Le certezze del dubbio
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Le certezze del dubbio

  1. 176 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
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Le certezze del dubbio

Informazioni su questo libro

Una provocazione, un furto in casa di conoscenti, ecco l'evento che apre a Goliarda Sapienza le porte del carcere romano di Rebibbia. Accolta con sospetto dalle compagne di cella per i mocassini alla moda e la camicetta di seta che indossa, la scrittrice comprende presto, però, che in prigione, dove ipocrisie e illusioni vengono meno, può finalmente essere se stessa. Ben piú amara è la scoperta di quanto sia difficile tornare alla vita quotidiana, quando poche settimane dopo viene rilasciata, a un mondo che non capisce il diverso e non perdona gli errori. Romanzo di febbre e d'intelligenza, Le certezze del dubbio racconta, attraverso una scrittura corporea, il passaggio a quel nuovo mondo che è la città, e insieme la rivelazione che la solidarietà, l'amicizia e il calore sono possibili anche al di fuori delle mura circondariali.

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Informazioni

Editore
EINAUDI
Anno
2013
Print ISBN
9788806211721

Goliarda Sapienza

Le certezze del dubbio

A cura di Angelo Pellegrino

Einaudi

Da quando m’avevano sbattuta fuori dal carcere in attesa di giudizio avevo preso anch’io a percorrere quelle piccole strade lastricate di sampietrini che ininterrotte conducono dall’esterno di piazzale Clodio dentro il nuovo Palazzo di Giustizia: quel percorso stava a significare (nella mente progressista dell’architetto) che ormai la giustizia era scesa dal suo trono inaccessibile e segreto e si svolgeva per le strade, sotto gli occhi di tutti, alla portata di chiunque avesse voglia di prendere parte alla cerimonia… Cosí andavo rimuginando fra me e me, ridendomela di quell’ennesima utopia novecentesca che andava a rotoli. Ora transenne e veri e propri muri di toraci e braccia cariche di armi da fuoco sbarravano il passo ogni quattro, cinque metri!
Mi divertiva talmente sfottere quell’architetto, il suo dannoso liceo classico, le sue inutili letture kafkiane, eccetera (era come ridere di me stessa), che stavo per sorpassarla quando una risata familiare mi blocca davanti alla IIª sezione penale. Sarà qualche coattona che frequenta il «Governo Vecchio» mi dico, e su al secondo piano mi aspettano. Non di meno il mio passo rallenta e il mio sguardo si accinge a scrutare bene in quel particolare gruppetto dove lei, i grandi occhi bruni fissi in un’ammirazione assoluta della bella testa dell’avvocato Rocco Ventre, ride della sua strana risata di un tempo. Non è passato che un anno da quando ho ascoltato per l’ultima volta quel suo ridere infantile e rauco nello stesso tempo, eppure è come se le modulazioni di quella voce sortissero da un passato cosí remoto da dare brividi di paura ultraterrena. È Roberta!, realizzo, la compagna della cella 27, mia prima residenza stabile a Rebibbia! Roberta deve aver sentito il mio sguardo perché per un attimo le sue pupille orlate d’ali di farfalla hanno un lieve moto verso di me prima di tornare a fissare ancora piú intensamente l’oggetto della sua ammirazione.
Non mi ha riconosciuta! Tanto vale proseguire per la mia strada. Forse è il destino di chi si è incontrato in carcere. Anche nei viaggi avviene lo stesso: ci si scambia indirizzi, numero di telefono, ci si assicura che non si potrà fare a meno di rivedersi ma poi, tornati alla vita di tutti i giorni, si dimentica. Con un ultimo sguardo indifferente su di lei e il suo gruppetto, cosí che non si senta in dovere di riconoscermi, le volgo le spalle e filo via, su al secondo piano dove l’avvocatessa Tina Lagostena Bassi difende l’ennesima ragazza stuprata. È per questo che sono qui, mi dico, sono stata inviata dalla mia boss di «Quotidiano Donna» per un articolo… Ho detto boss ma è una donna dolcissima con fianchi generosi, pelle di latte e sguardo avvolgente che lasciamo andare! E poi ho appuntamento con Ginevra, altro pezzo di ragazza che non dico! Eh, caro Fellini, l’epoca delle tue femministe trucide è finita, e non vorrei essere nei tuoi panni!
