Conoscevo un tale. Non so che fine abbia fatto. Sosteneva: «Per capire il mondo si deve prima passare dall’inferno». Se aveva ragione, io il mondo lo dovrei capire sopra e sotto, dentro e fuori. Non sono passato solo da un inferno. Ne ho incontrati una quantità. Il primo l’ho attraversato dal 1939 al 1945: la guerra.
Ne è passato di tempo!
Ho visto l’inferno in terra dove uomini seppellivano altri uomini dopo averli costretti a scavarsi la fossa. Dopo gli sparavano. A volte erano morti e a volte no. Dove piloti di aerei uccidevano, non sapevano chi, e se ne tornavano a casa, ad abbracciare figli e mogli e padri e madri e a sperare per loro un avvenire migliore. Dove una scheggia impazzita staccava la testa dal corpo di un amico con il quale, un istante prima, parlavi e dicevi: finirà questa merda di guerra e allora…
Allora niente.
Il secondo inferno l’ho visto con gli occhi di Dante e mi è piaciuto perché metteva al posto giusto le persone ingiuste, senza scampo. Dopo di lui, non è mai piú accaduto.
Il terzo, il quarto, il quinto… ve li racconterò un’altra volta. Adesso vi dirò di un inferno che ho solo immaginato, ma nel quale, prima o poi, ci troveremo. Cercheremo la via per uscirne.
La catarsi.
La scuola l’avevano ricavata nello slargo, detto della Conoscenza, che l’incontro delle due gallerie aveva formato, chissà quanti secoli avanti, sotto il crocevia fra quelle che erano state via Farini e via Castiglione.
La prima galleria era chiamata di San Michele perché si partiva da San Michele in Bosco, sulla prima collina della vecchia città. Passava accanto alla biblioteca dell’antico liceo Galvani e, all’altezza della Cassa di Risparmio, incrociava l’altra per dirigersi poi verso le Due Torri e sbucare, infine, nell’Aposa Bassa, sotto la vecchia via Rizzoli, nei pressi del Ghetto d’antica memoria e vicissitudini.
La seconda galleria, detta del Roncrio, era l’antico canale coperto che scaricava giú dalla collina le acque del torrente Roncrio, dalle parti di quella che fu la porta di San Mamolo. Procedeva verso levante, incrociava a perpendicolo la precedente galleria di San Michele e qui le due gallerie formavano lo slargo della Conoscenza. Il Roncrio proseguiva fino alle acque luride del canale del Savena e lí si concludeva.
Il canale del Savena era il secondo per lunghezza e importanza. Scendeva dalle colline a sud, toccava i Giardini Margherita, scorreva sotto Rialto e continuava anche lui fino all’Aposa, dove le due acque si congiungevano mescolando luridume a luridume.
Lo slargo della Conoscenza era un po’ il centro della vita di Velzna Nuova e da lí si potevano raggiungere comodamente quasi tutte le parti della città. Scrivo comodamente perché altre zone le raggiungevano solo certi specialisti strisciando, arrampicandosi, calandosi in strapiombi e attraversando torrenti sotterranei, spesso a rischio d’improvvise piene e miasmi. Costoro erano chiamati Talpe, e d’essi la comunità si serviva per mantenere contatti con gli abitanti della parte nord e sud di Velzna Nuova e per il trasporto di materiali, alimentari o altre incombenze.
Di tanto in tanto qualche Talpa veniva inviata anche nel Fuori. O vi andava di sua volontà, ché a loro non era vietato. Accadeva solitamente di notte, momento nel quale era piú difficile incontrare la malvagità dei Disperati.
Erano, questi, i predestinati avendo scelto con cognizione di vivere nel Fuori. Nella loro esistenza, che sapevano breve, non si davano remore e la crudeltà, fra loro stessi e verso le Talpe che si avventuravano nel Fuori, era violenta e continua.
Al rientro delle Talpe da una missione nel Fuori, nessuno chiedeva loro: «Che novità?»
