Spesso alla sera, durante la degenza, aveva pensato al vento che precede la notte, dopo che il giorno con un piccolo scarto di luce, piú spoglia o piú velata, ha annunciato la fine. Le onde all’orizzonte sempre alto si mettevano a scorrere, trascinate dal sole.
– Vi saluto, amici, – disse, raccolte le sue poche cose.
Qualcuno si alzò a sedere. Altri mossero appena la mano, restando distesi. Ve n’erano due che non avrebbero piú visto né il mare né le colline, se non in sogno. Ai loro occhi restava la cima di un eucaliptus, in cui il sole entrava di sbieco.
– Allora lei se ne vuole andare?
– Nessuno me lo può proibire.
– Ma perché questa premura! Non mi dica che vuol vedere il posto dove si è fatto male. Pensa che noi le abbiamo creduto?
– La ringrazio.
Aveva raccontato d’essere caduto sulla punta di un bidente. E il medico, gentile o indifferente, aveva fatto finta di crederlo.
– Deve firmare, deve prendersi la responsabilità.
Prese la penna che il medico gli porgeva, e firmò. Il momento piú critico, doloroso, era già passato. Aveva già salutato quelli che restavano nel padiglione delle ossa.
«Che ombra leggera!» Non era mai riuscito a farli crescere nella terra calcarea della sua campagna. Amavano le sabbie portate dal mare, avevano radici delicate, i rami prendevano le forme della brezza.
Arrivò il taxi e si fermò proprio fra i tronchi degli alberi del pepe. Lo conduceva una donna giovane e bruna.
– Mi porta a casa?
– Ha una valigia?
– Non val la pena che apra il portabagagli.
Aveva solo una sacca, con dentro un pigiama, un sapone, un libro.
– A casa dove?
– Ad Argela. Sa la strada?
– Ci sono andata solo una volta, ma me la ricordo.
Dopo un tratto di litoranea e un fondovalle, la strada girava su rupi dorate intervallate da terrazze.
– È stato tanto all’ospedale?
– Pochi giorni.
– S’è fatto male a una gamba? Ho visto che zoppicava.
– Sono stato ferito. Una pallottola vagante, – tagliò corto. Arrivarono ad Argela, poche case schierate al sole su un cocuzzolo. L’asfalto finiva.
– Se la sente di andare avanti?
– Su questa strada sterrata?
– Le assicuro che è buona. C’è solo una curva dove compare la roccia, ma è levigata. Con questo sole non c’è la brina.
La sua casa e il suo uliveto erano di un azzurro che anneriva nell’ombra della rupe. Il sole se ne andava presto.
In casa restò poco, il tempo di aprire le finestre per far uscire l’odore di salnitro e prendere le forbici. Andò dal sorbo e si fece un bastone, poi aggirò la rupe per un sentiero tra i cespugli e rivide il mare, che all’orizzonte si effondeva verso il sole e le montagne di Francia. In quel punto il crinale era riparato dall’aria che scendeva dalle Marittime; vi fiorivano ancora le rose, rose d’autunno nel vento del largo. Sopra il sentiero, un gruppo di case restaurate. Sotto, il bar nuovo, col suo grande terrazzo. Vi cadevano foglie laminate di raggi.
La luce ebbe un fremito e sembrò diminuire. Nelle stasi dell’aria non scendevano piú foglie di quercia, ma gocce di rugiada. La sera era celeste e ferma.
Prima di entrare nel bar guardò ancora le case; le ricordava diroccate. Guardò il sentiero dove scendevano gli uomini morti per la strada del tempo: andava sparendo, come il cimitero dove crescevano rosmarini piú alti delle lapidi.
– Ben tornato, Leonardo, – disse «il professore» rincantucciato in un angolo del terrazzo. – Quando il sole scompare nel mare, salgono folate d’aria.
– Lo so perfettamente.
– Che cosa sa?
– Di quest’aria, di questa luce, di come dura a lungo. Venivo qui quand’ero giovane e c’era tutto abbandonato.
– Voi ve ne siete andati e noi abbiamo invaso le vostre case.
«Sembra un dialogo tra gente che non c’è già piú», pensò Leonardo. – Non è colpa vostra, – disse.
– Com’è andata all’ospedale, è guarito bene?
– Mi hanno trattato benissimo. Ma come sa che ci sono stato?
– Sono cose che si vengono a sapere.
Ma forse il professore non sapeva i motivi per cui c’era andato. O non gli interessava nemmeno saperli, perduto in quella luce calante e a scatti.
– Che cosa beviamo per festeggiare?
– Che festeggiamo?
– Il suo ritorno, la sua guarigione.
– Stavolta tocca a me offrire.
Il professore andò dentro, tornò con la cameriera che indossava una giacca a vento.
– Come si chiama questo posto, voglio dire come si chiamava prima di «Case a occidente»? Aveva un nome?
