mai parlato, non so, forse non sono degna, o non so ascoltare una voce che magari sta tra le foglie, nel giallo dei limoni, nella polvere di un muro, nella rabbia di mia madre. Ma non avevo dubbi, quella strada bianca era già sotto i miei piedi, già ci stavo camminando.
Tu sei cosí bella, figlia mia, avrai uomini ricchi che si butteranno ai tuoi piedi, che ti riempiranno di regali, di fiori, di attenzioni, che piangeranno per te. Sarai felice, sarai tanto felice. Hai visto come sono brutte le suore, nere come scarafaggi, imbacuccate per nascondersi meglio. Sono brutte e cattive, io me le ricordo. Tu sei bella e anche buona, non fare sciocchezze, domani ne riparliamo con calma, domani penserai mille cose diverse.
Mamma, è inutile, io sarò suora perché già lo sono.
Nel convento tutto è regolato secondo orari precisi. La mattina le sorelle si alzano alle sei per lavarsi, rifare il letto, rassettare la stanza e poi recarsi nella cappella per le lodi e la meditazione e l’adorazione dell’ostia. Io però mi alzo ancora prima, verso le cinque, quando tutto è muto e fermo. Apro la finestra e guardo il cielo e la città che circondano la mia stanza. In cielo stelle non se ne vedono perché la città soffoca quelle luci remote con le sue. Si vede qualche aereo che scende lentamente verso Ciampino, come una grande piuma d’acciaio. Deve essere pieno di gente che viene da lontano e adesso ha un po’ paura, per quel tremore di ali e di metallo. Sono quasi arrivati, avranno tante cose da fare e da vedere qui a Roma, avranno amici da incontrare, affari seri da sbrigare, ma ora pensano solo a non morire. Forse sono sorpresi da quel pensiero fastidioso che li accoglie tutti quanti e per un attimo li rende umili, soli ma uniti. Sono una chiesa che vola. Sulla tangenziale, che dalla finestra vedo di sbieco, passano rare automobili, con i fari accesi: è gente che va al lavoro o torna dai divertimenti della notte. Sono minimi ingranaggi del mondo, corrono a fare soldi, tornano da averli spesi, e le lancette girano il tempo giusto. Io sono ferma come un granello di sabbia che vorrebbe fermare anche il resto, inceppare tutto con la sua invisibile presenza. Lascio i vetri aperti sull’aria fredda e mi metto a scrivere, venti minuti, su un blocco a quadretti che tengo nascosto sotto il materasso. Stanotte ho sognato di stare in un campo, ero una pastora di pecore e loro erano tutte bianche e ferme a masticare l’erba. E poi l’erba non c’era piú, il campo era grigio di terra asciutta, e le pecore si sbandavano sui bordi, le perdevo a una a una. Poche erano rimaste attorno a me, e ora avevano musi cattivi, ringhiavano come cani bastardi, mi venivano sempre piú vicino e mostravano i denti. E anche le altre ora tornavano dal buio, bianche nel buio, mi stringevano all’albero con le zanne scoperte e il fiato ansimante.
Mi sono lavata la faccia con l’acqua gelida e mi sono guardata allo specchio. Molte suore hanno tolto lo specchio dalle loro stanze, dicono che non serve, che è vanità. Ho notato i primi capelli bianchi sulle tempie, rughe leggere intorno agli occhi. Ho trentasei anni, è naturale che sia cosí, che la vita passi e se ne vada. Ma con il velo sembro eterna.
E i figli, ci pensi ai figli, figlia mia, i tuoi figli? mi diceva mia madre seduta in cucina di fronte a me, disposta a fare notte per convincermi che ero solo impazzita. Con il bicchiere di vino bianco in mano, bicchiere di cristallo e vino dei Castelli, mi diceva: ma non li senti già nel ventre che chiedono di esistere? Ma nella testa non hanno già la forma di un pensiero che avanza? Non senti che ti chiamano dal futuro, per arrivare sani e salvi fino a te? Io ti conoscevo da molto prima che tu ti annunciassi con una nausea. Avevo dieci anni, forse anche meno, avevo otto anni e già ti parlavo, ti aspettavo. Non sai che gioia sono i figli, quanto mondo portano con sé, quanto è bello vederli giocare e dire tutte quelle stupidaggini deliziose.
Parlava cosí, mia madre, associava le parole in bocca, a volte era originale. Si puliva le labbra con la manica della vestaglia di raso, non si stancava mai di parlare e di bere.
E perché hai avuto solo me, se ti piaceva tanto avere figli?
