
- 160 pagine
- Italian
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eBook - ePub
Quota Albania
Informazioni su questo libro
Un anno di guerra e due campagne militari, in Francia e in Grecia, ricostruite grazie a due taccuini fortunosamente salvati. Ed eccolo il diciannovenne caporale Rigoni, conoscitore infallibile di ogni sentiero e bosco, sulle Alpi valdostane, nella breve campagna di giugno contro la Francia, a far conoscenza della prima fame e della tristezza di combattere senza un perché. Poi l'Italia dichiara guerra alla Grecia e tocca agli alpini prendere posizione su quelle desolate montagne albanesi, remote e irreali come crateri sulla Luna. E l'unico a sapersi orientare è Rigoni, che corre imperterrito per chilometri nel fango e nella neve, trovando un modo per sentirsi libero, per riavvicinarsi idealmente ai suoi monti e ritagliarsi l'illusione di una pace dove la vita nel bosco ha ancora il suo antico significato.
Cronologia della vita e delle opere a cura di Giuseppe Mendicino.
Cronologia della vita e delle opere a cura di Giuseppe Mendicino.
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Informazioni
III.
Neve e fango
Il 7 di novembre ero caporale di servizio; pioveva, e per tutta la giornata la compagnia fu indaffarata al magazzino. Plotone per plotone e squadra per squadra si depositavano le coperte da casermaggio, gli sci, le corde e si prelevavano maschere antigas e bombe a mano.
L’indomani affardellammo gli zaini ancora una volta, e nel profondo della notte partimmo. Non c’erano ragazze a salutarci, né vino per riscaldarci, né si cantava. Gli scarponi cadenzavano sul lastricato delle strade: solo qualche luce si accendeva nelle finestre alte delle case e il colonnello, corrucciato e tetro, avvolto nella mantella, da un angolo buio ci guardava passare in silenzio.
Dopo sette ore di marcia arrivammo al treno. Prima di salirvi comperai un giornale: lessi che gli alpini della Julia avanzavano nel Pindo e che presto sarebbero arrivati ad Atene.
Scendevamo giú per l’Italia e le porte del vagone erano sempre spalancate: curiosi, osservavamo le campagne arate, i frutteti, le vigne che ancora tenevano le foglie. Bona, ora, voleva sempre cantare, ed era diventato rauco a forza di gridare saluti e sconcezze alle donne che lavoravano nei campi o che passavano in bicicletta. Rimase ammutolito quando una, in Romagna, si sollevò la sottana fin quasi al viso e battendosi con una mano sul sesso gli rispose: – L’è qua! L’è qua, alpini!
Il mare fu una sorpresa perché molti lo vedevano per la prima volta. Il treno divenne silenzioso e tutti volevano guardare quell’acqua verde, le onde che schiumavano sulla sabbia grigia: il pensiero era che forse dovevamo passare su tutta quell’acqua. Tentai, allora, d’intonare una delle nostre canzoni che ha per tema il mare, ma pochi mi seguivano.
Il viaggio fu lungo e lento: mai si avrebbe pensato che l’Italia fosse cosí lunga; e anche i paesi e le città ci sembravano estranei: piú che non la Francia o il Tirolo.
Arrivammo a Brindisi la notte che gli inglesi attaccarono il porto di Taranto e affondarono le corazzate. Dovevamo imbarcarci quella notte stessa, ma le navi da guerra in rada e l’antiaerea erano tutto uno sparare e, scesi dal treno, ci fecero camminare fino a un paese che si chiamava Tuturano.
Non si era abituati a quel piano, a quel caldo, a quell’arsura improvvisi; eravamo tutti molto stanchi e affamati, e la polvere si era attaccata al nostro sudore. Ma per noi non c’era tregua: il giorno dopo nuovamente spiantammo le tende prima dell’alba e affardellammo gli zaini.
Si diceva che degli aeroplani dovevano portarci al di là del mare, ma quando fummo vicini all’aeroporto ci fecero deviare e ritornare verso Brindisi. Arrivammo al porto alle sei del pomeriggio.
Gli zaini stavano allineati sulla banchina dell’imbarco, e avevamo un’ora di libertà. Giravamo a piccoli gruppi per le strade dietro il porto, spaesati.
