Un rude inverno
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Un rude inverno

  1. 144 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
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Informazioni su questo libro

Le Havre, 1916, in piena prima guerra mondiale.
Un burbero militare ferito al fronte, devastato da un lutto lontano e dall'idiozia dei suoi contemporanei, coltiva l'odio come una pianta rara. Perché il tempo ricominci a scorrere dovrà attraversare la rude evidenza della solitudine, la confusione del desiderio, la meraviglia dell'amore. Sembra che nella vita degli uomini «da un certo momento in poi, non smetta più di nevicare». Ma la vita, forse, è più forte di qualsiasi inverno, reale e metaforico.
Un romanzo caratterizzato da uno straordinario, aspro umorismo, scritto nel 1939, da troppi anni inspiegabilmente dimenticato. *** «Di sorpresa in sorpresa, di scoperta in scoperta, Un rude inverno si incammina piano piano verso l'inesauribile». Georges Perec *** «Nel rude inverno del 1916 a Le Havre, Bernard Lehameau, tenente francese, s'innamora di miss Helena Weeds, ausiliaria inglese. Fa freddo. Lehameau non è un conformista, è un ferito di guerra e non crede nella vittoria.
Invece Adolf Geifer, venditore di formaggi, è decisamente più entusiasta. Poi c'è Annette, che ha 14 anni, sua sorella Madeleine, che ne ha 25 e considera l'invasione alleata divertente nonché redditizia, e poi monsieur Frédéric e Thérèse e Sénateur, tutti avviluppati in questo inverno freddo e ostile di una Le Havre in guerra.
Un rude inverno è scritto in quello stile straordinario di Raymond Queneau, in cui l'ortografia s'intona all'ispirazione del momento. L'ironia sotterranea conduce, per vie traverse, alla tragedia. E l'intero libro fa un effetto sorprendentemente nuovo, ammaliante e imprevisto». Dalla presentazione dell'edizione francese del 1948, scritta dallo stesso Queneau

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Informazioni

Editore
EINAUDI
Anno
2013
Print ISBN
9788806196769
eBook ISBN
9788858411162

Un rude inverno

I.

