La bambina magra si chiedeva di rado (o cosí sembra ora) da dove lei venisse, piú spesso si poneva la vecchia questione, perché esiste qualcosa invece del nulla? Divorava storie con rapace ingordigia, schiere di segni neri sul bianco, che si raggruppavano in montagne e alberi, stelle, lune e soli, draghi, gnomi, e foreste con dentro lupi, e volpi e oscurità. Si raccontava quelle fiabe mentre attraversava i campi, fiabe di cavalieri selvaggi e di laghi profondi, di dolci creature e streghe malvagie.
A un certo punto, quando era un po’ piú grande, scoprí Asgard e gli dèi. Era un robusto volume rilegato in verde, con un’intrigante, impetuosa immagine di copertina, la Caccia Selvaggia di Odino a cavallo fra squarci di nubi in un balenare di saette, osservata, dall’imbocco di un’oscura cavità sotterranea, da uno gnomo col berretto, che sembrava in allarme. Il libro era pieno di misteriose incisioni straordinariamente dettagliate, di lupi e acque turbolente, di spettri e donne fluttuanti. Era un testo accademico, e infatti era stato il bigino di sua madre per gli esami di islandese arcaico e norreno antico. Era, peraltro, tedesco. Un adattamento dell’opera del dottor Wilhelm Wägner. La bambina magra aveva l’abitudine di leggere i libri da cima a fondo. Lesse l’introduzione, sul recupero dell’«antico mondo germanico, con i suoi segreti e prodigi…» L’idea dei tedeschi la sconcertava. Sognava che c’erano dei tedeschi sotto il suo letto, i quali, dopo aver gettato i suoi genitori dentro un pozzo verde in una cupa foresta, segavano le gambe del suo letto per acchiappare ed eliminare anche lei. Chi erano quegli antichi tedeschi, rispetto a quelli lassú, che ora dispensavano morte dal cielo notturno?
Il libro diceva anche che quelle storie appartenevano ai popoli «nordici», norvegesi, danesi e islandesi. La bambina magra era, in Inghilterra, una nordica. La sua famiglia veniva dai territori invasi e occupati dai vichinghi. Quelle erano le sue storie. Il libro divenne una passione.
Perlopiú leggeva la sera tardi, con una torcia nascosta sotto le coperte, oppure spingendo il volume oltre la porta socchiusa della stanza da letto in una pozza di luce fosca sul pianerottolo schermato. L’altro libro che leggeva e rileggeva era Il viaggio del pellegrino di John Bunyan. Sentiva nelle ossa il paralizzante fardello che appesantiva l’uomo impantanato nella Palude dello Scoraggiamento, seguiva i suoi viaggi nelle lande deserte e nella Valle dell’Ombra della morte, i suoi incontri con il Gigante Disperazione e con il malvagio Apollyon. Il racconto di Bunyan aveva un messaggio e un significato chiari. Non cosí Asgard e gli dèi. Questo libro era la cronaca di un mistero, di come il mondo si era formato, si era popolato di esseri magici e potenti, e poi era finito. Una Fine vera. La fine.
In un’illustrazione si vedevano le Rocce del Riesengebirge. Un fiume scorreva in un crepaccio al di sopra del quale torreggiavano alti spunzoni di roccia con anonime simil-teste, e moncherini di simil-braccia, dritti fra pilastri che non somigliavano a nessuna forma vivente. Grigie cuspidi d’alberi rivestivano un pendio. Esseri umani minuscoli, quasi invisibili, pari a formiche, fissavano il cielo dalla sponda vicina. Spettrali cortine di nubi pendevano tra quelle forme e la bambina che leggeva. Lesse:
Le leggende relative a giganti e draghi si sono sviluppate gradualmente, come ogni mito. Dapprima questi strani esseri vennero considerati tutt’uno con gli oggetti naturali, poi le rocce e gli abissi divennero le loro dimore, e solo in ultimo furono considerati personalità distinte ed ebbero il loro regno, Jotunheim.
