Con quella luna negli occhi
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Con quella luna negli occhi

  1. 112 pagine
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Con quella luna negli occhi

Informazioni su questo libro

Le case hanno spesso due radici, quelle piú scure, salde, terragne delle cantine e quelle aeree, chiare, ricche di ragnatele e di passato dei solai. Entrambe sono patrimonio imprescindibile degli uomini e li ancorano alla vita. Colmi di queste due anime (una piú terrena e l'altra piú celeste) sono anche gli scritti dell'autrice e le sue riflessioni. Natura e anima scorrono infatti perfettamente insieme nelle parole di Adriana Zarri e possiedono ciascuna un proprio luogo e una propria voce. Anche semplicemente per questo motivo i suoi scritti non smettono mai di parlare a tutti, credenti e non credenti, giovani e meno giovani, a chi ama l'impegno e la lotta e a chi preferisce invece la contemplazione e il silenzio. In questi inediti ricordi di vita, recuperati da articoli, carte personali e pagine autobiografiche, ritroviamo i toni e i protagonisti di Un eremo non è un guscio di lumaca. I luoghi del mondo e dell'anima: il solaio, il giardino, l'orto, il vecchio mulino dell'infanzia, la cappella. Gli animali: gli immancabili gatti, i cavalli, ma anche i topi, la tigre e il lupo. I fiori: i tulipani, i bucaneve insieme agli ortaggi e alle verdure. Gli abitanti e le tradizioni di una vita antica, come il portalettere, la sarta, la lotteria di paese, l'albero di Natale. Pagina dopo pagina si disegna la scoperta di una scelta di vita, di contemplazione ed eremitaggio, che mai comunque abdica alla lotta e all'impegno. Adriana Zarri era infatti capace di riflessioni teologiche pregnanti e profonde come di massime veloci e ironiche. Nelle sue pagine si mescolano perfettamente la voglia di ascoltare e di capire e la capacità di restituire con esattezza e poesia la meraviglia di fronte alla bellezza della natura. Con quella luna negli occhi rappresenta un capitolo nuovo e inatteso di quell'invito al dialogo che Zarri, dal suo spazio di solitudine e silenzio, non ha mai smesso di rivolgere al mondo. *** «Ho ereditato dei bucaneve viola, dagli anni dell'infanzia. Li ho ereditati stamattina. Erano umidi ancora di rugiada come se fossero colti adesso e non avessero viaggiato, per lunghi sentieri di anni. Da tanto tempo li portavo dentro, in una piega inesplorata di memoria, e a un tratto sono germogliati; come un grano che dorme tutto un inverno con la terra e a marzo fila uno stelo verde, da una crepa del suolo, verso il saluto della primavera».

