Sarebbe facile dimostrare che la mia vita è stata povera di successi, nel campo finanziario come in quello amoroso. Ma nessuno potrebbe sostenere che è stata povera di eventi.
Gli eventi ultimamente erano stati cosí tanti da convincermi di aver esaurito la scorta di congiunture assurde che mi era stata assegnata, al punto di trovarmi con la legge delle probabilità a mio favore: la mia esistenza futura sarebbe stata relativamente tranquilla. Almeno fino all’arrivo della vecchiaia, quando avrei preso dimora in una scatola di cartone sotto un cavalcavia della Statale 59, cacando dietro i cespugli e leccando la salsa avanzata dall’involucro dei Big Mac.
Era il modo in cui credevo che la maggior parte di noi, venuti al mondo durante il boom delle nascite, avrebbe terminato la corsa. Niente assistenza medica. Niente assicurazione. Niente milioni di dollari messi via per la vecchiaia. Forse non avremmo avuto neppure la scatola di cartone, e non era una certezza neanche il cespuglio dietro il quale fare la cacca.
L’età del rimbambimento per me era ancora lontana, ma comunque molto piú vicina di quanto mi piacesse pensare. C’erano giorni in cui speravo di non raggiungere la meta geriatrica della scatola di cartone, rigida e sporca sotto un cavalcavia, con un involucro di Big Mac stretto in mano. Ma neppure desideravo passare nell’aldilà sul letto bianco di una casa di riposo, con un piatto di purè di piselli sul vassoio e un tubo di plastica nell’uccello.
Il mio migliore amico, Leonard Pine, diceva sempre che avrebbe voluto andarsene steso sul letto, ascoltando una canzone di Pasty Cline. Oppure crepando dal ridere guardando gli ultimi quindici minuti del campionato di wrestling alla tivú.
Io non avrei scelto nessuna delle due maniere. Quando ero triste e pensavo a come sarei uscito di scena, speravo di morire tra le gambe di una rossa selvaggia, cercando di fare una doppia in una fredda notte d’inverno, con il suo respiro caldo nelle orecchie e le sue unghie piantate nel mio culo, come puntine da disegno su una bacheca di sughero.
Sarebbe pure potuto succedere.
In quel periodo frequentavo una rossa selvaggia. Era sulla quarantina, come me, e anche lei aveva avuto una vita piena di eventi unici, tra cui l’aver dato fuoco alla testa dell’ex marito e averlo aiutato a diventare piú intelligente a colpi di badile. Ma benché non fossi mai tranquillo quando la vedevo vicino ai fiammiferi o agli attrezzi da giardino, morire tra le sue gambe non mi sembrava il modo peggiore di andarmene, perciò cercavo di starle accanto il piú possibile, chiedendomi se avrei sentito un mormorio o se avrei visto la vita passarmi davanti agli occhi in un attimo.
Speravo soltanto, se fosse davvero arrivato il momento, di riuscire a rimandare l’inevitabile almeno per il tempo necessario a venire come un coniglio.
Ma le rosse hanno qualche difetto. Possono portare guai e incasinare la legge delle probabilità anche senza esserne direttamente responsabili. I guai stanno loro attaccati come il prosciutto al culo di un maiale, e spesso saltano addosso pure a chi sta loro vicino.
So che questo suona un po’ di astrologia – la parte sulle rosse, voglio dire, non quella sul prosciutto –, ma se aveste passato quello che ho passato io, sareste sicuramente propensi a crederci. E anche se io in generale non ci credo, be’, in quell’occasione dovevo tenerne conto.
Tutto iniziò un giorno in cui mi trovavo nel granaio di Leonard per mettere a posto la mia roba, rimasta in deposito lí per alcuni mesi.
Leonard possedeva un’altra casa in città, e quando un tornado aveva spazzato via la mia, io avevo traslocato nella sua vecchia casa di campagna, il che non era affatto male. Poi lui aveva venduto l’appartamento di città a un ottimo prezzo ed era tornato a vivere in campagna, e ora eravamo coinquilini.
Francamente, non mi piaceva. Certo, la casa non era mia, ma intanto ero passato dalla camera da letto al divano, e Leonard mi costringeva perfino a pulire piú del necessario.
