Per un attimo, mi sono chiesta dove fossi.
Da una fessura fra le tende filtrava un po’ di luce. La suoneria della sveglia posata accanto al mio letto − ri, ri, ri − andava aumentando di frequenza. Quando è diventata un riririririri continuo, finalmente ho allungato una mano verso l’orologio.
Con la mente ancora offuscata dal sonno, mi sono resa conto che non mi trovavo piú nell’alloggio nello stesso quartiere della «bottega Nakano», ma in un monolocale meno spazioso, però comodo perché situato a soli cinque minuti di cammino dalla stazione del treno, al secondo piano di un piccolo condominio dipinto di bianco.
Sono già due anni che mi sono trasferita qui.
Scendo dal letto e mi avvio verso il bagno, sbattendo le palpebre. Mi lavo la faccia e i denti. Il tubo di crema struccante che ho usato ieri sera è rimasto aperto. Cerco il tappo con gli occhi e lo vedo in un angolo del lavandino quadrato. Lo riavvito al tubo.
Prendo dal frigo una lattina di succo di pomodoro. Sollevo la linguina, che fa uno scatto. Bevo direttamente dalla lattina. Dato che ho dimenticato di scuoterla, all’inizio il succo è quasi solo acqua, poi diventa molto denso.
Dalla mia frangetta cadono delle gocce d’acqua. Quando finisco di bere sciacquo la lattina e la poso sullo scolapiatti, poi mi guardo velocemente nel piccolo specchio accanto al letto. Ho i lobi delle orecchie arrossati: li tocco, sono freddi.
Quando apro la finestra, entra il vento. Un freddo vento invernale, carico di pioggia. Mi affretto a chiudere, poi indosso una camicia a maniche lunghe e un collant spesso, una gonna pesante e una maglia. Tiro fuori dallo scaffale in alto dell’armadio a muro il cappotto beige che ho comprato due settimane fa in un mercato, e lo getto sul letto.
Di nuovo mi volto verso lo specchio, prendo con un dito un po’ di fondotinta e lo stendo a piccoli tocchi sulle guance, sulla punta del naso e sulla fronte. Mi sono abituata subito ad andare al lavoro su treni affollati, a mantenere le distanze dalle impiegate a tempo indeterminato, a utilizzare Excel, ma per truccarmi ogni mattina devo proprio fare uno sforzo.
Quando lavoravo alla «bottega Nakano», non ero quasi consapevole dell’esistenza di una cosa che si chiama fondotinta. Mettevo un po’ di tonico sulla faccia con qualche pacca, se ne avevo voglia un velo di lucidalabbra colorato, e niente di piú.
Da quando il signor Nakano ci ha «liberati», sono passati quasi tre anni.
E da quasi sei mesi lavoro in questo posto. Una ditta che produce prodotti dietetici, nel distretto di Shiba.
Mi hanno rinnovato il contratto già due volte, ma non credo che ce ne sarà una terza. Mi trovo bene, qui, ma mi devo rassegnare.
Mentre mi do energiche pennellate di fard, muovo le spalle. Ho sempre i muscoli delle spalle rigidi, forse perché passo diverse ore al giorno davanti allo schermo di un computer. Sabato prossimo voglio provare il salone di massaggi che ha appena aperto davanti alla stazione. Questo pensiero mi attraversa la mente mentre muovo le spalle in su e in giú.
Dopo molto tempo che non la vedevo, sono andata a bere qualcosa con Masayo.
– Lei impiegata in un ufficio, Hitomi? Da non crederci! – ha detto versandosi del sake caldo nella tazzina.
– Non mi hanno assunta a tempo indeterminato. Sono a contratto.
– Qual è la differenza?
Mentre glielo spiegavo, lei ascoltava annuendo ripetutamente con la testa. Ma sono sicura che ha subito dimenticato tutto.
Di questi tempi, dice di non avere un minuto libero. Una delle sue bambole ha vinto un premio piuttosto prestigioso nel settore.
– Un premio di soli cinquantamila yen, si figuri, – ha detto. – Comunque serve a farsi un nome, – ha aggiunto sollevando a metà le sopracciglia.
Il risultato di tanta gloria, è che le hanno chiesto di tenere un corso in un centro culturale del quartiere, e due presso associazioni comunali di altre zone della città, quindi tre in tutto.
– È per questo che ho tanto da fare, non ne posso piú! – è sbottata Masayo fumando una Seven Stars. Aveva davvero l’aria contrariata.
– Sí, ma guadagnare è una bella cosa –. Alla mia risposta lei ha riso.
– Ecco che adesso parla come una madama.
– Perché ormai lo sono.
– Se ha appena trent’anni! Non se la tiri tanto, per favore.
A un certo punto abbiamo brindato, senza un motivo particolare.
– Alla madamizzazione di Hitomi! Salute! – Dopo aver detto queste parole, Masayo ha vuotato d’un fiato la sua tazzina di sake.
– La smetta di prendermi in giro, per favore, – ho risposto finendo lo shōchū che mi restava nel bicchiere. Ho sentito scendere in gola un liquido tiepido dal gusto aspro di prugna.
Ricordo bene che voce aveva Masayo quando mi ha telefonato dicendo: – Ho saputo che si è trasferita.
Avevo lasciato da poco l’alloggio dove stavo prima.
– Ho ricevuto il biglietto col nuovo indirizzo, – ha aggiunto. Ne avevo mandati una decina, tutti scritti a mano, e uno di questi a lei. Quanto al signor Nakano e a Takeo, dopo averci pensato su un bel po’, avevo deciso di non dir loro nulla.