Il nostro parlare in dialetto era ostentato e gridato per nascondere il nostro impaccio; quasi nessuno chiese o fece visita alle case di tolleranza, e nelle osterie si avevano pochi soldi da spendere: quel vino, poi, era denso e sciropposo e dava subito alla testa senza creare allegria.
Si era in attesa dell’imbarco, e anche se non era ancora giunta l’ora, eravamo già tutti seduti sugli zaini. Ogni tanto qualcuno faceva colletta tra gli amici per poi correre nell’osteria vicina a comperare una borraccia di quel vino matto.
Nessuno veniva a salutarci e i marinai e gli uomini del porto dicevano parole che non comprendevamo. Ogni tanto ci davano uno sguardo e da quello capivo che provavano per noi pietà e rispetto: come quel giovane marinaio che si avvicinò timido e provò a sollevare il mio zaino.
Incominciarono a issare sulla nave i muli dello scaglione di combattimento. Ferrante, il sergente dei conducenti, e il tenente Fait, facevano venire avanti un mulo alla volta chiamandolo per nome, e mentre il conducente gli parlava e lo accarezzava sul muso, degli estranei gli facevano passare un telone sotto la pancia e lo imbracavano; a un gesto il paranco si metteva in azione e il mulo si trovava a scalciare nell’aria. Terrorizzato. I marinai ridevano e si divertivano, ma noi si guardava in silenzio e nessuno aveva il coraggio di motteggiare.
Quando venne il turno della mula Barca, la piú bella della compagnia, il suo conducente, Saiani, non voleva lasciarla salire da sola sospesa nell’aria, per poi vederla sparire dentro la nave: anche lui voleva salire con il paranco assieme alla mula. Parlava nel suo dialetto paesano ai marinai per spiegare le ragioni, ma, a sorpresa, la mula venne issata e Saiani restò muto con le braccia alzate al cielo. La Barca non scalciava l’aria, ma aveva le orecchie basse e le quattro lunghe gambe a penzoloni.
Fu durante l’imbarco dei muli che improvviso suonò l’allarme. Contemporaneamente alle sirene, incominciarono a sparare le navi da guerra che erano in porto e le batterie antiaeree attorno alla città. Le mitragliere a quattro canne degli incrociatori sparavano traccianti che tagliavano a fette il cielo, e i cannoni a tiro rapido buttavano altissime le bombe che poi scoppiavano come il botto finale dei fuochi alla sagra di San Rocco.
Si guardava stupiti, addossati lungo il muro di un magazzino del porto. Pezzi di malta si staccavano dal muro e schegge di granata andavano a friggere nell’acqua nera, davanti a noi.
Cessò come era incominciato: improvvisamente; e nel silenzio teso ci pareva di udire un rumore lontano di aeroplani.
Venne il momento: la passerella traballava sotto i nostri pesanti passi. Dopo, al sentire anche il rollio della nave, provammo un senso di sbigottimento, e il salvagente di sughero che un marinaio ci consegnò a mano a mano che gli sfilavamo davanti, non contribuí certo a rassicurarci.
Nessuno di noi scese sotto coperta: solamente i conducenti per tenere calmi i muli; tutti volevano stare sopra, vicino, possibilmente, alle lance di salvataggio.
Stavamo sdraiati con la testa sopra lo zaino nei luoghi piú impensati e strani; i marinai, passando, dovevano stare attenti per non calpestarci; nessuno dormiva e, sotto di noi, come dentro il ventre di un mostro, battevano i motori. Restammo cosí per lunghe ore, immobili, finché intuimmo che la nave si era staccata dalla banchina.
Stavamo per uscire in mare aperto: dei marinai, o dei loro graduati, ci dissero di levarci gli scarponi perché erano pesanti, di levarci la giubba e le giberne e mettere il salvagente.
Sentivo sotto di me quell’acqua nera in tutta la sua profondità e, guardando le stelle, cercavo di divagare il pensiero.
Venne l’alba pallida e grigia come i nostri visi tirati: i marinai erano tutti indaffarati ai loro lavori, ma ogni tanto qualcuno si rivolgeva a noi con parole rasserenanti.
