Gli Zachlebinin erano effettivamente «una famiglia molto per bene», come aveva detto poco prima Vel′čaninov, e lui, Zachlebinin, era un funzionario assai capace e noto. Era vero anche tutto ciò che Pavel Pavlovič aveva detto dei loro redditi: «pare che se la passino bene, ma se muore lui non rimane nulla».
Il vecchio Zachlebinin accolse Vel′čaninov con molta cordialità, e il «nemico» di prima si trasformò completamente in un amico.
– Mi congratulo, è meglio cosí, – prese a dire subito, con aria garbata e dignitosa, – io stesso insistetti per una composizione pacifica, e Pjotr Karlovič – (l’avvocato di Vel′čaninov) – sotto questo aspetto è un uomo d’oro. Avrete sessantamila rubli e senza seccature, senza dilazioni, senza liti! E la causa poteva trascinarsi per tre anni!
Vel′čaninov fu subito presentato anche a Madame Zachlebinin, una signora di mezza età, assai corpulenta, con una faccia melensa e stanca. Cominciarono a spuntare anche le ragazze, una dopo l’altra o a coppie. Ma ce n’erano fin troppe; a poco a poco se ne raccolsero dieci o anche dodici, Vel′čaninov non riuscí a contarle; alcune entravano, altre uscivano. Però c’erano fra loro molte amiche delle ville vicine. La villa degli Zachlebinin – una grande casa di legno, di uno stile ignoto ma bizzarro, con costruzioni di epoche diverse, aveva un vasto giardino; ma su quel giardino s’affacciavano dai vari lati tre o quattro altre ville, sicché il gran giardino era comune, e ciò naturalmente favoriva la familiarità delle ragazze con le vicine. Vel′čaninov, fin dalle prime parole della conversazione, si accorse che era atteso e che la sua venuta, quale amico di Pavel Pavlovič, desideroso di far conoscenza, era stata annunciata quasi in forma solenne. Il suo sguardo acuto ed esperto di cose simili osservò anche una particolarità: l’accoglienza troppo premurosa dei genitori, una certa aria speciale delle ragazze e il loro abbigliamento – (benché, del resto, fosse giorno di festa) – fecero nascere in lui il sospetto che Pavel Pavlovič ci avesse messo lo zampino, che avesse, con ogni probabilità, suggerito a quelle persone, beninteso senza aperte parole, un’idea di lui, dipingendolo come uno scapolo che si annoiava, «uno della buona società», e danaroso, il quale molto, ma molto probabilmente si era deciso infine a «cambiare strada», e ad accasarsi, «tanto piú che aveva avuto un’eredità». La maggiore delle signorine Zachlebinin, Katerina Fedoseevna, quella che appunto aveva ventiquattro anni e di cui Pavel Pavlovič aveva detto che era una creatura incantevole, pareva si fosse un poco intonata alla circostanza. Spiccava in modo particolare tra le sorelle per il suo abbigliamento e per l’acconciatura originale delle folte chiome. Le sorelle, poi, e tutte le altre ragazze, avevano l’aria di sapere già con sicurezza che Vel′čaninov si presentava «per Katja» ed era venuto a «guardarla». Le occhiate e anche certe parolette colte per caso nel corso della giornata, lo confermarono in seguito in questa sua congettura. Katerina Fedoseevna era una bionda alta, fiorente e quasi pingue, con un viso molto grazioso, un temperamento tranquillo e per nulla intraprendente, anzi sonnolento. «È strano che sia rimasta zitella, – pensò Vel′čaninov involontariamente, – anche se è senza dote e se si sfascerà presto, cosí com’è ora c’è tanta gente a cui piace questo tipo...» Tutte le altre sorelle non potevano dirsi brutte neppur loro e tra le amiche c’era qualche piccolo viso vivace e perfino grazioso. La cosa cominciò a divertirlo; e, del resto, egli era venuto con una disposizione di spirito particolare.