L’immagine dava alla bambina un piacere intenso, arcano. Sapeva, ma non avrebbe saputo spiegarlo, che era l’esatta misura di assenza di forma delle rocce, per il resto scrupolosamente dipinte, a essere cosí soddisfacente. Spetta all’occhio di chi legge il compito di renderle vive, e cosí accadeva, ancora e ancora, mai due volte la stessa vita, come nelle intenzioni dell’artista. Lei aveva già notato che un cespuglio, o un ceppo, visto a distanza durante la sua camminata nei prati, poteva per un attimo essere un cane accucciato, ringhioso, e un ramo pendulo poteva essere un serpente, con tanto di occhi scintillanti e guizzi di lingua biforcuta.
Era da questo modo di guardare che venivano gli dèi e i giganti.
I giganti di pietra le fecero venir voglia di scrivere.
Riempivano il mondo di energia e potenza inquietanti.
Ne vedeva i visi informi, che la scrutavano di là dal grugno della maschera antigas, durante le esercitazioni antiraid.
Ogni mercoledí i bambini della scuola elementare andavano in parrocchia per le lezioni sulle Scritture. Il vicario era gentile: la luce entrava da una finestra colorata sopra la sua testa.
C’erano dipinti e canti del buon Gesú, benevolo e mite. In un dipinto lo si vedeva predicare in una radura a una congregazione di animali attenti e affettuosi, conigli, un cerbiatto, uno scoiattolo, una gazza. Gli animali erano piú reali della figura divina-umana. La bambina magra cercò di mettersi in sintonia col dipinto, e non ci riuscí.
Insegnavano loro a dire le preghiere. La bambina magra sperimentava una vaga malignità nel sentire le proprie parole risucchiate in una nebulosa bambagia di inconsistenza.
Era una bambina logica, per la sua età. Non capiva come un Dio cosí amichevole, gentile e buono quale quello che loro pregavano, potesse condannare la terra intera per i suoi peccati e inondarla, oppure condannare il suo unico Figlio a una morte disgustosa per il bene di tutti. Quella morte non era servita granché. Eravamo in guerra. Forse saremmo sempre stati in guerra. I nemici erano cattivi e non redenti, o forse erano umani e feriti.
La bambina magra decise che quelle storie, quella dolce, umile e mite, e quella barbarica e malvagiamente sacrificale, erano entrambe invenzioni umane, come la vita dei giganti nel Riesengebirge. Né l’una né l’altra le facevano venire voglia di scrivere, o nutrivano la sua immaginazione. La ottenebravano. Provò a dirsi che forse era peccato pensare simili cose. Forse era come Ignoranza nel Viaggio del pellegrino, che cade nel pozzo dinanzi ai cancelli del cielo. Cercò di sentirsi cattiva.
Ma la sua mente cambiò rotta, verso ciò che la nutriva di vita.
So che un frassino s’erge, Yggdrasil lo chiamano,
un albero frondoso, asperso d’acqua bianca di argilla.
In principio era l’albero. La sfera di pietra sfrecciava nel vuoto. Sotto la crosta c’era il fuoco. Le rocce si liquefacevano, i gas ribollivano. Bolle d’aria bucavano la crosta. Densa acqua salata aderiva alla sfera roteante. Il fango ci scivolava sopra e nel fango le forme mutavano. Ogni punto su una sfera è il centro e l’albero era al centro. Teneva insieme il mondo, nell’aria, nella terra, nella luce, nel buio, nella mente.
Era una creatura enorme. Affondava aghi radicali nel terriccio spesso. Dopo gli apici ciechi venivano filamenti e corde e canapi, che sondavano e si avvinghiavano e frugavano. Le sue tre radici si allungavano sotto prati e montagne, sotto Midgard, la terra di mezzo, affioravano a Jotunheim, dimora dei giganti del ghiaccio, poi giú nel buio fino ai vapori di Hel.
Il suo alto tronco era composto di anelli di legno, uno dentro l’altro, che premevano verso l’esterno. Dentro, a ridosso della corteccia, c’erano viluppi di condotti che spingevano ininterrotte colonne d’acqua fino ai rami e alla chioma. La forza dell’albero convogliava l’acqua su fino alle foglie, che si distendevano alla luce del sole, e mescolavano luce, acqua, aria e terra per produrre nuova materia verde, che si agitava nel vento, assorbiva la pioggia. La sostanza verde mangiava luce. Di notte, quando la luce sbiadiva, l’albero la restituiva con un breve bagliore nel crepuscolo, come un tenue lampione.
