
- 208 pagine
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eBook - ePub
I turbamenti del giovane Törless
Informazioni su questo libro
Un'atroce esperienza di crudeltà in un collegio militare alla periferia dell'impero asburgico vissuta passionalmente e rivissuta con gelo matematico.
Crisi adolescenziale e aggressività di filosofie nuove, la vicenda di Törless, indubbiamente modellata su esperienze autobiografiche, rappresenta la grande prova inaugurale del futuro autore de L'uomo senza qualità. Costituisce una vera e propria rottura nella storia della prosa tedesca.
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Informazioni
Print ISBN
9788806182717eBook ISBN
9788858411285Robert Musil
I turbamenti del giovane Törless
Traduzione di Anita Rho
Einaudi
Robert Musil nacque a Klagenfurt (Carinzia) il 6 novembre 1880. I suoi antenati da parte di padre e da parte di madre provenivano da varie regioni dell’Impero asburgico ed erano stati costretti a cambiare piú volte residenza per varie ragioni. Musil imputò al continuo sradicamento trasmessogli come eredità familiare dagli antenati la responsabilità del suo mancato successo letterario. Invidiò sempre al piú fortunato Thomas Mann la saldezza e addirittura la mafia di un clan capace di farsi rispettare.
Fu un figlio difficile anche per reazione ai contrasti tra i genitori e alla loro gara per conquistare il suo affetto o per ridurlo all’ossequienza piú abietta. La madre Hermine, che si portava dietro in ogni trasferimento l’amante Heinrich Reiter, incitò un giorno il debole padre Alfred, ingegnere nell’industria metalmeccanica e insegnante negli istituti tecnici di varie città, a frustare il figlioletto che si era sporcato in una pozzanghera. Quella fustigazione del 1885 era destinata a restare episodio capitale nella vita dei genitori e di Robert Musil.
Quando nel 1890 i genitori cercarono di ripetere la punizione, il figlio decenne, diventato ormai uno scolaro rissoso e malato di nervi, si ribellò. E la sua famiglia, compreso l’amante della madre da lui odiato, registrò con sollievo la sua iscrizione nel 1892 al liceo militare di Eisenstadt.
«Non era davvero un istituto educativo», è il commento di Musil nei suoi diari. Il peggio, comunque, arrivò dal 1894 in poi, quando Musil passò a proseguire gli studi al collegio militare di Mährisch-Weisskirchen, che definirà poi «il buco del culo del diavolo». All’interno di quel collegio si svolsero gli avvenimenti narrati ne I turbamenti del giovane Törless, il primo romanzo di Robert Musil. Dopo esser passato a frequentare l’Accademia militare tecnica di Vienna, Musil decise nel 1897 di abbandonare definitivamente l’idea di una carriera militare, studiò ingegneria meccanica al politecnico di Brünn, dove risiedeva la sua per cosí dire famiglia, poi filosofia, in particolare logica e psicologia sperimentale, e cominciò a occuparsi anche di letteratura con grandi frequentazioni di Nietzsche, di Emerson, di Maeterlinck, del D’Annunzio del Piacere, di Altenberg, di Schaukal, di Wilde, di Hamsun, di Jacobsen, di Dostoevskij.
Ingegnere nel 1901, studioso di Ernst Mach, che lo aiutò a rileggere Nietzsche in un’altra prospettiva rispetto a quella suggeritagli precedentemente da Emerson e Maeterlinck, preparò un’impegnativa dissertazione sul fisico e filosofo austriaco, ma, prima della dissertazione, pubblicò questo suo romanzo d’esordio, cominciato nel 1902, per vincere la noia dei suoi giorni e delle sue notti a Stoccarda, dove si trovava come assistente volontario al politecnico presso il professor Julius Carl von Bach.