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Informazioni

Giorni di festa. L’albero e la lotteria

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Le radici dell’albero

La vecchia storia della rivalità tra l’albero e il presepe cominciava per tempo. Appena ci s’inoltrava per le strade brinate di dicembre, in casa, agli argomenti soliti, si aggiungeva l’eterna discussione.
Dire ch’io fossi dalla parte dell’albero ai danni del presepe non sarebbe stato esatto, anzi sarebbe stato sbagliato del tutto. Se c’era qualcuno che s’incantava davanti a quei paesaggini di favola che rievocavano il gran fatto, quella ero proprio io: visitatrice assidua di presepi, in ogni chiesa o sala si trovassero: un po’ per devozione, un po’ per sentimento, probabilmente un po’ per estetismo; per tante cose insieme che districarlo sarebbe stato difficile; ed era meglio lasciarle mescolate, a fare un bel groppo di affetti, appeso alla coda della stella cometa, come un’altra coda di commozione appaiata alla coda di luce.
Convenivo perfettamente sopra al valore storico, religioso, se volete anche teologico della rievocazione. Sulla mia ortodossia in fatto di amore al presepe non c’era quindi niente da ridire. Soltanto questo non mi impediva di amare anche l’albero, con un amore, forse un po’ meno teologico, ma altrettanto emotivo, quasi tremante, sulla cima del cuore, proprio come una vetta di abetino, appena mossa dal vento.
Insomma mi pareva – e sostenevo – che si potesse ben essere per l’albero senza con ciò fare un torto al presepe.
Ma non era il parere dei miei antagonisti, fermamente decisi alla nettezza della scelta, quasi che la nostra vecchia casa, vasta come un maniero, non avesse angoli abbastanza da poterne cedere, a Natale, uno per il presepe e uno per l’albero. No, la nostra casa si scopriva angusta, a un tratto, e non voleva cedere un angolo di piú. O l’uno o l’altro: bisognava scegliere.
Ad appuntire la polemica venivano le ragioni nazionalistiche; ma non mi muovevano gran che. Mi infastidiva voler fare del presepe una questione di patriottismo e di prestigio nazionale; quasi che san Francesco ci avesse vincolati, per precetto, e non ci concedesse scantonamenti verso altre celebrazioni natalizie.
Egualmente assurda trovavo l’obiezione della «strage degli alberi». Sarebbe stato come gridare alla strage dei sugheri, coi quali si confezionano le grotte dei presepi. Anziché tagliare dove non si doveva bastava disciplinare un po’ le cose: piantare appositamente vivai, ed ecco che si sarebbe anche incrementata un’industria, con tutti i vantaggi relativi. Come il presepio alimentava l’artigianato dei figurinai, cosí l’albero avrebbe fatto la sua buona azione natalizia, alimentando la coltura dei piccoli abetini.
Tutte le obiezioni cadevano, meno una che era – ahimè, dovevo riconoscerlo! – la piú grave di tutte. L’albero non aveva nessun contenuto religioso: era una sopravvivenza pagana, nata nelle foreste e adorna di profanità; le sue candele, di fronte al mistico lucore delle stelle d’Oriente, era quasi il vano luccichio del mondo, specchiato nelle sfere multicolori, come in iridescenti e varie bolle di sapone.
Era il pezzo forte della difesa del presepe; e a questo argomento non seppi opporre gran che, fino al giorno in cui seppi che anche l’albero aveva – o almeno aveva assunto – un chiaro significato religioso.
Quel giorno segnò la mia vittoria e la polemica cessò.
L’albero di Natale era niente di meno che il simbolo dell’albero dell’Eden! Affondava le radici in quel beato giardino che è la nostra patria dell’anima.
Avessero cercato mille anni non avrebbero potuto colpire piú esattamente nel segno delle mie predilezioni teologiche; e i miei contraddittori, che mi conoscevano e sapevano quanto l’Eden avesse sempre attirato i miei pensieri, ammutolirono di colpo e non tentarono piú di smuovermi. Con quel significato, che era caduto sopra all’albero, come una candela celeste, capivano bene che non c’era piú alcuna possibilità di farmi arretrare di un millimetro. Conveniva rassegnarsi a cercare il secondo angolo e darsi da fare per allestire la nuova celebrazione natalizia.
E cosí fu.
La casa si allargò: vennero fuori tanti angoli inattesi che quasi, per riempirli tutti, avremmo dovuto abbattere un piccolo boschetto e collocare un albero per stanza.
Ci contentammo di uno: ma bello, alto, che toccava il soffitto e pareva volerlo bucare per portare le sue fiammelle su, su, fino alle loro compagne del cielo; e attorno una festa di luci e di regali: i nuovi frutti, non piú proibiti, ma concessi e portati proprio da Gesú Bambino.
Io lo guardavo estatica e felice.
Ormai al mio amore per l’albero non mancava piú nulla: neanche la teologia. E nessuna prospettiva teologica mi sarebbe stata piú cara del ricordo di quell’albero antico e disseccato che il Bambino celeste rinverdisce e ricarica di frutti.