Non chiedevano perché sapevano cosa c’era nel Fuori. Non lo sapevano i ragazzi come Ondo, tredici anni e a scuola ogni giorno. Questa era aperta ai giovani di qualsiasi razza, colore e religione e frequentarla era un vanto, ma era altrettanto un vanto non frequentarla. Per capire com’erano mutati i tempi.
Ondo l’aveva sempre frequentata. Fino a quando l’insegnante, alla sua domanda: – Cos’è la catarsi? – gli rispose, dopo essersi guardato attorno per accertarsi che solo Ondo lo ascoltasse:
– È il periodo di purificazione al quale sono sottoposte le anime dei morti…
– Io non sono morto, – l’interruppe lui.
– Nessuno di noi lo è, ma è come se lo fossimo e tutti dobbiamo aspettare la catarsi. Non dire che te ne ho parlato io.
Ondo aveva un desiderio mai rivelato: vedere il sole e Florentia Nova. Aveva ascoltato le descrizioni che gli ultimi Antichi avevano fatto del sole e di Florentia Nova e aveva visto i loro occhi inumidirsi. Da un certo giorno, anche gli Antichi smisero di parlarne e Ondo seppe, allora, di volere il sole e Florentia Nova. Il suo desiderio aumentava ogni volta che gli rispondevano:
– Dimentica il sole e Florentia Nova, Ondo, dimenticali per ora. Aspettiamo la catarsi e dopo, chissà…
– Quando arriverà la catarsi? – e il gesto vago che seguiva la sua domanda lo lasciava insoddisfatto.
«È il periodo di purificazione al quale sono sottoposte le anime dei morti». La frase dell’insegnante trasformò il desiderio di Ondo in progetto. Non frequentò piú la scuola. Chiese a Durlo, una delle Talpe, forse la piú importante, quella che aveva piú viaggi ed esplorazioni sulle spalle, il permesso di seguirlo nel reticolo di gallerie e cunicoli e fognature abbandonate e torrenti e canali coperti, come il Reno dalle parti della Grada o della chiesa delle Acque, che costituivano il suo mondo, il suo habitat, in Velzna Nuova.
Durlo gli rispose: – Sí, puoi, se farai sempre come ti dirò io.
– Cosí farò, Durlo.
Nei primi viaggi Durlo lo portava fino alla barriera dell’antica via Righi e, lí arrivati, gli diceva:
– Aspettami qui, ché tu non sei ancora pronto.
Altri viaggi e se lo portò fino alla cascata di Capo di Lucca. Poi piú giú, alla Montagnola. Un giorno gli disse:
– Questa notte verrai con me al Poligono. Io andrò nel Fuori e tu aspetterai lí il mio rientro, – e Ondo capí che presto sarebbe stato pronto: era di lassú, dal Poligono sulla collina, che si andava nel Fuori.
Il sole e Florentia Nova.
La fuga.
È il giorno e Ondo se ne va in silenzio. Non ha nessuno da salutare.
Un biglietto sul bancone della Sala Grande:
Per me la catarsi è arrivata e oggi comincia il mio sogno. Se tornerò, mi vedrete. Non state a pregare per me ché nessuno, nel Fuori, vi ascolterebbe.
Ondo
Indossa l’equipaggiamento preparato per lui da Durlo e s’infila nel cunicolo sotto la Sala dei Rimpianti, che gli ultimi Antichi chiamano ancora Sala Borsa per chissà quale motivo.
Non mette la maschera, ché qui e per ora non ce n’è bisogno. Il percorso lo ha fatto molte volte assieme a Durlo e lo conosce: in lieve salita per un paio di chilometri, poi s’impenna fino al Poligono, la grande stanza con, al centro, la vasca traboccante acqua scura e fetida. La raccolgono, quest’acqua, dalla pancia sterile della terra, certe gallerie a monte e che penetrano e scompaiono in un buio impossibile da frequentare. Arrivata nella vasca del Poligono, l’acqua s’incanala verso valle in gallerie dalle basse volte in mattoni e si disperde chissà dove andando a contaminare chissà cosa. Da una d’esse è stata deviato il liquame e serve alle Talpe per arrivare dalla Sala Grande alla vasca del Poligono.