«I turbamenti del giovane Törless (1906) rappresenta una vera e propria rottura nella storia della prosa tedesca, paragonabile soltanto a quella compiuta intorno agli stessi anni dal Kafka dei primi racconti e dal Rilke del Malte Laurids Brigge», scrive Ladislao Mittner nella sua celebrata Storia della letteratura tedesca. «Entrato in un’accademia militare austriaca sei anni dopo Rilke, Musil non ne uscí, come Rilke, con l’anima per sempre spezzata, ma con lo spirito irrobustito dalla tremenda crisi dell’adolescenza e reso straordinariamente lucido dalle meditazioni sulla matematica. Il Törless s’inizia (e anche si chiude) come un tipico romanzo decadentistico di una crisi della pubertà aggravata dall’inumana disciplina della scuola; la sua sostanza artistica è altrove. Il giovane Törless non subisce passivamente, come Rilke, il sadismo dei compagni; si fa sadico lui stesso per il gusto di sperimentare quasi scientificamente la crudeltà; e se il suo spirito è torturato, è torturato in primo luogo dal problema filosofico dei numeri irreali. Ma mentre la crudeltà è piú nella fantasia di Törless che nelle azioni dei compagni, a cui tanto volentieri assiste, e nelle azioni che talora anch’egli compie, il gelo che la matematica produce in lui anticipa quella che sarà “l’altra condizione”: i numeri immaginari “percorrono la via di Dio, senza credere in Dio”».
I turbamenti del giovane Törless
In qualche strana maniera noi svalutiamo le cose appena le pronunciamo. Crediamo di esserci immersi nel piú profondo dell’abisso, e invece quando torniamo alla superficie la goccia d’acqua sulla punta delle nostre dita pallide non somiglia piú al mare donde veniamo. Crediamo di aver scoperto una caverna di meravigliosi tesori e quando risaliamo alla luce non abbiamo che pietre false e frammenti di vetro; e tuttavia nelle tenebre il tesoro seguita a brillare immutato.
MAETERLINCK
Una piccola stazione sulla linea ferroviaria per la Russia.
Quattro rotaie parallele correvano all’infinito nelle due direzioni fra la ghiaia gialla della larga strada ferrata; accanto a ciascuna come un’ombra sporca la linea scura che il fumo e il vapore avevano bruciato nel terreno.
Dietro l’edificio basso della stazione, verniciato ad olio, un viale largo e in cattivo stato veniva su verso la rampa. I margini si perdevano nel terreno pesto all’intorno ed erano delimitati soltanto da due file di acacie malinconiche con le foglie soffocate dalla polvere e dalla fuliggine.
Fossero quei colori tristi, fosse la luce del sole pomeridiano, pallida, stanca, svigorita dai vapori: oggetti e persone avevano qualcosa di apatico, di fiacco, di meccanico, come tolti dal palcoscenico di un teatro di burattini. Di tanto in tanto, a intervalli eguali, il capostazione sbucava dal suo ufficio, con lo stesso moto della testa si voltava a guardare la cabina del guardalinee che ancora non segnalava l’arrivo del rapido, in gran ritardo fin dalla frontiera; con lo stesso gesto del braccio tirava fuori l’orologio, scuoteva il capo e tornava a sparire, cosí come vanno e vengono le figure delle torri antiche allo scoccare dell’ora.
Sulla banchina di terra battuta fra i binari e l’edificio si agitava un’allegra brigata di giovani, procedendo a destra e a sinistra di una coppia di coniugi anziani, che erano il centro di una conversazione alquanto rumorosa. Ma anche la gaiezza di quel gruppo non era schietta, e le gioconde risate ammutolivano dopo pochi passi, come se scontrandosi contro un ostacolo invisibile ma solido ricadessero a terra.
Frau Hofrat1 Törless, una signora sulla quarantina, nascondeva dietro un velo fitto gli occhi mesti un po’ arrossati dal pianto. Si trattava di un addio, e le era penoso abbandonare di nuovo per tanto tempo fra estranei l’unico figlio, senza possibilità di vegliare tenera e protettiva sul suo diletto.
La piccola città infatti era molto lontana dalla capitale, nella regione orientale dell’impero, in mezzo ad una campagna scarsamente coltivata.
La ragione per cui la signora Törless doveva adattarsi a lasciare il figliolo in un paese cosí lontano e inospitale era che in quella cittadina si trovava un famoso collegio, sorto già nel secolo precedente da un’antica fondazione religiosa, e lasciato lí, certo al fine di salvaguardare i giovani, negli anni della loro formazione, dagli influssi corruttori di una grande città.
