Breviario proustiano
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Breviario proustiano

Massime e sentenze della Recherche

  1. 248 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
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Breviario proustiano

Massime e sentenze della Recherche

Informazioni su questo libro

Viviamo, di solito, col nostro essere ridotto al minimo; la maggior parte delle nostre facoltà rimangono assopite, fidandosi dell'abitudine che sa cosa si deve fare e non ha bisogno di loro. Di calma non ce ne può mai essere nell'amore, perché quel che si è ottenuto non è che un nuovo punto di partenza per desiderare dell'altro. Nell'attesa, l'assenza di quel che si desidera ci fa soffrire a tal punto da renderci insopportabile qualsiasi altra presenza. Non si ama più nessuno quando si è innamorati. La felicità ha, si può dire, una sola utilità: rendere possibile l'infelicità. La bellezza è una catena d'ipotesi che la bruttezza restringe, sbarrando la strada che già vedevamo protendersi verso l'ignoto. Chi non assimila ciò che nell'arte è davvero nutriente, ha continuamente bisogno di gioie artistiche, in preda a una bulimia che non lo lascia mai sazio. *** «Merito di Proust, certo, della grandiosa polivalenza del suo capolavoro, che non è un solo libro ma la stratificazione di molti libri, se non addirittura di tutti i libri possibili - e che rimane dunque vivo, vivo in ciascun pezzo, anche se lo si faccia, letteralmente, a pezzi...»
Giovanni Raboni