Quando la luce fu completa se ne andò anche parte della nostra paura. Alcuni di noi si erano alzati e gironzolavano per i ponti; io guardavo dalla murata quell’acqua plumbea e angosciosa, e niente trovavo che mi ricordasse le avventure dei pirati dei mari caldi, come leggevo sotto i Quattro Larici.
Mi accorsi che c’era anche un’altra nave che trasportava soldati; dietro di noi lasciavamo una larga scia che si perdeva in larghi zigzag per il mare. Tre veloci navi da guerra ci giravano attorno schiumeggiando, e sopra ci volteggiava lento un idrovolante. Il cielo senza sole si era incupito come l’acqua.
Durante il giorno furono pochi quelli che ebbero desiderio di mangiare; ma, del resto, c’erano solamente galletta e scatoletta.
Nel pomeriggio giungemmo in vista di Durazzo e allora i marinai ci dissero che eravamo stati bravi e calmi, anche quando suonò l’allarme per il sommergibile inglese.
La nave non poteva entrare in porto perché i fondali erano bassi e si scese, quindi, prima per una scala a piuoli e poi per una lunga passerella di tavole. Alla fine del traballare sentimmo con grande piacere il terreno sotto i chiodi degli scarponi.
Facemmo subito zaino in spalla, e girandomi a guardare il mare vidi una nave, simile a quella che ci aveva portato, semisommersa dalle acque: pensai fortemente che avrei fatto ritorno in Italia a piedi, un passo dopo l’altro lungo le coste dell’Adriatico, sino a casa.
In qualche parte, su un muraglione coperto di cespugli, vidi un Leone di San Marco che andava sfaldandosi.
Camminammo per le colline lungo il mare paludoso e ancora si sentiva in gola la nausea che si era accumulata sulla nave. La terra era arida, cespugliosa; i rari olivi e fichi si erano inselvatichiti al punto che non li distinguevi dai cespugli, e non portavano frutti. Un paese da serpi.
Dopo un paio d’ore di marcia venne l’alt per accamparci. Per queste colline vi erano anche attendamenti di reparti del 5° alpini e del 2° artiglieria. Altri reparti della Tridentina sono in arrivo e i materiali vengono ammassati vicino agli accampamenti, a cielo aperto, mascherati in qualche modo con sterpi e ramaglia.
Tutti eravamo stanchi e affamati e c’era nell’aria un senso di provvisorio, di malfatto, di fretta inconcludente. Ogni tanto venivano degli autocarri a prendere qualche compagnia: si diceva che andavano all’aeroporto di Tirana e da qui, in aeroplano, a Korça.
Il giorno 17 era domenica: il cappellano venne a celebrare la messa e a darci l’assoluzione collettiva. L’indomani partimmo in autocolonna.
Gli alpini del Morbegno e del Tirano erano già in combattimento da qualche giorno; quelli della Julia si ritiravano dalle montagne della Grecia tra intemperie e combattimenti. Noi si ignorava tutto.
I camion sobbalzavano sulla strada maltenuta, agli scossoni piú forti sentivi bestemmie e imprecazioni; la polvere entrava per le fessure del telone e veniva a posarsi sul nostro sudore.
Dicevano che anche noi si sarebbe andati a Tirana per proseguire, poi, il viaggio in aeroplano. Ma a Tirana, vicino all’aeroporto, sostammo poco: delle automobili andavano e venivano, qualche aeroplano partiva e arrivava; sparò l’antiaerea e il cielo si punteggiò di fiocchi bianchi; spararono anche mitragliatrici che erano su aerei che volavano alti.
I nostri ufficiali erano preoccupati e taciturni; uno disse che il campo dove eravamo destinati a scendere era sotto il tiro dei greci. Risalimmo sui camion e partimmo in fretta.
La partenza improvvisa dalla Val di Fiemme, lo sballottamento da treno a nave, a camion, a campi d’aviazione, tutto questo, unito al poco cibo e poco riposo, ci avevano intontito e niente ci importava. Che ci facessero arrivare in qualche parte, e basta, e dirci: «Siete arrivati. Arrangiatevi».