Quivi venivano educati i rampolli delle migliori famiglie del paese, per passare poi all’università o all’esercito o agli uffici statali, e per tutte queste carriere, come pure per far parte della buona società, la provenienza dal collegio di W. era una eccellente raccomandazione.
Perciò quattro anni prima i coniugi Törless avevano finito per cedere alle ambiziose insistenze del figlio, e l’iscrizione era stata chiesta e ottenuta.
Tale decisione era costata in seguito molte lacrime, giacché fin dal momento in cui le porte dell’istituto s’erano chiuse irrevocabilmente alle sue spalle, il piccolo Törless aveva sofferto di una terribile, struggente nostalgia. Né le ore di lezione, né i giochi sui vasti prati lussureggianti del parco, né le altre distrazioni che il convitto offriva ai suoi allievi poterono avvincerlo; egli vi prendeva pochissima parte. Vedeva tutto come attraverso un velo e anche durante il giorno faticava a inghiottire un singulto ostinato; la sera si addormentava sempre nel pianto.
Quasi ogni giorno scriveva lettere a casa, e viveva solo in quelle lettere; tutte le altre sue azioni gli parevano eventi fantomatici e senza senso, stazioni indifferenti della sua strada, come le ore sul quadrante di un orologio. Quando scriveva, invece, sentiva in sé qualcosa di esclusivo, qualcosa che lo distingueva; un’isola di soli e colori meravigliosi s’alzava in lui dal mare di sensazioni grige che lo cingeva freddo e inerte giorno dopo giorno. E quando durante i giochi o le lezioni pensava che la sera avrebbe scritto la sua lettera gli sembrava di portare al collo una catenella invisibile con una chiave d’oro che gli avrebbe aperto, appena rimasto solo, i cancelli di incantati giardini.
Lo strano era che quella improvvisa divorante tenerezza per i genitori appariva anche a lui nuova e sconcertante. Prima non aveva davvero immaginato nulla di simile; era partito per l’istituto lietamente e di sua volontà, anzi aveva riso quando la mamma alla loro prima separazione non era riuscita a trattenere le lacrime; e solo piú tardi, dopo che già da alcuni giorni era solo, trovandosi relativamente bene, era esplosa in lui con forza repentina ed elementare.
Egli credeva che si trattasse di nostalgia, desiderio irresistibile dei suoi genitori. In realtà era qualcosa di molto piú indefinibile e complesso, giacché l’oggetto di quel desiderio, l’immagine dei genitori, aveva cessato, in fondo, di trovarvi posto. Intendo dire quel certo ricordo plastico di una persona amata, non soltanto della memoria ma fisico, che parla a tutti i sensi, cosí che non si può fare nulla senza sentirsi al fianco l’altra persona silente e invisibile. Questo svaní presto come una risonanza che vibra non molto a lungo. Törless, ad esempio, non poteva piú evocare l’immagine dei suoi «cari, cari genitori», come era solito chiamarli nei suoi pensieri. Se ci si provava, sorgeva in lui soltanto la sofferenza infinita, il desiderio che lo torturava e tuttavia lo avvinceva, perché le sue ardenti fiamme lo facevano penare e gioire insieme. Cosí il pensiero dei genitori divenne sempre piú un’occasione, un pretesto per suscitare in sé quell’egoistica sofferenza che lo racchiudeva in un orgoglio voluttuoso come nella clausura di una cappella, dove da cento candele accese e da cento occhi di immagini sacre si sparge l’incenso fra gli spasimi dei flagellanti.
In seguito, quando la nostalgia divenne meno violenta e dileguò a poco a poco, il suo reale carattere si rivelò abbastanza chiaramente. Perché nell’anima del giovane Törless non sopravvenne l’attesa contentezza, sibbene un gran vuoto. E a questo nulla, a questa vacuità che si sentiva dentro, egli capí che aveva perduto non una semplice nostalgia, ma qualcosa di positivo, una forza spirituale fiorita in lui sotto il mantello del dolore.