Perché perché. Perché è andata cosí, perché tuo padre era uno sciagurato che si svegliava a mezzogiorno e non aveva voglia di fare niente, solo di bruciarsi i soldi e gli appartamenti che s’è ritrovato in eredità, questo lo sai. Trovava tutto troppo faticoso, amava il mondo solo visto con il binocolo, e se c’erano dieci cavalli che ci correvano dentro. È morto come un ospite che se ne va in punta di piedi per togliere il disturbo, ringraziando e salutando.
Non era male, papà.
Per niente male, per niente. I bambini lo divertivano, purché non gli saltassero in braccio, purché non gli chiedessero nulla. Dovevano fare il loro spettacolino sul tappeto, restare lí, crescere poco. Anch’io lo divertivo, ma da lontano, stava con me come con un ricordo. Non farti suora, figlia mia, lo sai che le suore portano sfortuna, tutte nere, tutte innamorate di quel pazzo sulla croce.
Di Dio onnipotente, mamma.
Ma Dio non esiste, ti prego, non fissarti su quella favola per poveretti. Io lo so bene, non esiste niente, dopo la vita c’è solo una scatola di zinco e una buca nera in cui ti calano con le corde, terra fredda e brutta. Non esiste altro che questa roba qui, mangiare, bere, far l’amore, fare figli, fare soldi, stare con gli amici, dormire, sentire la musica, dimenticare in fretta. Non c’è altro, credimi, Dio è solo un teatro noiosissimo.
Beveva dalla bottiglia, alla fine, coi capelli gialli e rossi che precipitavano all’indietro; mi diceva se vuoi un sorso fai pure, ma uno solo. Non era felice, ma non era neanche infelice, era disordinata e inutile come il mondo.
E adesso ho anch’io i miei bambini, tredici bambini: hanno dai tre ai cinque anni, stanno con me a disfare le mattine.
Alberto, Francesco primo, Francesco secondo, Gabriele, Luca, Massimino, Tobia, e poi Adele, Angiolina, Barbara, Costanza, Jessica e Martina: eccoli qui, traballanti e disperati nel loro primo giorno con me, maestra suor Amaranta. Sono arrivati tutti tra le nove e le nove e trenta, in braccio a mamme con gli stivali e gli occhiali da sole o tirati per un braccio da padri con i capelli brizzolati e il casco della moto in mano. Avrei voluto presentarmi meglio, dire qualcosa di affettuoso ai genitori, rassicurarli, ma avevano tutti fretta di lasciarmi i figli e dileguarsi. Nel mondo c’è tanto da fare, lo so, non c’è un minuto da buttare al vento. La retta va onorata ogni mese, e i soldi non crescono sugli alberi. Chi perde tempo è perduto. La sala dell’accoglienza è al pian terreno e ha tre grandi finestre che dànno sulla strada: dai vetri chiusi abbiamo salutato con la mano aperta i genitori che s’infilavano in macchina o accendevano le moto.
E ora siamo soli, io e loro, in questo stanzone troppo caldo, con le foto degli orsi e dei criceti, e il crocefisso appeso sopra la porta.
Cerco di mettere i bambini in fila per condurli nella classe che ci è stata destinata, in fondo al corridoio, accanto ai bagni con i rubinetti bassi e le tazze minuscole. Datevi la mano a due a due e seguitemi, dico, e loro mi guardano senza capire quello che devono fare. Quattro o cinque si prendono per mano, fanno una catenella. Tre tornano a schiacciare i musi alle finestre, sperando nel miracolo del ritorno impossibile dei genitori. Uno si mette con la faccia contro il muro, piange senza fare rumore, carezza la parete. Gli altri vagano come mosche stordite, grembiulini celesti e rosa persi nell’arancio della stanza. Tobia, credo sia lui anche se ancora non ho associato nomi e volti, si aggrappa alla mia gamba, dura oltre il sipario della veste floscia e nera. Voglio mamma, dice, e ha il tono piagnucoloso di chi, in mancanza d’altro, punta sul lamento e sulla tenerezza. Ha il moccio al naso, i capelli d’un biondo fiacco, ma si aggrappa a me con tutte le forze che possiede. Una bambina mi stringe il polso con entrambe le mani, mi dice adesso però torniamo a casa, ho un film bello da farti vedere, con i gatti e i topi. Se mi porti a casa ti do il cioccolatino che sta...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Sorella
  3. Il libro
  4. L’autore
  5. Dello stesso autore
  6. Copyright