Quando entro nell’aula purtroppo Tina ha già iniziato da tempo la sua arringa, e anche se Ginevra con la quale avevo appuntamento mi fissa sbalordita per il mio ritardo (il mio organismo preindustriale è stato cosí ben inchiavardato all’idea del «ritardo come delitto» che non c’è modo di allentarne qualche vite!), io come posso cerco di ignorarla e con lei tutte le dannate femminucce, donnette, prefemministe o postfemministe che il fottuto dio dell’ideologia m’ha fatto incontrare! Sempre cosí, quando qualcuna di loro mi delude me la prendo con tutte: un mio metodo per soffrire meno. Chi se l’aspettava dopo tanta vicinanza in una cella (tre metri per tre e mezzo!) di non essere nemmeno riconosciuta! Fosse stata Barbara, cosí passionale, emotiva l’avrei potuto anche capire. Ma Roberta, cosí consapevole, cosí fredda e ideologica! E ci siamo pure scritte dopo quando io ero fuori e lei ancora dentro.
Come posso cerco di buttarmi anima e corpo in quel mare sonoro ora in tempesta, ora calmo e sereno che è la voce di Tina, con il fermo proposito di annegarci per una buona volta e dimenticare. Ma non ci riesco. E quando Ginevra finalmente mi trascina fuori dall’aula tra la folla animata che commenta il processo, l’entusiasmo di tutti per l’arringa di Tina è cosí assoluto e coinvolgente che mi fa dimenticare quell’incontro assurdo – solo sognato? – di qualche ora prima. Conquistata la mia «dimenticanza», ultima dea che assiste i sofferenti!, senza sospetto distolgo gli occhi per un attimo da Tina per salutare un vecchio amico, quando all’improvviso, come uscita dal mantello nero del solito prestigiatore in smoking e cilindro, Roberta mi si para davanti. Ma di spalle, questa volta, intenta a parlare fitto fitto con qualcuno dalla statura tarchiata, paterna, i capelli bianchi, lo sguardo limpido in apprensione, ancora piú paterno – se possibile – del suo grande torace. Non potevo riconoscerla, mi dico: là in galera sembrava piú robusta (per la limitazione costante dello spazio che ci circondava?) ed era bionda, di un biondo cosí naturale da non creare sospetto di finzione. Come faceva? Ma già che c’era la parrucchiera a Rebibbia! Il ricordo di quella parrucchiera mi fa ridere, e accetto di seguire Ginevra a casa sua dove – dice – una ricca colazione ci aspetta.
Improvvisamente affamate ci avviamo giú per le scale. È giusto cosí! È Ginevra che devo seguire e non effimere nostalgie carcerarie. La mia vita è con Ginevra che sa combattere per le sue idee ma tenendo sempre conto del valore della libertà e, perché no, della gioia di vivere. E poi quella figurina avvolta in quel paltoncino nero da studentessa perbene nella quale ho creduto di rivedere Roberta, quei gesti compiti quasi timidi sono cosí lontani dalla ragazza coraggiosa e altera che ho conosciuto a Rebibbia, da quegli stracci appassionati che sempre indossava, che probabilmente non vale piú la pena riavvicinarla.
Appena fuori dalle viuzze del Palazzo di Giustizia il piazzale Clodio rutilante di vetrine, autobus, macchine, sole, nubi, vento (c’è sempre vento e fretta in quella piazza) ci aggredisce con tale ferocia che per un attimo ci fermiamo a prendere fiato sotto la pensilina del Bar Rosati 2.
Io mi accendo una sigaretta e devo avere un’aria che non vorrei perché Ginevra mi chiede: – Che c’è, Goliarda? Non stai bene? Hai una certa aria strana che ti conosco…
Che posso rispondere? Sto zitta e fumo.
– Che sciocca! – continua lei convinta di aver capito tutto (questo è il vero guaio dei rapporti d’amicizia, d’amore, di parentela: ognuno è convinto di sapere sempre tutto dell’altro!) – … Non ti va di venire a colazione! Dimenticavo che detesti le colazioni con tavole apparecchiate, eccetera. Che sciocca! Ma se non vuoi non fare complimenti.
Non è la colazione che mi turba, anzi la sua casa in questo momento mi appare come un rifugio, una fortezza inespugnabile nella quale mettersi al sicuro. Ma visto che lei mi conosce piú di quanto io conosca me stessa, non la deludo e biascicando: – Hai capito tutto! Ci vediamo un’altra volta, grazie! – faccio dietrofront e mi infilo nel bar dove per la terza volta mi riappare la figuretta in nero, amorevolmente pilotata ora dalla manona bonaria del suo papà timoroso di vederla investire dal traffico. Fingo di non notarli e m’avvio dritta al bancone di mescita.
Sorbito il mio caffè, malgrado me stessa, mi avvicino alla coppia «perbene» di padre e figlioletta e senza sorridere dico: – Ciao Roberta, non ero sicura che fossi tu e cosí…
A queste parole un grande sorriso mi viene incontro riportandomi la sua immagine di un tempo intatta cosí come la sua voce: – Ciao Goliarda! Io invece t’ho riconosciuta subito! Ti presento Albert! Albert, questa è Goliarda… Mio padre? No, quello chissà dov’è al momento! Albert il porteur, il mio amico fidato di «fuori». Te ne ho parlato tanto!