– Era l’unica cosa che aveva. Vairara. C’erano troppe pietre. Ma al di là della rupe ci sono terre meno avare anche se meno luminose.
– Non ci sono mai stato.
– Venga un mattino, quando c’è il sole. L’esposizione è a oriente, – disse Leonardo.
Gli tornavano agli occhi gli ulivi incielati, il brillare dei muri che facevano gobbe, le mimose novembrine, già in fiore, nuvole abbarbicate.
– Gli olandesi vengono sovente, – aggiunse.
– Loro fanno grandi passeggiate. Io mi alzo tardi, con loro non mi aggrego. Mia moglie si alza presto, io dormo. Loro appartengono a un paese vivo, hanno fiducia nella vita. Non se n’è accorto? Qui sono il solo francese.
– Direi che anche la Francia è viva.
– Vuol che le dica quello che penso? In tutta sincerità? Ogni tanto qualcuno prende la Francia tra le braccia, la mostra al mondo facendo credere che è viva, invece è morta.
Guardavano il giorno che se ne andava, tra ritorni di luce. Dietro l’Esterel una vampa diafana apriva nelle ceneri una sorta di sera eterna.
«Cadono a placche chiarori dal cielo. Ora scende la notte». Improvvisamente nello stellato la sera sembrò lontana. S’incamminarono. Si sentiva odore di lentisco e di assenzio e, a folate, il mare che smemorava.
– Vorrei presentarle mia moglie. Dovrebbe farmi un piacere, interrogarla su questi posti, chiederle se li ama.
Il sentiero andava verso un giardino illuminato: una prora di terrazze sostenute da muri a secco. La donna stava in piedi sotto i coppi di una tettoia. Il calore di una stufa appesa, elettrica, le scendeva sulle spalle nude.
«È marmo il biondo cenere dei suoi capelli, quasi severa l’armonia del suo corpo».
– Si guardava una bella sera, – disse il marito dopo le presentazioni.
– Bella davvero, – lei disse.
«Ecco, ti ha già dato, – pensò Leonardo, – la risposta che cercavi». Non gli piaceva interrogare, se non se stesso. E ne aveva di interrogazioni da porsi.
– Si parlava della Francia che è morta. Era già morta quando tu sei nata.
– Sempre gli stessi discorsi. Non voglio piú sentirli. Venite dentro.
Entrarono in un salotto dipinto di bianco, con liste nere sotto il soffitto. Lei mise una musica un po’ andante: «Una colomba bianca come la neve…» in sordina. Ma faceva finta che quella musica non esistesse. Stava seduta e le gambe e le mani erano ferme. Aveva belle mani, con unghie quasi d’argento, accordate ai capelli. Nel volto un’impenetrabile compostezza.
– Perché hai messo questa canzone? – chiese il marito.
– Non mi piace sentire passare il tempo, volevo dire il vento.
Leonardo capiva dove passava il vento: cespugli, rocce, spini, alberi. Non lo legava al tempo, ma allo spazio. Finito il disco, la bellezza di lei fu solo ferma e silenziosa. Se ne staccavano chiarori, come prima dal cielo. C’era una bella differenza fra lí e l’ospedale. Ci pensò meglio: forse non c’era. La differenza vera era tra gli ulivi e l’ospedale: l’antica forza e la fragilità. Li aveva quasi odiati ogni volta che gli era morta una persona cara. Poi aveva finito per lasciarsene consolare.
– Non capisco bene cosa ci sia al mondo, ma c’è qualcosa che non va.
– Se mi portaste fuori, da qualche parte, ve ne sarei grata… invece di star qui a guardarci in faccia.
– Stasera non posso. Ma un’altra sera ben volentieri.
Erano due uomini d’una certa età con una donna piú giovane, che li paralizzava.
– Che cosa ha da fare, Leonardo?
– Niente di preciso. Ma un’altra sera sarà un vero piacere uscire, anche fino all’alba.
Finirono per parlare dei nuovi abitanti di quella antica contrada.
Erano venuti a ondate. Prima gli olandesi, tra loro un architetto che aveva cominciato a comprare e restaurare. Poi gli inglesi e i danesi, qualche tedesco. C’era anche una profuga dall’Istria. Per ultima, una coppia d’arabi. Abitava in in piccolo alloggio.
– È strano che voi siate i soli francesi.
– Ne erano venuti degli altri, ma se ne sono andati. Di posti come questo se ne trovano tanti anche in Francia. A me piace qualche particolare: il blu delle montagne e il giro che laggiú fa il mare, davanti a Cap d’Antibes. Lei forse pensa ch’io sia fuggito dal mio paese…
– Io non penso niente, non penso niente di nessuno. Dico la verità: vorrei che anche gli altri francesi, quelli che se ne sono andati, fossero rimasti. Quelli che sono venuti il 25 aprile del ’45 erano cosí gentili. Noi eravamo prostrati. Ci hanno tirato su il morale. Erano soldati diversi da quelli che avevamo conosciuto prima. Ho ripensat...