I Cinesi avanzavano preceduti da due guardie municipali.
Per godersi lo spettacolo, i trafficanti uscirono dai suq con gli occhi tondi e il becco aperto. I marmocchi galoppavano su e giú per il corteo gridando: i Musigialli, i Musigialli. Sbucarono alle finestre colli tesi, comparvero ai balconi dei curiosi. Un tram risalí la fila asiatica, mentre gli occupanti, a un estremo stadio di coagulazione, apostrofavano gli sfilanti in lingue svariate e in termini insultanti.
Lehameau si arrestò sull’orlo del marciapiede, poco incline all’entusiasmo di fronte all’esotismo.
Dietro i due sbirri marciavano primo due Cinesi dotati senz’altro di qualche autorità sui compatrioti, secundo un Cinese portatore di parasole giallo, tertio un Cinese portatore di oggetto non meno giallo composto da due ellissoidi infilzati su un bastone secondo l’asse maggiore, quarto un Cinese portatore di bandiera cinese provvista di tutte le strisce, quinto un Cinese portatore di bandiera uguale ma proprio identica alla prima, sexto un Cinese martellante su una lastra di ferro, septimo un contorsionista cinese vestito di giallo e guarnito di barba posticcia, octavo un Cinese vestito non meno di giallo martellante due lunghi listelli di legno uno contro l’altro, nono un Cinese portatore d’oggetto che agli occhi dell’astante popolazione europea poteva rappresentare soltanto una canna da pesca, e decimo un centinaio di Cinesi tra i quali a ben guardare dei portatori di piccole bandiere francesi.
L’astante popolazione europea, al momento composta per lo piú da autoctoni e per il resto da Belgi, fatte salve rare eccezioni tra cui piú notevole, agli occhi di Bernard Lehameau quanto meno, era una giovane, alta e bionda, manco a dirlo, Inglese in divisa da WAAC1, l’astante popolazione europea, infermiere, donne, congedati, imboscati, rifugiati, vecchi, infermi e infanti, la popolazione europea tutta intera fatte salve tre o quattro eccezioni tra cui Lehameau e la waac che lui riconobbe perché lavorava alla Base britannica in qualità di dattilografa, la popolazione europea dunque non stava nella pelle dalla gioia per l’esibizione asiatica. Ce n’era di strambi a questo mondo. E per piacergli cosí tanto il giallo, sicuro ch’eran pure un po’ cornuti. Ah sti Cinesi, piú spassosi dei cabili mica tanto spassosi con quei coltellacci, piú spassosi degli indú mica tanto spassosi tutti militari, piú spassosi anche dei negri, e son spassosi i negri.
Arrivati che furono in place Thiers, i Cinesi formarono un cerchio intorno al quale si agglutinò la popolazione europea, e dentro al quale si produssero delle pantomime. Lehameau si prescelse la vicina, giudicandola simpatica per la gravità del volto. La folla rideva, dei Cinesi e della loro semplicità.
– Zey laff, – disse Lehameau, – bicous zey ar stiupid.
La signorina, almeno lui la supponeva tale, sorrise. Lui aggiunse:
– Zey laff, bicous zey du nott undèrstend.
Lui disse ancora:
– Ai laik zett: yu du nott laff.
I Cinesi si misero a cantare, come i gatti se gli tiri la coda, a dir degli uni, come l’aria del re del Siam, a dir degli altri, che quando il piccolo re del Siam era venuto in Francia, tutto quel che gli era piaciuto del concerto è stato quando accordano i violini e gli strumenti, ma che barbari che gente; poi quelli, i Cinesi, ripristinarono il corteo e se ne andarono a far ridere in un altro quartiere.
– Itt uos veri intèrestign, – disse Lehameau. – Hauduiudú?
– Bene, grazie, – disse la signorina militare. – E lei?
– Ma guarda, quindi lei parla francese?
– Sí, ecco perché mi hanno scelta per lavorare a contatto con le autorità militari francesi.
– Complimenti vivissimi. Lei parla francese infinitamente meglio di quanto io non mastichi l’inglese. Eppure, come mi vede faccio l’interprete. Per caso, peraltro. Sono già fuori combattimento.
Le mostrò che per camminare doveva appoggiarsi al bastone, lo faceva piú per vezzo che per necessità, poi precisò a complemento d’indagine:
– Charleroi.
L’informazione fu commentata da un breve silenzio rispettoso, poi riprendendo il filo del discorso prima che deviasse:
– Mia madre era francese.
– Ah, bene bene.
Lui disse un’altra volta: bene bene, poi tacquero entrambi.
– Ecco la mia amica che esce dal negozio, – riprese la signorina militare. – Le chiedo scusa, vado a raggiungerla.
– Ma prego. E poi ci rivedremo presto, non è vero? È quel che spero.
La guardò mentre si allontanava, intanto la folla finiva di disperdersi intorno a lui, e si spegnevano i risolini.
– Magnifica, idioti, – commentò.
Non che gli piacessero i Cinesi, anzi non nutriva per loro la minima indulgenza, anzi condivideva il giudizio dell’imperatore di Germania circa la minaccia che rappresentavano, ma prova a parlare dell’imperatore di Germania a questa gente ottusa; l’incidente non faceva che offrirgli un nuovo pretesto per amplificare il suo disprezzo.
Riprese il cammino e, pensieri in testa e passo fermo ai piedi, portò a termine l’itinerario senza sbavature. Trovò dei ravanelli ad aspettarlo, e il gatto che miagolò sospirando le sardine, e Amélie che temeva l’eccessiva combustione della fricassea. Il padrone di casa sgranocchia i vegetali, accarezza l’animale e risponde all’essere umano che gli chiede quali notizie oggi:
– Non entusiasmanti.
Pensa:
«detestabili»,
