Metti insieme due persone che insieme non sono mai state. Qualche volta è come quel primo tentativo di imbrigliare un aerostato a idrogeno su uno ad aria calda: che cosa preferisci? Precipitare e prendere fuoco, o prendere fuoco e precipitare? Ma a volte invece funziona, nasce qualcosa di nuovo, e il mondo cambia. Solo che, a un certo punto, prima o poi, per una ragione o per l’altra, una delle due persone viene meno. E ciò che viene meno è piú della somma di ciò che c’era. In termini matematici forse non è possibile; ma in termini sentimentali, lo è.
Dopo la battaglia di Abu Klea «orde immense di arabi massacrati» dovettero restare «necessariamente senza sepoltura». Non senza essere ispezionati, tuttavia. Intorno a un braccio di ciascun cadavere fu rinvenuta una fascia di cuoio contenente una preghiera nella quale il mahdi prometteva ai soldati di trasformare i proiettili britannici in acqua. L’amore concede un’analoga sensazione di fiducia e di invincibilità. E a volte, forse perfino spesso, funziona. Riusciamo a schivare i proiettili come Sarah Bernhardt diceva di poter schivare le gocce di pioggia. È sempre in agguato, però, l’improvviso colpo di lancia alla gola. Perché ogni storia d’amore è potenzialmente una storia di sofferenza.
Nella prima parte della vita, il mondo si divide grossolanamente tra chi ha già fatto sesso e chi no. Piú avanti, tra chi ha conosciuto l’amore e chi no. Piú tardi ancora – se si è fortunati almeno (o forse sfortunati, in realtà) – si divide tra chi ha vissuto il dolore e chi no. Si tratta di differenze assolute; di tropici che attraversiamo.
Noi siamo stati insieme trent’anni. Ne avevo trentadue quando ci conoscemmo, sessantadue quando è morta. Il cuore della mia vita; la vita del mio cuore. E sebbene lei detestasse l’idea di invecchiare – nei suoi vent’anni era convinta che non avrebbe mai superato i quaranta –, personalmente amavo il pensiero della nostra lunga esistenza insieme: quando le cose si fanno piú lente e tranquille, quando la memoria diventa una collaborazione. Riuscivo a immaginare me stesso che si prendeva cura di lei; avrei perfino potuto – ma non l’ho fatto mai – immaginarmi nell’atto di scostarle i capelli dalle tempie afasiche, come Nadar, imparare la parte del premuroso infermiere (il fatto che lei avrebbe odiato una simile dipendenza è del tutto irrilevante). E invece, tra un’estate e l’autunno, passammo dall’ansia all’allarme, alla paura, al terrore. Trentasette giorni in tutto, dalla diagnosi alla morte. Mi sono sforzato di non abbassare lo sguardo mai, di guardare le cose in faccia: ne è nata una sorta di assurda lucidità. Quasi tutte le sere, quando uscivo dall’ospedale, mi ritrovavo sull’autobus a fissare con risentimento la gente che tornava a casa a fine giornata. Come osavano starsene lí seduti con quell’aria svagata e dimentica, ostentando profili serafici, quando il mondo era sul punto di cambiare?
Abbiamo un cattivo rapporto con la morte, evento al tempo stesso unico e banale; non siamo piú in grado di considerarlo parte di un disegno piú vasto. E, come ebbe a dire E. M. Forster: «Una morte può anche trovare una spiegazione, ma non getterà mai luce su un’altra». Di conseguenza, anche il lutto diventa inimmaginabile: non solo in termini di durata e profondità, ma anche di consistenza e di tono, nell’inganno delle sue remissioni apparenti, nelle sue ricadute. Come pure nel suo trauma iniziale: all’improvviso precipitiamo nel gelido Mare del Nord equipaggiati soltanto di un ridicolo giubbotto di sughero che in teoria dovrebbe salvarci la vita.
Per giunta, niente ci può preparare alla realtà nuova nella quale coliamo a picco. Ho conosciuto una persona convinta, o fiduciosa, di poterlo fare. Suo marito era da tempo malato di cancro; essendo una donna pratica, lei si era informata in anticipo sulle letture adatte e aveva messo insieme una scorta di classici sul tema della perdita. Quando venne il momento, non fecero alcuna differenza. «Il momento»: la sensazione che siano passati mesi quando, a ben guardare, si è trattato soltanto di giorni.