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Informazioni

Editore
EINAUDI
Anno
2013
Print ISBN
9788806208455
eBook ISBN
9788858411179
È gran meraviglia che uguagliando, quasi, la natura, la medicina possa costringere a rimanere a letto, a continuare sotto minaccia di morte l’uso di un medicamento. Da quel momento, la malattia inoculata artificialmente ha messo radici, è diventata una malattia secondaria ma vera, con questa sola differenza: che dalle malattie naturali si guarisce, ma da quelle create dalla medicina mai, perché la medicina ignora il segreto della guarigione.
(III, 582)
Medici
Non basta che un medico sia preparato. Messo di fronte a sintomi che possono essere quelli di tre o quattro malattie diverse, in ultima analisi sono il suo fiuto, il suo colpo d’occhio a stabilire di quale, nonostante le apparenze press’a poco simili, sia piú probabile che si tratti. Questo dono misterioso non implica alcuna superiorità nelle altre zone dell’intelligenza, e un individuo estremamente volgare, che ama la peggiore pittura e la peggiore musica e non ha la minima curiosità intellettuale, può benissimo esserne dotato.
(I, 600-1)
Anche ammettendo che essere un imbecille non impedisca di essere un buon medico, cosa che pure si stenta a credere, impedisce di essere un buon medico per artisti, per persone intelligenti. Tre quarti delle malattie delle persone intelligenti vengono dalla loro intelligenza. Ci vuole, quanto meno, un medico che conosca quel male.
(I, 689-90)
È il fiuto, la divinazione a decidere, nel grande generale come nel grande medico.
(II, 134)
Per un’affezione che i medici debellano con dei farmaci (c’è chi assicura, almeno, che qualche volta è successo), ne provocano dieci in soggetti sani inoculando loro quell’agente patogeno, mille volte piú virulento di tutti i microbi, che è l’idea d’essere malati. Una simile suggestione, al cui potere non può sottrarsi nessun temperamento, agisce con particolare efficacia negli individui nervosi.
(II, 367)
Dato che gran parte di ciò che sanno l’hanno imparato dai malati, i medici sono facilmente inclini a credere che questo sapere dei pazienti sia in tutti il medesimo, e si illudono di poter sbalordire quello al cui capezzale si trovano con qualche osservazione presa a prestito dai malati curati in precedenza.
(II, 368)
Gli uomini incapaci di mettersi nei panni degli altri sono simili, in questo, alla maggior parte dei medici e dei becchini.
(II, 412)
I medici, come gli agenti di cambio, dicono «io».
(II, 497)
Gli errori dei medici non si contano. Di solito, essi peccano d’ottimismo riguardo al regime, di pessimismo riguardo all’esito.
(II, 777)
Un clinico non ha bisogno che il malato sotto osservazione sollevi la camicia, né d’ascoltare il suo respiro, basta la voce.
(II, 804-5)
Memoria
Le informazioni che la memoria volontaria, la memoria dell’intelligenza, fornisce sul passato non ne trattengono nulla di reale.
(I, 54-55)
Una contraddizione è insita nel ricercare entro la realtà i quadri della memoria, ai quali mancherebbe comunque l’incanto che acquistano dalla stessa memoria e dal non essere percepiti con i sensi.
(I, 515)
Di solito la memoria non ci presenta i ricordi nella loro successione cronologica, ma come un riflesso in cui l’ordine delle parti è rovesciato.
(I, 699)
Le leggi generali della memoria sono regolate dalle piú generali leggi dell’abitudine. Poiché questa affievolisce tutto, quel che piú ci ricorda una persona è proprio ciò che avevamo dimenticato (parendoci insignificante, gli abbiamo lasciato intatta la sua forza). Ecco perché la parte migliore della nostra memoria è fuori di noi, in un soffio piovoso, nell’odore di chiuso d’una stanza o nell’odore d’una prima fiammata, ovunque ritroviamo quanto di noi stessi la nostra intelligenza, incapace di servirsene, aveva disprezzato, l’estrema riserva del passato, la migliore, quella che, quando tutte le nostre lacrime sembrano disseccate, sa farci piangere ancora. Fuori di noi? Per essere piú precisi, dentro di noi, ma sottratta ai nostri stessi sguardi, immersa in un oblio piú o meno prolungato. Solo grazie a questo oblio possiamo, di tanto in tanto, ritrovare l’essere che siamo stati, metterci di fronte alle cose nella stessa posizione in cui era quell’essere, soffrire di nuovo, perché non siamo piú noi, ma lui, e lui amava quello che oggi ci è indifferente. Alla luce piena della memoria abituale, le immagini del passato vanno a poco a poco sbiadendo, dileguano, non ne resta piú nulla, non le ritroveremo piú. O, meglio, non le ritroveremmo piú se qualche parola non fosse rimasta accuratamente custodita nell’oblio, cosí come si deposita alla Bibliothèque Nationale un esemplare d’un libro che, altrimenti, rischierebbe di diventare introvabile.
(I, 778-79)
La nostra memoria è come quei negozi che di una stessa persona espongono in vetrina a volte una fotografia, a volte un’altra. E, di solito, la piú recente rimane esposta da sola per qualche tempo.
(I, 1076)
Delle cose, la parte esterna, attuale, controllabile da chiunque non è che il prolungamento della parte divenuta puramente morale, distaccatasi dal mondo esterno per rifugiarsi nella nostra anima, cui conferisce un plusvalore assimilandosi alla sua abituale sostanza, tramutandosi – case distrutte, gente d’una volta, compostiere di frutta di cene non obliate – in quell’alabastro traslucido dei ricordi di cui non possiamo mostrare il colore, che siamo i soli a vedere (il che ci permette di dire agli altri, senza mentire, che non possono averne alcuna idea, che non assomiglia affatto a quanto hanno veduto) e che non possiamo considerare dentro di noi senza una certa emozione, pensando che è dall’esistenza del nostro pensiero che dipende, per qualche tempo ancora, la loro sopravvivenza, il riflesso delle lampade che si sono spente, il profumo delle pergole che non fioriranno mai piú.
(III, 696)
La nostra memoria è una specie di farmacia, di laboratorio chimico, dove capitano fra le mani, a caso, ora una droga calmante, ora un veleno pericoloso.
(III, 811)
L’allontanarsi d’una cosa è piú proporzionale alla potenza visiva della memoria da cui è osservata che non alla distanza reale dei giorni trascorsi, cosí come il ricordo d’un sogno dell’ultima notte può sembrarci piú lontano, nella sua imprecisione e nel suo svanire, di un avvenimento vecchio di diversi anni.
(IV, 144)
Se la nostra vita è vagabonda la nostra memoria è sedentaria, e per quanto noi ci slanciamo senza sosta i nostri ricordi restano inchiodati, loro, ai luoghi da cui ci stacchiamo, continuano a combinarvi la loro vita casalinga.
(IV, 690)
Memoria involontaria
Giungerà mai alla superficie della nostra coscienza lucida quel ricordo, quell’istante remoto che l’attrazione di un identico istante viene cosí da lontano a sollecitare, a scuotere, a sollevare nel nostro io piú profondo? Una deliziosa voluttà ci invade, isolata, staccata da qualsiasi nozione della sua causa. Di colpo ci rende indifferenti le vicissitudini della vita, inoffensivi i suoi disastri, illusoria la sua brevità, agendo nello stesso modo dell’amore, colmandoci di un’essenza preziosa: o meglio, quell’essenza non è dentro di noi, noi siamo quell’essenza. Smettiamo di sentirci mediocri, contingenti, mortali.
(I, 56-57)
Quando di un lontano passato non rimane piú nulla, dopo la morte delle creature, dopo la distruzione delle cose, soli e piú fragili ma piú vivaci, piú immateriali, piú persistenti, piú fedeli, l’odore e il sapore permangono ancora a lungo, come anime, a ricordare, ad attendere, a sperare, sulla rovina di tutto, a sorreggere senza tremare – loro, goccioline quasi impalpabili – l’immenso edificio del ricordo.
(I, 58)
Certe impressioni fuggitive e fortuite riconducono verso il passato ancor meglio – con una precisione piú sottile, con un volo piú lieve, piú immateriale, piú vertiginoso, piú infallibile, piú immortale – di qualsiasi dislocazione organica.
(II, 107)
In un ricordo involontario e completo ritroviamo la viva realtà. Una realtà che non esiste per noi finché non è stata ricreata dal nostro pensiero (altrimenti, tutti gli uomini coinvolti in una battaglia gigantesca sarebbero grandi poeti epici).
(II, 916)
I vecchi giorni coprono a poco a poco quelli che li hanno preceduti, e vengono a loro volta sepolti da quelli che li seguono. Ma ciascuno dei giorni passati è rimasto depositato in noi come in un’immensa biblioteca dove dei libri piú antichi c’è un esemplare di cui nessuno, probabilmente, farà mai richiesta. E tuttavia basta che questo vecchio giorno, attraversando la traslucidità delle epoche successive, risalga alla superficie e si distenda nel nostro essere, coprendolo per intero, perché per un istante i nomi riprendano il loro vecchio significato, gli esseri il loro vecchio volto e noi il nostro animo d’allora, e sentiamo con una sofferenza vaga, ma fattasi sopportabile e destinata a non durare, i problemi da molto tempo divenuti irresolubili che allora ci angosciavano tanto.
(IV, 154-55)
Sembra che vi sia, pallida e sterile imitazione dell’altra, una memoria involontaria delle membra, la quale vive piú a lungo, come certi animali o vegetali privi di intelligenza vivono piú a lungo dell’uomo. Le gambe, le braccia sono piene di ricordi in letargo.
(IV, 339)
Si prova un’impressione tanto nel momento attuale quanto in un momento lontano, e grazie a tale identità fra i...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Breviario proustiano
  3. Abitudine
  4. Medici
  5. Memoria
  6. Nota di Patrizia Valduga
  7. Il libro
  8. L’autore
  9. Dello stesso autore
  10. Copyright