L’albero mangiava ed era mangiato, nutriva ed era nutrito. Il suo vasto reticolo sotterraneo e le grandiose radici erano infestati e avviluppati da filze di miceti, che si nutrivano di radici, strisciavano fin dentro le cellule e ne cavavano la vita. Solo di tanto in tanto quelle rigogliose creature spuntavano dal terreno della foresta, o attraverso la corteccia, generando funghi mangerecci o velenosi, rossi e coriacei, con bianche escrescenze, fragili e pallidi ombrelli, protuberanze legnose stratificate sulla corteccia stessa. Oppure s’ingrossavano sui loro stessi gambi e formavano vesce che esplodevano spargendo spore come fumo. Si nutrivano dell’albero ma portavano anche cibo all’albero, minuti frammenti che sarebbero stati trasportati in alto dalla colonna d’acqua.
C’erano vermi, grassi come dita, sottili come capelli, che avanzavano nel terriccio coi loro musi tozzi, mangiando radici, secernendo cibo radicale. I coleotteri si davano da fare con la corteccia, trapanavano furiosamente, procreando e nutrendosi, lucidi come metalli, scuri come legno morto. I picchi foravano la corteccia, e mangiavano le grasse larve che mangiavano l’albero. Sfrecciavano tra i rami, verdi e rossi, neri, bianchi e scarlatti. I ragni, appesi al filo, attaccavano delicate ragnatele a foglie e ramoscelli, minacciando piccoli insetti, farfalle, soffici nottue, grilli impettiti. Le formiche sciamavano in schiere frenetiche, o allevavano dolci afidi, sfiorandoli con le antenne sottili. Alle biforcazioni dei rami si formavano pozze; spuntava il muschio; lustre raganelle nuotavano nelle pozze, deponevano fragili uova e inghiottivano larve scattanti e spiraleggianti. Alle estremità dei rami cinguettavano gli uccelli costruendo nidi di ogni foggia – ciotole d’argilla, sacche pelose, morbide scodelle rivestite di paglia, nascoste dentro buchi della corteccia. L’intera superficie dell’albero era raschiata e scavata, forata e corrosa, tagliuzzata e mangiucchiata.
Si narravano storie di altre creature di quella società tra i rami frondosi. Alla sommità, a quanto pare, si annidava un’aquila, che cantava indifferentemente del passato, del presente e di ciò che ancora doveva accadere. Il suo nome era Hraesvelgr, «divoratrice di carne»; quando batteva le ali i venti soffiavano e ululavano le tempeste. Fra gli occhi dell’enorme uccello dimorava un bellissimo falco, Vedrfölnir. I grandi rami erano pascolo per quattro cervi, Daínn, Dvalinn, Dúneyrr e Duraþrór, e una capra, Heidrún, le cui poppe erano colme d’ambrosia. Un indaffarato scoiattolo nero, Ratatöskr, «dente che perfora», correva su e giú dalla sommità alle radici portando i malevoli messaggi che si scambiavano l’uccello assiso sulla chioma e il vigile drago nero attorcigliato fra le radici, Nidhøggr, circondato da una moltitudine di serpi. Nidhøggr rodeva le radici, che si rigeneravano.
L’albero era immenso. Sosteneva, o dava ombra, ad alti vestiboli e palazzi. Era un mondo in sé.
Ai suoi piedi c’era uno smisurato pozzo nero, le cui acque scure davano saggezza, o quantomeno lungimiranza, a chi le beveva. Sull’orlo del pozzo sedevano le Sorelle Fatali, le Norne, venute forse da Jotunheim. Urd vedeva il passato, Verdandi il presente e Skuld contemplava il futuro. Anche il pozzo era chiamato Urd. Le tre sorelle erano filatrici, che avvolgevano i fili del destino. Erano giardiniere e guardiane dell’albero. Ogni giorno annaffiavano l’albero con l’acqua nera del pozzo. Lo nutrivano con pura argilla bianca, aurr. Cosí esso decadeva, o rimpiccioliva, di attimo in attimo. Cosí sempre si rinnovava.