Nadežda Fedoseevna, la sesta, la studentessa ginnasiale e presunta fidanzata di Pavel Pavlovič, tardava a comparire. Vel′čaninov l’aspettava con impazienza, del che si stupiva e sorrideva tra sé. Finalmente comparve, e non senza far sensazione, in compagnia di un’amica ardita e vivace, Marja Nikitišna, una brunetta dal viso buffo, della quale, come si vide subito, Pavel Pavlovič aveva una paura matta. Questa Marja Nikitišna, una ragazza di ventitre anni, beffarda e anche intelligente, era governante presso i bambini d’una famiglia vicina e amica, e da un pezzo gli Zachlebinin la consideravano di casa e le fanciulle ne avevano grande stima. Si vedeva che adesso era particolarmente necessaria a Nadja. Fin dal primo sguardo, Vel′čaninov notò che le ragazze erano tutte contro Pavel Pavlovič, anche le amiche, e due minuti dopo che Nadja era entrata, fu certo che anche lei lo odiava. Osservò inoltre che Pavel Pavlovič non se ne accorgeva affatto, o non voleva accorgersene. Senza alcun dubbio Nadja era la piú carina fra tutte le sorelle, piccola, bruna, con un’aria di selvaggia e con l’ardire di una nichilista; un furbo demonietto dagli occhi di fuoco, dal sorriso incantevole, benché spesso maligno, con labbruzzi e dentini meravigliosi, sottile, slanciata, con un principio di pensiero palese nell’espressione ardente del volto, pur quasi ancora del tutto infantile. I suoi quindici anni trasparivano in ogni mossa, in ogni parola. Egli scoperse poi che realmente Pavel Pavlovič l’aveva veduta la prima volta con la cartella di tela cerata fra le mani; ma adesso non la portava piú.
Il regalo del braccialetto fu un fiasco assoluto; e generò anzi un’impressione spiacevole. Non appena Pavel Pavlovič ebbe scorto da lontano la fidanzata che sopraggiungeva, le si avvicinò con un sorriso. Offerse quel suo regalo adducendo il pretesto «del gradito piacere provato la volta prima, in occasione della gradevole romanza cantata al pianoforte da Nadežda Fedoseevna...» S’impappinò, non finí la frase e rimase lí, come smarrito, tendendo e cacciando in mano a Nadežda Fedoseevna l’astuccio col braccialetto; essa non volle prenderlo e tutta rossa di vergogna e di rabbia ritraeva le mani. Ardita si rivolse alla mamma, il cui viso esprimeva imbarazzo, e disse forte:
– Non voglio prenderlo, maman!
– Prendilo e ringrazia, – proferí il padre con severità pacata, ma anche lui era piuttosto scontento. «Superfluo, superfluo!» borbottò, quasi per ammonire Pavel Pavlovič. Non potendo fare altrimenti Nadja prese l’astuccio e, chinando gli occhi, fece una profonda riverenza, alla maniera delle bambine, cioè si inchinò di scatto e di scatto si rialzò, quasi spinta da una molla. Una delle sorelle le si accostò per guardare, e Nadja le porse l’astuccio non ancora aperto, quasi a significare che non voleva neppure darvi uno sguardo. Il braccialetto fu tirato fuori e tutte se lo passarono di mano in mano; ma tutte lo guardavano in silenzio, e alcune anche ironicamente. Soltanto la mamma balbettò che il braccialetto era proprio carino. Pavel Pavlovič avrebbe voluto sprofondare sotto terra.
Vel′čaninov lo trasse d’impaccio.
A un tratto attaccò a discorrere ad alta voce e con brio, afferrando la prima idea che gli capitò, e non erano trascorsi cinque minuti che aveva conquistato l’attenzione di tutti quanti erano in salotto. Aveva imparato a meraviglia l’arte di chiacchierare in società, cioè l’arte di apparire schietto, e, insieme, d’aver l’aria di ritenere gli ascoltatori non meno schietti. Con estrema naturalezza riusciva a fingersi, quando occorreva, l’uomo piú allegro e felice della terra. Sapeva anche inserire, con molta abilità, qualche paroletta arguta e mordace, un’allusione faceta, una freddura curiosa, ma proprio come se fosse per caso, quasi inavvertitamente, mentre l’arguzia, la freddura e tutto quanto il discorso erano forse da tempo bell’e pronti, imparati a memoria ed erano già stati piú volte adoperati. Ma quel giorno alla sua arte si univa la natura stessa: sentiva che era in vena, sentiva che qualcosa lo seduceva; sentiva in sé la convinzione assoluta e vittoriosa che fra qualche minuto tutti quegli occhi si sarebbero rivolti verso di lui, tutta quella gente avrebbe ascoltato soltanto lui, avrebbe parlato soltanto con lui, avrebbe riso soltanto di quel che diceva lui. E, realmente, si udí presto una risata, a poco a poco anche gli altri entrarono a discorrere, – ed egli possedeva a perfezione l’arte di attirare nella conversazione anche gli altri, – risonavano già tre o quattro voci che parlavano tutte insieme. Il viso annoiato e stanco della signora Zachlebinin s’illuminò quasi per la gioia; lo stesso accadde anche a Katerina Fedoseevna che ascoltava e guardava come incantata. Nadja lo scrutava di sottecchi, guardinga; si vedeva che era già prevenuta contro di lui. Questo eccitò ancor piú Vel′čaninov. La «maligna» Marja Nikitišna trovò modo di insinuare nella conversazione una frecciata abbastanza pungente sul suo conto: inventò e sostenne che Pavel Pavlovič l’aveva presentato il giorno prima come un suo amico d’infanzia, e in tal modo, con questa chiara allusione, lo invecchiava di sette anni buoni. Ma anche alla cattiva Marja Nikitišna egli piacque. Pavel Pavlovič era decisamente perplesso. Aveva certo un’idea dei mezzi di cui disponeva il suo amico e al principio si era perfino rallegrato del suo successo, aveva ridacchiato e preso parte alla conversazione; a poco a poco, però, chissà perché, divenne pensieroso e da ultimo sembrò perfino avvilito, a quanto si leggeva nell’espressione ansiosa dei suoi tratti.