– Ho speso tutte le mie poche economie –. Dall’altra parte del filo Masayo ha fatto un sospiro significativo. Fin dall’inizio ho trovato la sua voce esageratamente cortese.
– È stata un’ottima cosa, trasferirsi.
– Mah! Lei trova?
– Sí. Un’ottima cosa.
Stavamo parlando di argomenti senza importanza, eppure la voce di Masayo suonava diversa dal solito. Per un po’ abbiamo continuato a scambiarci osservazioni sul tempo e altre banalità, e quando pensavo che era venuto il momento di metter fine alla telefonata, Masayo ha detto:
– La veglia funebre ha avuto luogo stasera, domani ci sarà il funerale.
– Come?
– Di Maruyama, – ha proseguito lei.
– Di Maruyama? – ho ripetuto come un pappagallo.
– Il cuore. Da tre giorni non avevo sue notizie, allora sono andata a vedere. Con questo freddo, era rimasto intatto, sembrava vivo –. Il funerale di Maruyama era stato organizzato da Keiko, l’ex moglie, e Masayo non aveva alcuna voglia di parteciparvi. – Ma è un dovere sociale. Ci andrei con Haruo, ma questa sera lui non può, deve assolutamente fare una consegna a un cliente. Senta, Hitomi, non mi farebbe il piacere di accompagnarmi lei?
Il tono di Masayo era molto suadente. Come quando un cliente entrava per la prima volta in negozio, dal signor Nakano, e lei cercava di convincerlo a comprare un oggetto qualunque.
– Sí, va bene, – le ho detto.
– Aah… – Masayo ha sospirato in modo eloquente. – Il proprietario dell’alloggio dove abitava ha fatto una scenata, pure lui! Certo che fino all’ultimo, con i padroni di casa non ha avuto fortuna, poveretto –. Mentre diceva queste parole, per un momento la voce di Masayo è tornata quella di sempre. Ma subito dopo ha continuato su un tono strano che non le avevo mai sentito, una specie di mormorio stupito: – È morto per davvero, sa, Maruyama… – Poi si è congratulata con me per il trasloco, e con questa conclusione poco conseguente ha messo fine alla telefonata.
«È morto per davvero, Maruyama». La voce stranamente dolce e addolorata di Masayo ha continuato a risuonare nella mia testa, come un disco rotto.
Quando sono arrivata all’ingresso della stazione dove mi aveva dato appuntamento, Masayo era già lí. Indossava un cappotto marrone e stivaletti di uguale colore. In testa aveva la stessa sciarpa che portava intorno al collo il giorno della «liberazione».
– È un abbigliamento corretto, per una veglia funebre? – non sono riuscita a fare a meno di chiederle, al che lei ha annuito con aria cupa. Seguendo il movimento della sua testa, la sciarpa oscillava lievemente.
– Se ci si veste a lutto stretto, si dà l’impressione di aver previsto la morte, alle veglie funebri è bene presentarsi cosí, – ha risposto. Poi mi ha osservata: io ero vestita di nero da capo a piedi, collant inclusi. Persino il cappotto era di una tinta nerastra.
– Ah, il lutto stretto è uno sbaglio? – ho chiesto timidamente. Di nuovo Masayo ha annuito senza esitare.
– Sí, appunto.
La veglia funebre aveva luogo in un palazzetto di pompe funebri a un quarto d’ora di cammino dalla stazione. Dato che si svolgevano contemporaneamente tre cerimonie − «famiglia Midorikawa», «famiglia Maruyama», «famiglia Akimoto» −, un gran numero di persone entrava e usciva.
– Meno male che c’è tanta gente, – ha detto Masayo mettendosi svelta in fila.
Di fianco all’altare, erano seduti con facce inespressive due coniugi di mezza età accompagnati da due bambine e una donna dai capelli bianchi che doveva essere Keiko, l’ex moglie. Le bambine indossavano entrambe l’uniforme di una scuola elementare privata del quartiere.
Evitando di incrociare lo sguardo di Keiko, Masayo, appena fatta la sua offerta, ha voltato le spalle all’altare. Subito dopo di lei ho acceso anch’io un bastoncino d’incenso, e intanto ho alzato lo sguardo sulla fotografia a colori di Maruyama sorridente: una foto di quando era molto piú giovane, perché intorno alla bocca e sulla fronte non aveva rughe, e i contorni del viso erano fermi e asciutti.
– Ha voglia di bere qualcosa, prima di tornare a casa? – ho chiesto a Masayo quando siamo uscite dal palazzetto, ma lei ha continuato a camminare imperterrita a passi decisi, senza fiatare.
– No, non fa niente, – ha detto dopo un bel po’. Dato che erano già passati cinque minuti, lí per lí non ho capito a cosa si riferisse, poi mi sono resa conto che era la risposta alla mia domanda.
– Cosí se n’è andato… – ho mormorato. Masayo si è limitata ad annuire in silenzio.
Abbiamo camminato fino alla stazione senza scambiarci una parola. Ho comprato il biglietto, e stavo per passare il tornello, quando alle mie spalle ho sentito Masayo dire:
– L’essere che piú amavo al mondo –. Non era né un bisbiglio né un grido, soltanto il seguito di una conversazione.
Sorpresa, mi sono voltata.
– L’essere che piú amavo al mondo, – ha ripetuto allora Masayo, con la stessa espressione cupa sul viso.
La guardavo, ma lei non ha aggiunto nulla. Era l’ora in cui la gente torna dal lavoro, e molte delle persone che uscivano dai tornelli passando ci urtav...