Avevamo abitato insieme anche in passato per brevi periodi, ed era andato tutto bene. Ma ormai mi ero abituato a stare da solo, e non ero molto contento. E quel che è peggio, da come si evolvevano le cose, c’era il pericolo che da un giorno all’altro andassi a vivere con la mia rossa. Brett me lo aveva già chiesto e io volevo davvero farlo, ma considerati tutti i problemi sorti con Leonard, che pure conoscevo da tanti anni, l’idea di abitare con un’altra persona mi spaventava sul serio. Mi preoccupavano le macchie sulle mutande, i calzini spaiati, le scoregge, i rutti e la puzza nel bagno.
Avrei voluto che casa mia fosse ancora in piedi.
Avrei voluto non essere cosí rigido nel mio modo di vivere.
Avrei voluto persino trovare una roulotte a buon prezzo e trasferirmi sul terreno dove una volta sorgeva la mia casa. E se sapeste quanto detesto l’idea di stare in una roulotte, uno di quei rettangoli di alluminio e compensato che attirano i tornado come calamite, capireste quanto ero disperato.
Poi c’era l’altro lato della mia personalità, quello che desiderava una relazione importante. Quando non c’era una donna nella mia vita ero sempre triste e imbronciato, e mi bastava guardare le mosche che scopavano per arraparmi. Ora avevo incontrato una persona con tante cose da offrire, oltre al sesso: intelligenza, senso dell’umorismo, fuoco e badili. Il sogno di molti uomini di mezza età. Eppure esitavo.
Forse, pensandoci bene, ero semplicemente incapace di essere felice.
Comunque, quel giorno ero in ginocchio, intento a mettere a posto le mie cose nel granaio di Leonard, una baracca di legno grigia e un po’ cadente con il pavimento sporco. La mia roba era sistemata in scatole di cartone, e stavo cercando di decidere cosa tenere e cosa buttare via. Durante il tornado, gran parte di ciò che possedevo era andato distrutto. Poi ci si erano messi anche i topi, e vari vestiti e carte erano stati mangiucchiati.
Avevo iniziato a smistare un po’ tutto quello che ero riuscito a raccogliere dopo l’uragano. Avevo paura non tanto di ciò che avrei trovato, quanto di ciò che non avrei trovato. Una parte della mia vita non c’era piú.
Il ciclone aveva soffiato via la mia roba fino all’inferno, o peggio, magari fino a New York. Forse lassú a nord qualche yankee stava leggendo uno dei miei libri, o rideva guardando le mie foto. Forse i miei pantaloni preferiti erano appesi ai rami di un albero, e la mia collezione di dischi giaceva in fondo a un lago. Era un pensiero troppo deprimente.
Avevo appena gettato nella spazzatura una serie di volumi rovinati quando entrò Leonard, tuta da ginnastica e due tazze di caffè in mano. Sembrava appena uscito dalla doccia. I capelli corti e mossi gli brillavano, e il viso pareva di ebano lucido. Il sole gli splendeva dietro dalla porta aperta, e vedevo il vapore del caffè mescolarsi al pulviscolo nell’aria. Leonard disse: – Allora vai a vivere con lei?
Mi alzai in piedi, scuotendomi la polvere dalle mani. Lui mi passò una tazza. – Non lo so, – dissi, e bevvi un sorso di caffè. Era buono. Doveva averci messo anche del cacao.
– Dovresti farlo.
– Stai cercando di liberarti di me?
– Non posso negarlo. Da quando sei qui, questa casa è un bordello.
– Come se prima fosse stata chissà che.
– Be’, sarà pure una baracca, ma è messa molto meglio della tua, che, vorrei sottolineare, ormai è ridotta a una specie di puzzle gigante di cui mancano pure un sacco di pezzi.
– Touché.
– E il modo in cui ti comporti… Credi che mi piaccia vedere i tuoi cassetti puzzolenti appoggiati sui braccioli del divano? E le tue scarpe in mezzo alla stanza, i calzini sporchi sotto la poltrona? Cristo, la casa puzza come se qualcuno si fosse pulito il culo in salotto e avesse nascosto la carta igienica usata sotto il tappeto.
– Stai esagerando.
– Va bene, allora le tue scarpe non sono proprio in mezzo alla stanza, ma circa un metro piú in là. Io comunque ci inciampo sopra lo stesso. Adesso vuoi dirmi di Brett? Vai a stare con lei o no?