Ma adesso era tutto finito, e quella fonte di sublime beatitudine si era fatta conoscere solo quando si era inaridita.
A quel tempo sparirono dalle sue lettere i segni appassionati dell’anima che si andava svegliando e furono sostituiti da particolareggiate descrizioni della vita in collegio e delle nuove amicizie.
Egli stesso si sentiva povero e nudo, come un alberello che dopo la prima fioritura ancora senza frutto sperimenta il primo crudo inverno.
I genitori invece erano contenti. Lo amavano di una tenerezza forte, irriflessiva, animale. Ogni volta che egli ripartiva dopo le vacanze la casa sembrava alla signora Törless vuota e deserta, per parecchi giorni ella girava per le stanze con le lacrime agli occhi, accarezzando qua e là un oggetto che il ragazzo aveva toccato o contemplato. Padre e madre si sarebbero lasciati fare a pezzi per lui.
La commozione un po’ goffa, la pervicace appassionata tristezza delle sue lettere li aveva angustiati e tenuti in uno stato di continua tensione e ipersensibilità; la gaia spensieratezza che venne dopo riportò anche a loro la serenità, e sentendo che una crisi era stata superata essi incoraggiarono con tutte le loro forze la nuova disposizione d’animo.
Né in una fase, né nell’altra essi riconobbero il sintomo di una precisa evoluzione psicologica; al contrario essi accettarono tanto l’angoscia quanto l’acquietamento come una conseguenza naturale delle circostanze. Non afferrarono che il giovane, da solo, aveva fatto il suo primo tentativo sfortunato di sviluppare le proprie forze interiori.
Törless adesso si sentiva molto scontento e brancolava invano cercando qualcosa di nuovo che potesse essergli di sostegno.
In quel periodo vi fu un episodio, significativo di qualcosa che si andava preparando in lui e che ebbe in seguito il suo sviluppo.
Un giorno fece il suo ingresso nell’istituto il giovane principe H., che proveniva da una delle famiglie piú antiche, piú influenti e piú conservatrici dell’impero.
Tutti gli altri giudicarono noiosa ed affettata la sua espressione soave; e derisero come un’effemminatezza il vezzo di sporgere l’anca, quando stava fermo, e di giocare languidamente con le dita mentre parlava, ma soprattutto eccitò il loro scherno il fatto che non i genitori l’avessero accompagnato in convitto, bensí un dottore in teologia e membro di un ordine religioso, che era stato fino allora suo precettore.
Törless invece ne aveva avuto fin dal primo momento una profonda impressione. Forse contava anche la circostanza che egli fosse un principe appartenente alla Corte; ad ogni modo per lui era la conoscenza con una persona di un tipo interamente nuovo.
La quiete di un antico e nobile castello di campagna, di pii esercizi, sembrava essergli rimasta attaccata. Egli camminava con movimenti morbidi e sciolti e con quella ritrosia un po’ schiva che deriva dall’abitudine di incedere con portamento molto eretto attraverso una fuga di saloni deserti, mentre gli altri hanno l’aria di andare a sbattere pesantemente contro spigoli invisibili dello spazio vuoto.
Cosí la consuetudine col principe divenne per Törless una fonte di squisito godimento psicologico. Pose in lui le basi di quella conoscenza della natura umana che insegna a riconoscere e ad apprezzare un’altra persona – fino ad anticiparne l’individualità spirituale – dalla cadenza della voce, dal modo di prendere un oggetto, perfino dal timbro del suo silenzio e dall’espressione dell’atteggiamento con cui si inserisce in uno spazio, in breve da quella maniera mobile, quasi non tangibile e tuttavia essenziale e completa, di essere uomo e spirito: la quale racchiude il nocciolo nel suo aspetto palpabile e vagliabile come la carne racchiude lo scheletro.
Durante quel breve periodo Törless visse come in un idillio. Non lo irritava la religiosità del suo nuovo amico, che a lui, appartenente a una famiglia borghese di liberi pensatori, era del tutto estranea. L’accettò senza difficoltà, anzi gli pareva addirittura un particolare pregio del principe perché ne avvalorava la perso...
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