Per anni mi era capitato di tornare con il pensiero alla cronaca di una scrittrice sulla morte dell’anziano marito. In tutto il suo dolore, ammetteva l’autrice, la voce della verità mormorava talvolta dentro di lei: «Sono libera». Me ne sono ricordato quando è toccato a me, e ho temuto di udire il bisbiglio del suggeritore che sarebbe suonato come un tradimento. Ma quella voce, quelle parole, non si fecero mai sentire. Un lutto non getta mai luce su un altro.
Anche il lutto, come la morte, è banale e unico al tempo stesso. Permettetemi quindi un paragone banale. Chi cambia la marca dell’auto, all’improvviso nota quante altre vetture di quella marca circolino sulle strade. La loro presenza colpisce come non era mai accaduto prima. Chi rimane vedovo, all’improvviso nota tutti i vedovi e le vedove che lo avvicinano. Erano stati piú o meno invisibili, fino a quel momento, e continuano a esserlo, infatti, per i non vedovi, come le auto per gli altri automobilisti.
Ciascuno di noi soffre in carattere col suo personaggio. Sembra ovvio anche questo, ma nel momento del dolore niente è vissuto come ovvio. Un mio amico è morto lasciando moglie e due figli. Come hanno reagito? La moglie si è messa a risistemare la casa; il figlio si è insediato nello studio di suo padre e ne è riemerso solo dopo aver letto ogni messaggio, ogni documento, ogni brandello di testimonianza rimasta; la figlia ha costruito lanterne di carta da far galleggiare sulle acque del lago nel quale si sarebbero disperse le ceneri di suo padre.
Un altro amico è morto all’improvviso, catastroficamente, accanto al tapis roulant del ritiro bagagli in un aeroporto straniero. La moglie si era allontanata per andare a prendere un carrello; al suo ritorno ha trovato una piccola ressa di persone accalcate intorno a qualcosa. Poteva essersi aperta di schianto una valigia. E invece no; di schianto era crollato suo marito, che ormai era morto. Un paio di anni dopo, quando morí mia moglie, mi scrisse: «Il fatto è che la vita è di una precisione assoluta; si soffre nell’esatta misura di quanto vale la perdita, perciò si finisce per affezionarsi al dolore, secondo me. Se non importasse, non importerebbe». L’ho trovato confortante e ho tenuto a lungo la lettera sulla mia scrivania, pur dubitando di poter mai arrivare ad affezionarmi al dolore. D’altra parte, ero solo all’inizio del percorso.
Quello che già sapevo era che funzionano solo le vecchie parole: morte, pena, dolore, tristezza, crepacuore. Nessuna moderna perifrasi o diagnosi scientifica. Il dolore è una condizione umana, non clinica, e, sebbene esistano pillole che aiutano a dimenticarlo – quello e ogni altra cosa –, non esistono farmaci in grado di guarirlo. I dolenti non sono depressi, sono semplicemente, giustamente e matematicamente («si soffre nell’esatta misura di quanto vale la perdita») tristi. Uno degli eufemismi che odio di piú è «spegnersi». «Apprendo con dispiacere che sua moglie si è spenta» (come un abat-jour? come una radio?) Non è necessario imporre agli altri il verbo «morire», anche se è quello che usate di solito. Esistono vie di mezzo. Durante un incontro pubblico al quale lei e io ci saremmo di norma presentati insieme, un conoscente mi si avvicinò e mi disse soltanto: «Manca qualcuno». Mi è sembrato corretto, in entrambe le accezioni del verbo.
Nessun dolore può gettar luce su un altro, ma due dolori possono sovrapporsi. Esiste perciò una sorta di complicità tra i dolenti. Tu solo sai quello che sai – anche se si tratta soltanto di sapere che si sanno cose diverse. Hai attraversato la superficie di uno specchio, come in certi film di Cocteau, e ti sei ritrovato in un mondo riorganizzato in termini di logica e di schema. Un piccolo esempio. Tre anni prima che mia moglie morisse, rimase vedovo un mio vecchio amico, il poeta Christopher Reid. Scrisse dell’agonia della moglie e del dopo. In una poesia in particolare parlò del rifiuto da parte dei vivi di coloro che sono morti:
ma io pure ho incontrato la volontà tribale
di imporre codici e tabú e, maleducatamente,
ho parlato a tavola di mia moglie morta, mentre si
conversava.
Cala un silenzio breve, un comune spavento,
un brivido di orrore.