Nelle foreste di alghe cresceva una mostruosa laminaria, Rándrasill, l’albero del mare. Faceva presa sulla roccia sottomarina con tenaci artigli, dai quali si levava un gambo simile a una frusta, piú alto di un albero di nave o trave di colmo, lo stipite. Lo stipite saliva e saliva dalle profondità alla superficie, liscio come vetro, sferzato dai venti, ondeggiando pigramente. Là dove l’acqua incontrava l’aria, lo stipite si espandeva in boschetti di fronde e festoni, ognuno dei quali galleggiava grazie a una sacca di gas, la vescica alla propria base. Le fronde ramificate, come quelle dell’albero sulla terra, erano innervate di cellule verdi che mangiavano luce. L’acqua marina assorbe la luce rossa; il pulviscolo e i detriti fluttuanti assorbono l’azzurro; nella luce fioca delle profondità le alghe sono di solito rossastre, mentre quelle che galleggiano in superficie, o aderiscono alle cenge battute dalle onde, possono essere di un verde acceso o di un giallo lucente. L’albero del mare cresceva a grande velocità. Vecchie lamine cadevano e altre spuntavano, nuove spore scaturivano dalle fronde in nuvole lattiginose, o verdi, di creature animate che nuotavano libere prima di afferrarsi alla roccia. Nella foresta acquea le creature mangiavano ed erano mangiate, come tra le radici e i rami dell’albero terrestre.
Sull’albero pascolavano chiocciole vagabonde e lumache di mare, che scalzavano briciole di vita, animale, vegetale. Spugne filtranti succhiavano il boschetto degli stipiti; anemoni di mare aderivano alle alghe avvinghiate, aprendo e chiudendo le bocche sfrangiate e carnose. Creature rivestite di corno e dotate di chele, gamberetti e aragoste spinose, stelle serpentine e gigli di mare consumavano il loro pasto. Ricci spinosi vagavano e masticavano. C’erano moltitudini di granchi: granchi porcellana, grossi granchi ragno, granchi scorpione e puntuti granchi pietra, granchi mascherati, granchi circolari, granchi commestibili, granchi di porto, granchi nuotatori, granchi angolari, ognuno con il proprio territorio. C’erano cetrioli di mare, anfipodi, mitili, cirripedi, tunicati e vermi policheti. Tutti mangiavano il legno e nutrivano le alghe con i propri escrementi e marciume.
Le cose ondeggiavano, e scivolavano, e navigavano attraverso la foresta marina, cacciatrici e cacciate. Alcune erano pesci in sembianze d’alghe – rane pescatrici avvolte in veli fluttuanti come sargassi, draghi di mare penzolanti nell’acqua, indistinguibili da forme frondose, drappeggiati in scialli e pennoni come sfrangiate insegne vegetali. E c’erano pesci enormi con corpi taglienti, che riflettevano la luce, ombre in agguato nell’ombra, con fianchi palpitanti che cambiavano colore sotto la luce che fendeva l’acqua e ne era filtrata.
L’albero del mare si ergeva in un mondo di vegetazione subacquea, dalla quercia marina ai viluppi di laminariacee, il millefoglie acquatico, l’impigliaremi, la cintura di mare, il grembiule del diavolo e l’acetabularia. Transitavano lí attorno banchi di pesci grandi e piccoli, compatti globi di aringhe roteanti, frettolose moltitudini di tonni. C’erano salmoni impegnati nei loro lunghi viaggi – salmoni reali, argentati, rossi, rosa, keta e giapponesi. C’erano tartarughe verdi che brucavano le fronde. C’erano squali affusolati di varietà diverse, volpe, mako, smeriglio, galeo, squali leopardo, squali bruni, squali grigi e squali notturni, i predatori dei predatori. Grandi balene strappavano calamari giganti dagli abissi, o aprivano gli smisurati setacci della bocca per filtrare il plancton. Nella volta frondosa le creature costruivano nidi allo stesso modo in cui altre creature costruivano nidi nel frassino del mondo. Lontre di mare fabbricavano culle e si dondolavano appese alle fronde, rigirando crostacei e ricci tra le zampe affaccendate. I delfini danzavano e cantavano, con schiocchi e fischi. Gli uccelli marini stridevano nel cielo e si tuffavano come frecce nella massa acquea. L’acqua era attratta dal sole e dalla luna in questa o quella direzione. Le maree risalivano le spiagge, venivano risucchiate nelle insenature, si frangevano in bianchi merletti di spuma su gusci di roccia, fluivano tranquille e si impennavano, o s’infiltravano e serpeggiavano nei delta.