Il Poligono è l’ultimo luogo del Sotto. Di qui si abbandona il ventre protettivo di Velzna Nuova e anche la vita cosí com’è conosciuta da Ondo. Alle pareti, alcune tracce d’antichi affreschi segnano l’intonaco scrostato e le pietre corrose. Ondo non li ha ancora capiti, quei dipinti. Eppure li ha visti e studiati ogni volta che Durlo l’ha portato lí e lí lo ha lasciato ad aspettare il suo ritorno dal Fuori.
Dal Poligono in poi è obbligo proteggersi. Poi si sale la scala che sbalza dalla parete e si imbocca il corridoio, fra la vasca e la cupola, che mette nel Fuori.
Prima di aprire la porta stagna, Ondo si ferma a riprendere fiato e a controllare le protezioni.
Maschera? Sí.
Filtri oculari? Sí.
Tuta protettiva? Sí.
Soprascarpe con suola anticorrosione? Sí.
Contenitore alimentare sterile? Sí.
Tutto a posto? Sí.
Non sa cosa troverà nel Fuori. No, lo sa, gliel’hanno raccontato, ma vederlo in diretta, sarà diverso.
Il primo impatto con il Fuori è deludente. Niente sole. Non adesso e non qui. I raggi non forano lo strato di polvere e smog eterno che ristagnano nell’atmosfera immobile, sopra quella città che gli ultimi Antichi si ostinano a chiamare Bologna. Forse per nostalgia.
Fuori dal Poligono, la strada scende in una piccola valle chiusa fra due colline, a levante e a ponente. Se ne vedono, confusi nella bruma, solo i contorni. Il resto è una massa grigia, incombente, minacciosa.
Ondo guarda un mondo che non ha mai veduto.
– Qui sopra, – gli aveva spiegato un giorno Durlo, appena rientrato dal Fuori, – c’è una zona che, quarant’anni fa, era fra i quartieri residenziali piú richiesti.
Quarant’anni fa. Un secolo.
– L’hai veduta?
Senza rispondergli, Durlo aveva completato:
– Tutta la prima collina attorno a Velzna era un paradiso. Ville dai bei parchi verdi; strade asfaltate e in ottimo stato. Poche le auto. Solo dei residenti, come stabilito dall’ordinanza municipale… Dietro le ultime ville, la collina continuava a salire, coperta di verde. Fiori e alberi…
Eccola lí, ora, la collina di Durlo. Brulla, massacrata da rachitici scheletri d’albero. E le macerie delle ville. E i parchi: secchi. E le strade: ricoperte di uno strato scuro, molle come il bitume, e corrose, mangiate da chissà quale acido.
Ondo cerca di immaginare come fosse, quarant’anni fa. Non ci riesce. Lui non c’era e forse solo chi ha visto Velzna allora, può riscoprire adesso, con la fantasia, il brullo, gli scheletri d’albero, il secco… e far tornare la città com’era.
Impossibile. Per chissà quanti anni.
Per Florentia Nova, andare verso sud. A scuola gli hanno spiegato che il Sud è all’opposto del Nord e che il Nord era indicato dall’ago della bussola. Era. Non lo è piú. Adesso l’ago della bussola non si ferma. Gira, impazzito, alla ricerca di un punto fermo che non trova.
Da capo: per Florentia Nova, andare verso sud. Per il Sud, trovare il sole. Per trovare il sole, salire sui monti. E non è facile salire, vestito e protetto com’è Ondo. E con la morchia che gl’incolla le scarpe alla strada. Solo sul bordo, dove non c’era asfalto, le suole si staccano meglio.
Va. Ogni tanto si ferma per gu...