La prima volta che ho letto questi versi mi sono detto: che strani amici devi avere. E subito dopo: non crederai sul serio di esserti comportato male. Solo quando è toccato anche a me ho capito. Presi subito la decisione (ma dato lo scompiglio che mi regnava in testa forse è piú giusto dire che fu la decisione a prendere me) di parlare di mia moglie ogni volta che mi pareva o ne sentissi il bisogno: fare il suo nome sarebbe stata la norma in ogni conversazione normale, anche se ogni «normalità» apparteneva al passato remoto. Mi sono reso conto ben presto di come il dolore selezioni e riposizioni le persone che circondano il dolente; di come metta alla prova gli amici; di come qualcuno risulti promosso, e qualcuno bocciato. Le vecchie amicizie si possono approfondire grazie a una sofferenza comune; o possono, all’improvviso, apparire prive di peso. I giovani se la cavano meglio dei non piú giovani; le donne, meglio degli uomini. Il che non dovrebbe sorprendere, e invece… In fondo, ci si aspetterebbe che a comprendere meglio fossero le persone piú vicine per età, sesso e stato coniugale. Che ingenuità! Ricordo una conversazione a tavola, simile a quella cui fa cenno Reid; ero in un ristorante con tre amici sposati e piú o meno coetanei. Conoscevano tutti mia moglie da molto tempo – qualcosa come ottanta o novant’anni in totale – e sarebbero stati piú che sicuri di averle voluto bene. Feci il suo nome: nessuno raccolse. Lo ripetei: stessa reazione. È possibile che la terza volta avessi la deliberata intenzione di provocarli, perché quel comportamento, che a me era parso piú un segno di vigliaccheria che di buona educazione, mi aveva fatto incazzare. Spaventati dal contatto con il suo nome, la rinnegarono tre volte e io li condannai per questo.
C’è la questione della rabbia. Qualcuno se la prende con la persona che è morta, che li ha abbandonati e traditi perdendo la vita. Cosa potrebbe esserci di piú illogico? Non sono in tanti a morire volentieri, nemmeno la gran parte dei suicidi. Qualcun altro fra i dolenti se la prende con Dio, ma se Dio non esiste, anche questo atteggiamento è illogico. Alcuni ce l’hanno con l’universo per aver permesso che accadesse, che fosse l’ineluttabile, inesorabile fatalità. Io non ho provato esattamente questo, ma ricordo che quell’autunno del 2008 leggevo i giornali e guardavo la televisione con una sconfinata indifferenza. I notiziari mi sembravano solo una versione su scala piú ampia e piú oltraggiosa di quelle folle di passeggeri immemori su autobus il cui carburante era una miscela di ignoranza ed egoismo. Per qualche strana ragione mi interessavo molto all’elezione di Obama, ma pochissimo a tutti gli altri eventi mondiali. Si diceva che l’intero sistema finanziario fosse sul punto di prendere fuoco e precipitare, ma a me non importava affatto. I soldi non l’avrebbero salvata, perciò che senso avevano e perché avremmo dovuto cercare di salvare loro? Si diceva che il clima del pianeta stesse per raggiungere un punto di non ritorno, ma per quanto mi riguardava poteva pure superarlo. Mentre rientravo a casa in macchina dall’ospedale, nel tratto di strada subito prima di un ponte ferroviario, mi veniva in mente questa frase che mi ripetevo ad alta voce: «È solo l’universo che fa il suo mestiere». Tutto qui, nient’altro, un immenso, mostruoso «nient’altro». Le parole non offrivano consolazione; forse avevano come unico scopo quello di opporsi ad altre false consolazioni. Ma se l’universo stava solo facendo il suo mestiere, per me poteva completare l’opera andando all’inferno pure lui. Che me ne facevo io di salvare il mondo se il mondo non aveva potuto, o voluto, salvare lei?
Un’amica il cui marito morí quasi all’istante di un ictus intorno ai cinquantacinque anni mi disse di essere arrabbiata non con lui, ma con il fatto che lui non lo sapeva. Non sapeva che sarebbe morto e non aveva avuto il tempo di prepararsi, di salutare lei e i figli. È un caso di rabbia contro l’universo. Contro l’indifferenza, quella della vita, che si limita ad andare avanti fino al momento in cui si limita a finire.
La rabbia si può trasferire invece sugli amici. Per la loro incapacità di fare o dire le cose giuste, per un’indesiderata invadenza, o un’apparente froideur. E poiché i dolenti sanno di rado che cosa vogliono o di cosa hanno bisogno, ma solo cosa non vogliono, le reciproche offese sono all’ordine del giorno. Certi amici sono spaventati dal dolore non meno che dalla morte; ti evitano come se temessero il contagio. Altri, senza saperlo, quasi si aspettano che sia tu a sobbarcarti anche il loro cordoglio. Altri ancora sfoderano uno smagliante senso pratico. «Allora, – domanda una voce una settimana dopo il funerale di mia moglie, – che intenzioni hai? Perché non ti organizzi un viaggio a piedi?» Sbraito dentro il telefono per un paio di minuti e metto giú. No: i viaggi a piedi noi due li facevamo insieme, quando la mia vita era all’altezza.