– Ah sí! – esclamo io, ricordando tutto a tal punto che per un attimo ho l’impressione di sentire l’odore, le voci della nostra cella: – Ah sí, piacere.
– Piacere, signora, Roberta mi stava proprio raccontando di lei…
Continua a parlare ma io non riesco ad ascoltarlo: una gioia densa come onda calda d’estate ha invaso il mio torace stranamente, e cosa ancora piú strana non mi meraviglia.
– Le posso offrire qualcosa? – mi chiede compito Albert con voce romana educata, i grandi occhi sensibili che sarebbero belli se non fossero un po’ troppo tondi e di un celeste un po’ troppo chiaro.
Non ho voglia di niente: la gioia leva la fame, si sa, e meccanicamente dico: – Un caffè, grazie.
L’ennesimo caffè della mattinata deve aver colmato la misura della mia sopportazione biologica verso quella materia perché una grande ansietà si impossessa delle mie membra mentre osservo Roberta che, incurante ormai del suo casto cappottino, il nasetto letteralmente spiaccicato sul bancone dei dolci, a voce altissima, ordina una vera montagna di cannoli, bignè, tortine alle mele che si ammucchiano davanti a lei per poi rapidamente – cosí come sono apparsi – sprofondare nella sua bocca. Nell’esercizio di ingoiare dolci il rossetto è sparito e al suo posto crema e panna sostano indisturbate.
– Pulisciti la bocca! – dice piano Albert con voce paterna. È inutile che Roberta lo neghi, quello è il suo genitore. È chiaro da come la segue con lo sguardo mentre lei con gesti da ragazzina sguaiata già corre lungo le vetrine a caccia di altri dolciumi: questa volta preconfezionati.
Il bombardamento a tappeto a cui quell’ultimo caffè ha sottoposto il mio organismo finalmente si placa alla constatazione che la Roberta che avevo conosciuto in carcere non esisteva, e una strana calma si impossessa di me. Quella Roberta era un miraggio creato dalle sirene carcerarie per confondermi e farmi sognare – una volta fuori – stronzate, mi dico, aggiungendo ferocemente (è un mio vizio quello di sorprendermi in colpa e infierire su me stessa): sei la solita stronza idealista fottuta degna solo di quell’epoca ingenua prebomba atomica nella quale sei nata e dei suoi vari Fronti popolari, Il porto delle nebbie, Jean Gabin, eccetera. È ora che fili a casa e cerchi di tornare al reale che poi sarebbe: trovarmi un lavoro decente… perché da anni non ho una lira e non si può continuare cosí!
– Ora sí che sto bene! – mi esclama all’orecchio una voce che si confonde col mio delirio di autoflagellazione prefreudiano.
– Bene cara, – dico volgendomi (credo fredda) verso quella ragazzina infoiata di dolcetti che mi sta davanti… Non la guardo in viso, fisso in terra dove – non c’è scampo – il mio sogno di una Roberta «eroica» si finisce d’infrangere su due gambette graziose sí ma calzate da scarponcini cosí baby look da farmi finalmente scoppiare in una grossa risata.
– Senti, senti Albert, come a Rebibbia! Lo senti come ride? Anche in cella ogni tanto se ne usciva con queste risate, non è favolosa? Ridere cosí in un posto trucido come quello sí ch’è fichissimo!
Anche lei ride ora, e mi pare di scorgere in quella caduta di massi paurosa e attraente la Roberta di un tempo. Ma non ci casco piú, e come posso cerco un motivo plausibile per salutarli e svignarmela.
– Che ore sono? – chiedo al «padre», e lui fissando un rolex d’oro come fosse un orologino di plastica ma bene attento a mostrarlo: – L’una e mezzo.
– Ah! È tardissimo! Sono invitata a colazione e devo andare! Sono felice di averti rivista (quel felice si dice sempre al posto di: delusa o scontenta), Roberta! – Oh anch’io, Goliarda! – Spero di rivederti presto. – Certo.
– Bene, telefona se vuoi. – Anche tu… hai il mio telefono. – Sí che ce l’ho. – Allora anche tu fatti viva.
– Immancabilmente! – dico, sapendo quanto piace a quella ragazzina un certo italiano desueto.
– Hai sentito che divertente, Albert, come dice immancabilmente? Io ti sfido a trovarmi oggi qualcuno che ha il coraggio di dire certe parole! Se lo trovi ti do un milione!
– Bene, – m’affretto io per porre fine a quella commedia rivolgendomi a quell’omone muto e premuroso dal portafoglio facile (non ha fatto che aprirlo e pagare): – Piacere di averla conosciuta, Albert, e arrivederci.
Non so che aspetto avesse lei quando voltando le spalle mi sono precipitata fuori dal bar, ma non me ne importa niente.