ma Amélie, una domestica, non c’è bisogno che conosca fino in fondo i suoi pensieri, a dispetto dei quindici anni di servizio. Ciononostante, vedendo arrivare il piatto caldo, non seppe esimersi dal pronosticare la disfatta dei Rumeni.
– Non hanno la stoffa per resistere ai Tedeschi.
– Ai Crucchi, – corresse Amélie. Amélie non poteva ammettere che un militare francese si rifiutasse di usare l’espressione corrente.
La prudenza di Lehameau, del resto, non era certo eccessiva. Ogni giorno, dal barbiere, non si faceva scrupolo di sbeffeggiare le speranze del volgo, quei pecoroni, lettori del «Matin» e altra cartaccia. Ironizzava sui Cosacchi a cinque tappe da Berlino e manteneva una scettica insolenza davanti ai racconti di pane cacà2, bambini con le mani tagliate e tartine con la marmellata sufficienti alla cattura di un numero di Crucchi pressoché illimitato. Detto fatto, andava creandosi in modo lento ma sicuro una pessima reputazione. Come non bastasse, leggeva i comunicati tedeschi sul «Journal de Genève» a cui era abbonato, il che gli consentiva di rispondere per le rime ai non pochi creduloni pronti a belare l’inesatta prosa dell’informazione francese. Lui sapeva di quante centinaia di metri ripiegavano le truppe francesi in ritirata e di quanti milioni di arscine3 si ritiravano le truppe russe in rotta.
Eppure il volgo belante non osava ribattere piú di tanto. Lehameau era un personaggio rispettabile, funzionario assai graduato da civile, da militare ferito di guerra, forse eroe. Pessimista di carattere, si dicevano, ecco tutto. Tutto sommato però le sparava troppo grosse, come quando sosteneva che potesse durare anche sei mesi, questa guerra. E ancora era modesto a dir cosí, perché in privato dichiarava che sarebbe durata all’infinito, che si sarebbero tirati palle di cannone a sazietà, onde pervenire al massacro vicendevole delle popolazioni occidentali, con sommo giubilo di semiti e musigialli. E ancora era modesto a dir cosí, perché in cuor suo non si fermava certo lí.
Dopo il caffè che amava forte e beveva tiepido, Amélie lo fece sloggiare senza troppi riguardi, doveva sparecchiare. Lui uscí per una passeggiata igienica e solitaria in attesa dell’ufficio, ore curve sui trasporti annunciati, gli andirivieni delle truppe britanniche, lavoro serio e riservato. In genere iniziava prendendo la funicolare per seguire un itinerario tendenzialmente stabile, ma nient’affatto sclerotizzato. Ammetteva svolte, deviazioni, quand’anche smarrimenti. Camminava a passo lento, sia per la zampa rotta un dí, sia per l’umore malinconico. Appoggiandosi al bastone, se ne andava lungo le strade deserte succhiando la pipa di radica con aria filosofica. E cosí facendo, naturalmente pensava.
Pensava alla guerra per esempio, quella che aveva fatto e quella che continuavano a fare. Pensava alla Francia democratica, massonica ed ebraizzata, la Francia dove gli operai s’imboscavano e poi avevano la faccia tosta di comprarsi il pollo la domenica, la Francia che forse poteva anche risollevarsi, impalata sopra un elmo a punta. Pensava a se stesso. Pensava anche a se stesso. Pensava parimenti alla sua famiglia. Pensava a suo padre a sua madre, a sua moglie. Suo padre letteralmente vegetava giú in campagna, in mezzo a un campo di denti di leone. Sua madre era morta. Morí tragicamente, cosí pure sua moglie. Da allora era vedovo, nonché privo di discendenza. Di una vedovanza talmente sincera da far quasi sorridere, qualcuno ci scherzava. Ma lui non pensava a questo. Pensava al suo amore. Pensava ai suoi amori, e alla sua giovinezza, e qualche volta alla sua infanzia. La sua memoria era lastricata di lapidi come quella di un romantico, ma lui, da funzionario coscienzioso, estirpava con cura le erbacce lungo i viali e coltivava con ardore le poche aiuole in fiore che malgrado i tanti inverni non eran punto appassite. Cosí meditava dunque; sognava dunque; rimuginava dunque.
Il giorno dei Cinesi rimuginò fino ai margini della città, e si ritrovò davanti al forte di Tourneville coi suoi fossati, dove la gente veniva ad ascoltare le cannonate del fronte trasmesse fin lí da un fenomeno acustico che solo alcuni giornalisti assai versati in artiglieria avevan saputo spiegare all’ignoranza dei non richiamati. Guardò l’ora, e avendola vista concluse di dover prendere il tram per tornare in città. Aspettò, solo sotto il segnale verde. La pipa era spenta. Sospirò; poi arrivò il tranvai, completamente vuoto. Il rumore dilatava la sua solitudine ritmata dal campanello in testa. Alla fermata successiva salirono due passeggeri. Si sedettero di fronte a Lehameau.
La ragazzina aveva sí e no quattordici anni, forse meno, il ragazzino sei sette. Pagarono poi rimasero un attimo tranquilli. Lehameau si diceva, ma che imprudenza lasciare due bambini a spasso cosí soli soletti per una grande città. Esaminò con piú attenzione la ragazzina e la giudicò preda ideale per un satiro, con quei capelli color dell’amorino, gli occhi piú azzurri e belli di una bambola, la bocca già disegnata per i baci, i giovanissimi seni, le gambe limpidamente modellate, forse ancora un po’ gracili. Lei gli sorrise. Lui arrossí. Scorgendo dei soldati sul marciapiede, il ragazzino disse:
– Eccoli qua, dal Canadà.
Era una provocazione.
– Macché Canade...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Un rude inverno
  3. Gli amletici segreti di Queneau di Stefano Bartezzaghi
  4. Un rude inverno
  5. Il libro
  6. L’autore
  7. Dello stesso autore
  8. Copyright