Con la notte la temperatura si fece piú rigida, i muscoli rabbrividivano; il caporale Baiocchi cercò di dire il rosario a voce alta ma gli scossoni interrompevano bizzarramente gli amen e gli orapronobis.
Mi rinchiusi dentro la mantella. Tutt’intorno era un abisso buio. Nessuno di noi dormiva: seduti sopra gli zaini, elmetto in testa e fucile stretto tra le ginocchia, tenuto con le mani per appoggio come un bastone, sbandavamo nelle curve uno addosso all’altro cozzando con gli elmetti che ci facevano rintronare la testa.
Il camion arrancava per i tornanti, in certi punti s’impennava come un mulo che pianta gli zoccoli: il motore va su di giri, strappa, ondeggia, riparte, e il fumo della nafta sembrava volerci soffocare.
A un alt forzato, perché il camion che ci precede non ce la fa, scendiamo a spingere. Allora vediamo quanto è stretta la strada e profondi i burroni che si aprono sotto. Un autista ci dice che un camion carico di alpini è rotolato giú da un tourniquet all’altro.
Dopo la salita si riprende a correre. Da molte ore, ormai, piú nessuno parla, né prega, né bestemmia; il rumore del motore e delle ruote sui sassi pare che esca da noi, e i fienili, i boschi, i pascoli autunnali lasciati da pochi giorni, sembrano piú lontani dei ricordi dell’infanzia. Ma anche questi sono torbidi come li separasse dalla vita questa polvere densa e grassa di fumo che sentiamo appiccicata ai vestiti, alle armi, al viso, in bocca, dentro i polmoni.
L’alba segna di grigio i contorni dei nostri visi tirati dove barbe lunghe e polvere fanno unica maschera. Nella penombra qualcuno cerca di muovere un braccio o stendere una gamba, ma gambe e braccia sono oggetti strani, come non fossero parte di noi.
Dopo tante ore provo a dire due parole come: «Viene giorno», ma nessuna parola esce dalla mia bocca. Allora cerco uno spiraglio nel telone e vedo la costa di una montagna sterposa, ma non case o segni di vita. Nemmeno uccelli.
La colonna rallenta e un compagno ne approfitta per slegare e aprire il telone. Come assetati beviamo l’aria pura del mattino: poter lavarsi il viso, sciacquarsi la bocca per cacciar fuori la polvere naftosa e bere un caffè, sentire l’odore del pane appena sfornato, vedere il sorriso di una ragazza. Ma questo era una volta e non ne sapevamo il valore: ora mi sembra d’essere inutile come una borraccia vuota.
I camion hanno rallentato la corsa: forse è per farci ammirare questo lago grande e azzurro; l’acqua è limpidissima, le sponde nette e deserte; sull’altra riva le montagne cilestrine sembrano trasparenti come il cielo: ci appaiono anche delle piccole case e un minareto. Nemmeno il laghetto del presepio era cosí bello.
Andavo con Nino a raccogliere il muschio nel bosco del Prunno: si sceglieva quello sui sassi a nord, il piú basso e intensamente verde, e a casa, in soffitta, si faceva il presepio. Grande, con tante cose. Alla vigilia di Natale chiamavamo le ragazze della contrada per ammirare. C’era anche un lago come questo: uno specchio grande era l’acqua, il muschio verdissimo i prati, i sassi rósi da piogge millenarie le montagne, e, in un’ansa, le casette bianche con il minareto. Mettevamo il minareto anche se una signorina che studiava da maestra diceva che era sbagliato, perché Gesú era venuto prima di Maometto, e non c’entrava. Ma a noi piaceva cosí.
Questo lago di oggi è come quello di allora, ma prima che lo popolassimo di personaggi: quando tutto era da abitare. – È il lago d’Ochrida! – ci grida dalla cabina il camionista. – E sull’altra riva c’è la Macedonia e la Grecia.
La Macedonia, la Grecia, l’Epiro:...
Indice dei contenuti
- Copertina
- Frontespizio
- Introduzione. di Giuseppe Mendicino
- Quota Albania
- I. Sul fronte occidentale
- II. Una sosta nel Trentino
- III. Neve e fango
- IV. Lasciarsi vivere
- Cronologia della vita e delle opere
- Il libro
- L’autore
- Dello stesso autore
- Copyright