È chiaro ormai che per Roberta là – nel luogo magico delle apparizioni e delle sparizioni – io non ero stata che un numero divertente col quale passare il tempo. In galera – si sa – non c’è molta scelta.
Arrivata a casa mi friggo l’ultimo uovo rimasto – sconsolato – nel frigorifero vuoto e lo ingurgito con molto pane, giusto per calmare il bruciore allo stomaco che tutti quei caffè, mescolati alla delusione, hanno provocato. Come se non bastasse ci bevo sopra il whisky che la sera prima i miei amici hanno avuto la cortesia di lasciarmi e, buttandomi sul primo divano che incontro, decido di stendermi un attimo e riposare.
Quando mi sveglio convinta d’aver dormito qualche minuto, è notte: una luna immensa, indolente mi fissa sardonica dalle grandi finestre che dànno su un mare di pini sempre agitati – anche quando non c’è vento – dalla nostalgia del loro mare perduto. Il pino è del mare, il mare è del pino, dice un proverbio della mia isola: separati soffrono. Sotto la luna quei pini scuri hanno palpiti, sospiri umani. Non li consola, penso, neanche il volo di qualche gabbiano che risalendo il Tevere a volte viene a trovarli nella loro prigione di cemento… Presto anche quei pini saranno spazzati via dall’esercito di cemento che li assedia da tutte le parti. E io che ho pure rubato per non perdere quel pezzo di verde che mi sta davanti!
Il ricordo del mio furto per pagare questo minuscolo appartamento, ma con grandi vetrate!, mi riporta a Roberta, alle nostre ore mitiche a Rebibbia e di conseguenza all’assurdo incontro con lei della mattina. La rivedo com’era là, evocata dallo sguardo ironico della luna, questa luna che per me resta sempre il regno di tutte le cose che non sappiamo: una zona di dubbio gelido che vaga senza requie in cielo e in qualche parte remota del mio organismo sussurrandomi misteri, ricordi di riti atroci, formule magiche, alchimie insondabili.
Ma che credevi?, mi dice ora, piano, la mia luna, che credevi? Che per pochi mesi che hai passato in prigione, loro potessero considerarti ormai un’amica? Non ti ricordi che nel primo mese Roberta stessa e Barbara infine te lo dissero, ti credevano una spiona, un’infiltrata?! Che cosa ti può dare la certezza che dopo quando tu uscisti – e cosí facilmente! – la diffidenza non sia rinata in loro?
A queste parole della mia luna il viso di Roberta sardonico e dolce mi s’avvicina materializzato dal suo chiarore… Fu proprio in una notte come questa, con una luce come questa che scoprii qualcosa di cosí drammatico e impensabile sul passato della mia amica da indurmi dopo a rimuoverlo: dei ventiquattro anni che aveva ne aveva passati già dieci in prigione.
La mia sorpresa fu tale che esclamai mio malgrado: «Dieci anni! Ma come hai fatto a restare cosí viva e sana?» (nella mente intendevo). E lei: «Oh, succede! Ma non c’è da fidarsi! Puoi andare avanti per anni senza risentirne ma un bel mattino ti svegli bollita, col cervello molle e senza piú idee. Quante ne ho viste andare avanti per anni come fosse niente e un bel mattino plaft! Da persone erano diventate bambocce sceme prese solo dalle caramelle e dai dolciumi! Ecco perché teniamo tutte queste caramelle – le hai viste, no? – sono un’arma per calmare qualcuna di queste rimbecillite. Per le altre ci vuole la lametta o il collo di una bottiglia spezzato se si impuntano a farti la vita difficile…»
Che in quest’anno in piú di carcere da lei subito anche la sua mente si fosse rotta?
A questo pensiero la mano istintivamente prende il telefono e compone il numero di Roberta. Al terzo squillo una vocetta esile e leziosa risponde: – Che c’è? Se cerchi la mamma non c’è piú! È sparita la mamma!
– Non cercavo la signora Brandi, cercavo Roberta, – dico convinta che quella vocetta appartenga a una sua sorella piú piccola. So che ha un fratello quindi niente di piú logico dell’esistenza di una sorellina, anche se lei non me ne ha mai accennato, del resto anche del fratello non parlava mai…
Seguendo supposizioni non ascolto bene, tanto che quella vocetta improvvisamente incazzata al massimo con toni stridenti urla quasi: – Sò io, Roberta!, che te sei rincoglionita? T’ho riconosciuta subito! Che cazzo vuoi?
Se non fossi turbata sarebbe divertente ascoltare quel truce romanesco trillato da una vocina e...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Le certezze del dubbio
  3. Postfazione alla prima edizione
  4. Il libro
  5. L’autore
  6. Dello stesso autore
  7. Copyright