Eppure, col senno di poi, quella domanda insolente non era poi tanto assurda. Mi è capitato, negli anni, di immaginare che cosa avrei potuto fare se mi fosse successo «qualcosa di brutto». Non entravo nei dettagli di che cosa intendessi con quella espressione, ma le possibilità risultavano alquanto limitate. Mi ero detto in anticipo che avrei fatto due cose, di cui una di poco conto e l’altra piú importante. La prima era che mi sarei finalmente arreso a Rupert Murdoch abbonandomi a una pletora di canali sportivi. La seconda, che avrei fatto un viaggio a piedi, da solo, in tutta la Francia o, se quest’ipotesi si fosse rivelata irrealizzabile, almeno in una zona, in particolare quella che costeggia il Canal du Midi dal Mediterraneo all’Atlantico, lo zaino in spalla, armato di un quaderno nel quale avrei registrato i tentativi di venire a patti con quel «qualcosa di brutto». Quando è successo però, non ho avuto il minimo desiderio di infilarmi gli scarponi. Senza contare che «viaggio a piedi» non sarebbe certo stata la definizione corretta per quella marcia forzata del dolore.
Mi furono proposte altre distrazioni, offerti altri consigli. Alcuni reagirono come se la morte della persona amata fosse una specie di forma estrema di divorzio. Mi suggerirono di prendermi un cane. Rispondevo sarcasticamente che non mi pareva quel gran sostituto di una moglie. Una vedova mi mise in guardia dicendomi che dovevo «cercare di non far caso alle altre coppie» – ma quasi tutti i miei amici sono in coppia. Qualcuno suggerí che affittassi un appartamento a Parigi per sei mesi o, in alternativa, «un villino sulla spiaggia in Guadalupa». Lei e il marito potevano badare a casa mia mentre non c’ero. A loro sarebbe stato benissimo, e avrebbero anche avuto «il giardino per Freddie». La proposta mi arrivò via e-mail durante l’ultimo giorno di vita di mia moglie. E Freddie era il loro cane.
Naturalmente, i Sacerdoti del Silenzio come i dispensatori di consigli dovevano provare a loro volta dolore, o magari rabbia che forse riversavano su noi, anzi su di me. Può darsi che avessero voglia di dirmi: «Il tuo dolore ci mette a disagio. Aspettiamo solo che passi. E, a proposito, senza di lei sei meno interessante». (Questo è vero: mi sento proprio meno interessante senza di lei. Quando sono solo e le parlo, varrebbe la pena starmi a sentire; ma quando parlo a me stesso, no. «Oh, piantala di seccarmi», mi rimprovero, mentre ripeto a me stesso la mia solfa). Sí, se la pensassero cosí, sarei d’accordo con loro. Un amico americano me l’ha detto chiaro: «Ho sempre pensato che te ne saresti andato prima tu». Ho capito che cosa intendeva: la mia sopravvivenza sembrava l’eventualità meno probabile. Ma forse voleva anche dire che avrebbe preferito se le cose fossero andate cosí. E anche in tal caso ho ben poco da eccepire.
Un’altra cosa che non sai è che impressione gli altri hanno di te. Non è detto che quello che provi coincida con quello che appare. Vediamo che cosa provi. Ti senti come se fossi precipitato da un’altezza di qualche centinaio di piedi, senza mai perdere i sensi, e fossi atterrato in un’aiuola di rose con tale violenza da ficcarti a terra fino alle ginocchia, mentre lo shock dell’impatto ti ha spappolato gli organi interni scaraventandoli fuori dal corpo. Ecco, questo è ciò che provi; perché mai dovrebbe apparire qualcosa di diverso? Non sorprende dunque che qualcuno cerchi di deviare la conversazione su un argomento piú rassicurante. Anzi, è possibile che non si tratti di evitare lei, né la morte, bensí di evitare te.
Non credo che la vedrò mai piú. Non la potrò mai piú vedere, sentire, toccare, abbracciare, ascoltare; non riderò piú con lei, non aspetterò il rumore dei suoi passi, non sorriderò sentendole aprire la porta, non incastrerò il suo corpo nel mio, il mio nel suo. E non credo nemmeno che ci rincontreremo con chissà quali fattezze smaterializzate. Sono convinto che chi è morto è morto. C’è chi pensa che il dolore sia una forma di furioso ancorché giustificabi...