La lotteria

Ho sempre desiderato vincere un premio in una lotteria. Ma non un premio in danaro, in quelle lotterie anonime di cui si leggono le estrazioni sui giornali. No: una di quelle piccole lotterie famigliari in cui si vedono i premi allineati in bella mostra e si possono fare precisi atti di desiderio. Il danaro è una cosa anonima e informe, anche se quasi onnivalente, una realtà generica che si precisa in seguito alla nostra decisione; mentre uno degli incanti della sorte è la sorpresa.
Non invidio quindi il favoloso torinese che colleziona vincite su vincite, milioni su milioni. Ormai la sua è una sorta di attività professionale senza sorpresa e senza piú emozione. Io desidero un piccolo regalo da nulla il cui primo valore è la sorpresa e l’assoluta gratuità.
Da un punto di vista contabile certo le mie preferenze valgono poco e farei meglio a desiderare i ben contati milioni delle grosse estrazioni nazionali; ma la lotteria – quella vera – non è un fatto contabile: è un angolo di ingenua poesia, una piccola piega di mistero nascosta nell’ordine rigido della nostra esistenza.
Il milione della grossa lotteria può magari servirmi, ma lo desidero in un’altra maniera: è un desiderio ragionato, saggio, contabile, che si ricorda dell’affitto, del padrone di casa, del riscaldamento invernale e delle nostre piccole miserie. Acquistare un biglietto di una delle tante «Lotterie dei milioni» è un calcolo, magari lecito e onesto, ma non ha ormai piú nulla dell’infantile attesa con la quale il ragazzo, col bigliettino in mano, guarda l’esposizione dei regali e cerca e intimamente sceglie ciò che vorrebbe e che magari non avrà.
Eppure anch’io, una volta, vinsi una di queste lotterie; ma in uno stato d’animo cosí inadatto ad accogliere la lieta gratuità del dono che quasi nemmeno la ricordo.
Avevo litigato, in casa, con i miei. Oh, una cosa da nulla, ma aggravata dal fatto che succedeva assai di rado. Non ch’io fossi pacifica ma le mie furie me le consumavo da sola, per mio conto; e quando, forse sí e no una volta all’anno, mi succedeva di adirarmi anche di fuori poi restavo scentrata; anche perché, a onta di tutte le mie borie, ero una povera bambina che metteva le unghie perché non sempre le riusciva di far carezze e, ahimè, nemmeno di riceverle.
Fu dunque dopo una di queste baruffe e nello stato d’animo che ho detto che mio padre, forse nel tentativo di una conciliazione o perché la passeggiata era già nel programma quotidiano, mi portò con sé fin sulla piazza principale della città dove c’era una lotteria di Capodanno. Io gli andai dietro a muso lungo, niente affatto ammansita da quel diversivo fuori programma e – dura – rispondevo, a ogni approccio, sí e no e non una sillaba di piú.
La piazza era tutta illuminata, con un grande albero di Natale collocato nel centro e, sopra ai rami, i doni. Mio padre mi comperò un biglietto e io me lo tenni in mano ingrugnita, guardandolo, di tanto in tanto, quando il banditore gridava i numeri vincenti, quasi per compiacenza o per far piacere a qualcuno. E fu proprio in quel giorno, in cui ero chiusa a ogni senso d’attesa e di stupore, in quel giorno in cui non la meritavo, che mi venne incontro l’unica vincita di tutta la mia vita.
Guardai il numero del mio biglietto e lo porsi distaccata a mio padre: «Ce l’ho io» brontolai con rabbia, quasi che anche quella benigna sorte fosse un approccio non gradito e sdegnosamente respinto. Attorno fecero festa. Il banditore mi mostrò, di lontano, il regalo: una sporta con un cappone vivo e una bottiglia di spumante.
Di mano in mano giunse fino a me: presi la bestia con la bottiglia, la sporta e tutto senza nemmeno ringraziare. La portai a casa e la buttai sul tavolo come se fosse stato il carbone che la Befana porta a chi non ha meritato di meglio.
Quando lo portarono in tavola mi parve amaro e non lo mangiai: portavo il fiele di un rimorso che non è ancora cancellato.