L’uncino dell’albero del mare era sul fianco di una montagna sottomarina, molto, molto in profondità, dove solo l’ultimo barlume di sole o luna riusciva a penetrare. C’erano cose piú profonde. Creature del buio le cui forme corazzate, o le teste ora spinose ora carnose, rilucevano nella nera oscurità come sotto potenti lampade. Cose che andavano a pesca con la lenza della loro stessa carne, cose i cui occhi splendevano nella tenebra visibile.
Ai piedi del frassino del mondo c’è la fontana di Urd: acqua ferma, fredda, nera. Ai piedi dell’albero del mare ci sono sfiati e camini, attraverso cui sibilano vapori e schizzi di roccia fusa provenienti dal centro rovente della terra. Anche qui, nell’oscurità, strisciano vermi, e pallidi gamberi agitano antenne vitree. Come le tre donne di Jotunheim, le Norne, siedono sul bordo della fontana e nutrono e annaffiano l’albero, cosí Aegir e Rán siedono tra le correnti che turbinano attorno all’uncino di Rándrasill. Aegir fa musica con le corde di un’arpa e una conchiglia perlacea. Balene e delfini galleggiano immobili, vagliando il canto nelle camere d’eco della loro testa. I suoni possono agire come olio sull’oceano, inducendo una calma cupa, o una calma lucida, vitrea se vista da sotto, scintillante se vista da sopra. Ci sono altre armonie che perturbano le correnti, e sollevano grandi lingue d’acqua mugghiante, tanto in alto sulla sottile superficie quanto in alto si leva l’albero sul proprio uncino. La massa d’acqua, verde vetro, nero basalto, si arresta per un attimo eterno, poi la cresta si sbriciola e sparisce in profondità, spargendo spuma, e bava, e miliardi di bolle d’aria. La moglie di Aegir, Rán, gioca con un’enorme rete in cui avvolge creature morte e morenti mentre precipitano nel denso abisso. C’è chi dice che gli esseri catturati dalle sue trame non siano né morti né morenti, ma solo incantati dal riecheggiare del suono. Cosa ne faccia Rán di ossa e fanoni, pelli e cotenne, non si sa. Si dice che li conficchi nella sabbia, per nutrire ciò che vi striscia e brulica sotto. Si dice che raccolga gli esseri particolarmente belli – un calamaro luminoso, un marinaio con folti capelli d’oro, occhi azzurri e un orecchino di lapislazzuli, un serpente di mare vagabondo – e li disponga in un giardino di alghe, per compiacere lo sguardo. Coloro che la vedono non vedono nient’altro, e non ritornano per descriverla.
La bambina magra in tempo di guerra s’interrogava su come dal nulla potesse nascere qualcosa. Stando alla storia che si raccontava nella chiesa di pietra, un vegliardo che non sopportava la presunzione aveva speso sei piacevoli giornate facendo cose: cielo e mare, sole e luna, gli alberi e le alghe, il cammello, il cavallo, il pavone, il cane, il gatto, il serpente, tutte creature che dimorano sulla terra per elevare a lui canti gioiosi, ovvero cantarne le lodi, come facevano senza posa gli angeli. Ed era stato lui a mettere gli esseri umani al posto che era loro proprio e a dirgli di restarci e di non mangiare la conoscenza del bene e del male. La bambina magra conosceva un numero sufficiente di fiabe per sapere che un divieto in una storia è lí solo per essere trasgredito. I primi esseri umani erano destinati a mangiare la mela. I dadi erano truccati a loro sfavore. Il vegliardo era soddisfatto di sé. In quella storia la bambina magra non trovava nessuno con cui simpatizzare. Salvo forse il serpente, che non aveva chiesto di essere usato come tentatore. Il serpente voleva soltanto attorcigliarsi tra i rami.
Che cosa c’era all’inizio nelle storie di Asgard?
Vi fu un tempo remoto
in cui nulla era:
non sabbia...