– Sono rimasto scottato cosí tante volte, in amore, che non ho molta voglia di riprovarci.
– È vero, ma le storie che hai avuto finora erano tutte stupide, questa invece no.
– Brett ha appiccato il fuoco alla testa del marito, e gli ha pure incendiato la macchina.
– Non dimenticare che lo ha anche preso a badilate in testa e che lui ora si trova in un istituto per malati mentali, dove ci mette ore a decidere se con il cappello di carta è meglio indossare i calzini blu o quelli grigi.
– Già, c’è anche questo.
– Forse lei avrebbe dovuto lasciar perdere la macchina, Hap, però per come la vedo io, quel figlio di puttana se l’è voluta. E Brett non gli ha bruciato tutta la testa, ma solo una parte. Il marito la picchiava regolarmente, un giorno lei ne ha avuto abbastanza e gli ha dato fuoco.
– Per te è normale. Sei un incendiario.
– Non cercare di cambiare discorso. Poi la legge mi ha lasciato andare, no?
– È stato un miracolo.
Lo era stato davvero. Leonard aveva bruciato tre case dove si tenevano party a base di crack, e tutte e tre le volte era riuscito a non farsi beccare. In una occasione lo avevo aiutato anch’io, perciò non potevo fare troppo il signorino.
– E hanno lasciato andare pure Brett, no? – disse Leonard.
– Il giudice era un pervertito, e lei era giovane. Si presentò al processo in short e corpetto scollato. Mi sorprende che non le abbiano consegnato anche le chiavi della città. A giudicare da com’è adesso, allora doveva essere un vero spettacolo.
– Essendo frocio, mi è difficile giudicare l’aspetto di una donna, ma Brett sembra avere le curve giuste al posto giusto.
– Già.
– E vi trovate bene insieme, no?
– Sí. È divertente. Mi piace starle intorno. È come se tra noi ci fosse qualcosa di piú profondo del sesso, anche se, mi affretto ad aggiungere, non voglio assolutamente sottovalutare l’importanza delle scopate.
– Dunque qual è il problema?
– Non voglio scottarmi di nuovo.
– Hap, metterti nei casini è la cosa che sai fare meglio. E se non sei disposto a rischiare, non avrai mai nulla di buono dalla vita. È cosí che va il mondo, secondo Leonard Pine. E tieni presente che a me è capitato di peggio, eppure eccomi qui, di nuovo in cerca d’amore. La nostra specie è fatta cosí.
– Siamo una specie stupida.
– Sí, ma capisci cosa voglio dire?
– Che anche tu sei un casinista come me?
– Come te no, nessuno arriva al tuo livello, Hap. È che tutti fanno dei casini, nelle loro storie. L’unica differenza è che per te i tuoi casini sono molto piú importanti di quelli degli altri. C’è una strana presunzione, in questo.
– Forse hai ragione.
– Bene. Allora perché non dici a Brett che vuoi andare a vivere con lei?
– Perché non ne sono ancora sicuro.
– Oggi devi vederla, no?
– Sí.
– E lei sta aspettando una risposta, no?
– Sí.
– Allora dagliela.
Bevvi il caffè, rimasi ancora un po’ a mettere a posto la mia roba, poi indossai anch’io una tuta e andai a fare jogging con Leonard, lungo la via che passava davanti a quella che era stata la mia casa. Ora c’era soltanto una vasca da bagno, l’unica a non essere stata divelta. Per fortuna, perché Brett ci si era nascosta.
Era triste passare da lí, ma quella vasca da bagno rappresentava anche un bel ricordo. Ci avevo trovato Brett, dopo il tornado. Ci eravamo stretti dentro insieme, e quando aveva smesso di piovere eravamo rimasti abbracciati sotto le stelle. All’alba, prima che il sole uscisse del tutto, avevamo fatto l’amore.
– Sei un culo di piombo, – disse Leonard.
– Sto ingrassando.
– L’ho notato. Troppi bomboloni alla crema, troppi spuntini notturni.
– È un’abitudine. Mangio quando penso a Brett. Penso a come sarebbe se non vado a stare con lei, e mangio. Penso di andare a stare con lei, e mangio ancora di piú.
– Secondo me, Hap, amico mio, mangi e basta.
– Detesto quando hai ragione.
Arrivammo fino a un certo punto, poi tornammo indietro. Era un fresco mattino di settembre che an...