I tetti della Befana

Doveva avere un gran freddo la Befana, cosí vecchia, di notte, a camminare sopra ai tetti, col vento, col gelo, con la neve. A noi bambini faceva quasi pena e si pregava l’Angelo custode che le concedesse una bella notte serena e tiepida, come di primavera, una notte con le stelle e la luna e un vento caldo e odoroso di fieno che la portasse, rapida, come sopra a una nuvola.
Era magari preghiera interessata, poiché la luna serviva a farle imbucare piú in fretta i camini, senza il pericolo di saltarne uno, e il tempo mite a darle buon umore e a inclinarla alla generosità. Comunque, visto che il nostro tornaconto e il suo andavano d’accordo, la preghiera filava con tutto fervore. E la virtú ci guadagnava. Da dicembre in avanti non era piú tempo di capricci, ché la lusinga dei regali e la paura del carbone erano spinta e freno sufficienti a instradarci per il sentiero giusto e a farci evitare mali passi; e la virtú aumentava con l’appressarsi della data. In gennaio eravamo cherubini in attesa che la Gran Vecchia venisse a coronarci con un’aureola di doni.
E cosa ci avrebbe mai portato? Tra la Befana e nostra madre c’eran rapporti misteriosi; sicché potevamo esprimere i nostri desideri, come fanno i grandi personaggi, attraverso i portavoce ufficiosi. La mamma era il nostro portavoce piú accreditato presso la Befana. Noi si esprimeva il desiderio e si attendeva la risposta; ma la Befana non si impegnava mai, e poneva le condizioni solite: obbedienza, niente capricci, compiti ben fatti e avanti con queste tediosissime pretese. I nostri discorsi con la mamma erano sempre gli stessi, tutti gli anni.
«Domani andrò a fare un giretto sui tetti e forse m’incontrerò con la Befana. Avete qualcosa da dirle?»
«Una bambola, un treno, una palla, un cavallino a dondolo...» era un’esplosione.
Quando la mamma usciva c’era la proibizione di andarle dietro perché la strada per i tetti è un segreto che solo i grandi possono sapere. La strada per incontrare la Befana non era il solito abbaino da cui passano i gatti e gli scalzacani: la strada per la Befana era un gran viale bordato di cipressi, e all’ingresso c’era un cancello che per entrare ci voleva una chiave specialissima. Pareva che questa chiave solo le mamme la potessero avere ed esse sole riuscivano a salire il grande viale e a incontrarsi con la Vecchia, nella sua reggia di tegole.
Dal palazzo della Befana, ci diceva la mamma, si godeva un gran panorama; e si vedevano le strade, le case e perfino la gente che ci abitava dentro, soprattutto i bambini. A ogni finestra c’era un Angelo con un gran canocchiale e niente gli sfuggiva.
Quando la mamma rientrava da quella visita sui tetti era un gran chiedere:
«Che ha detto? È d’accordo? Ce lo porta?»
Ma la risposta era la stessa: «Si vedrà! Se sarete buoni... i compiti, l’obbedienza...»
A noi tutti quegli Angeli che facevan la spia col canocchiale cominciavano a darci un po’ fastidio e pregavamo il nostro personale di mettersi d’accordo. Possibile che dovessero stare sempre alla finestra? Non c’era neanche una fettina sottilissima di giorno da poter respirare, prenderci un poco di vacanza da quella gran bontà che ci asfissiava e dar libero corso a un capriccio...? Chiedevamo al nostro Angelo di parlamentare e di venire a patti ragionevoli; ma con l’Angelo, ahimè, non si conversava come con la mamma, non si aveva risposta e, nel dubbio, chi rischiava il capriccio? Insomma non c’era proprio rimedio e, fino al sei di gennaio, conveniva tenere la cattiveria in corpo per farla esplodere piú tardi, quando il gioco era fatto.
Cosí prendeva corpo la nostra gran virtú: virtú labile che in una notte sfioriva, come un fiore invernale: di quei fiori pallidi che sbocciano troppo presto sfidando il gelo del febbraio; ma il gelo li avvizzisce in un mattino. La nostra bontà toccava il vertice nella sera del cinque di gennaio e sfioriva il mattino del sei: si sfogliava sui doni come una ros...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Con quella luna negli occhi
  3. Stagioni. La luna e la neve
  4. Luoghi. Il mulino e il solaio
  5. Animali. Il lupo e la tigre
  6. Giorni di festa. L’albero e la lotteria
  7. Persone. La sarta e l’Amelia
  8. Far qualcosa
  9. Abecedario
  10. Elenco delle illustrazioni
  11. Nota dell’editore
  12. Il libro
  13. L’autore
  14. Dello stesso autore
  15. Copyright