– Siete un ospite che non ha bisogno d’essere intrattenuto, – decise allegramente infine il vecchio Zachlebinin, alzandosi dalla sedia per andarsene di sopra in camera sua, dove, benché fosse giorno festivo, erano già preparate alcune pratiche d’ufficio da esaminare, – figuratevi un po’, io che vi credevo il piú nero ipocondriaco di tutta la nostra gioventú. Ecco come si può sbagliare!
Nel salotto c’era un pianoforte a coda; Vel′čaninov domandò chi studiasse musica e a un tratto si rivolse a Nadja.
– Voi cantate, non è vero?
– Chi ve l’ha detto? – fece bruscamente Nadja.
– Pavel Pavlovič ne ha parlato poco fa.
– È una bugia; canto solo per scherzo; non ho voce.
– Nemmeno io ho voce, eppure canto.
– Dunque ci canterete qualcosa? Be’, allora anch’io canterò per voi, – disse Nadja, roteando gli occhietti, – però non adesso, dopo pranzo. Non posso patire la musica, – soggiunse, – questi pianoforti mi hanno stufata; in casa nostra dalla mattina alla sera tutti cantano e suonano; solo Katja è brava.
Vel′čaninov colse a volo l’accenno e si scoprí che Katerina Fedoseevna era l’unica che studiasse il pianoforte seriamente. Egli si rivolse subito a lei pregandola di suonare. Tutti furono visibilmente lieti che si fosse rivolto a Katja, e maman arrossí perfino dal piacere. Katerina Fedoseevna si alzò in piedi sorridendo, andò al pianoforte, ma improvvisamente, con sua meraviglia, si fece anche lei tutta rossa; e d’un tratto ebbe una vergogna terribile di arrossire come una bambina, lei cosí grande e già di ventiquattro anni, e cosí grassa, e tutto ciò le stava scritto sul viso mentre si sedeva a suonare. Suonò qualcosa di Haydn e suonò correttamente, benché senza espressione, ma era intimidita. Quando finí, Vel′čaninov si mise a lodare caldamente non lei, ma Haydn, e in particolare quella cosetta che lei aveva suonato, e visibilmente lei ne ebbe tanto piacere e ascoltava con aria cosí grata e felice le lodi non rivolte a lei ma a Haydn, che involontariamente Vel′čaninov prese a guardarla con piú gentilezza e con piú attenzione. «Sei proprio una cara ragazza!» Questo pensiero gli passò come un lampo nello sguardo e tutti sembrarono aver capito quel suo sguardo, in particolare la stessa Katerina Fedoseevna.
– Avete un gran bel giardino, – egli disse a un tratto rivolto a tutte, guardando la porta a vetri della terrazza, – sapete? Andiamo tutti in giardino.
– Andiamo, andiamo! – echeggiarono strilli di gioia, come se egli avesse indovinato il massimo desiderio di tutte.
Passeggiarono in giardino fino all’ora di pranzo. La signora Zachlebinin, che da un pezzo avrebbe voluto andare a riposare, non seppe resistere nemmeno lei e uscí a passeggiare con gli altri, ma poi assennatamente sedette e si riposò sulla terrazza, dove subito si addormentò. In giardino i rapporti fra Vel′čaninov e tutte le ragazze si fecero ancora piú amichevoli. Egli notò che dalle ville vicine si erano uniti alla brigata due o tre giovanottini: uno era uno studente universitario e l’altro un semplice ginnasiale. Costoro balzarono subito ognuno dalla propria ragazza, e si vedeva che erano venuti per loro; il terzo «giovanotto», un ragazzo ventenne molto cupo e arruffato, con grandi occhiali azzurri, cominciò a bisbigliare, frettoloso e accigliato, con Marja Nikitišna e con Nadja. Squadrava severamente Vel′čaninov, e sembrava che si sentisse in dovere di trattarlo con enorme disprezzo. Alcune ragazze proposero d’incominciare senz’altro a giocare. Quando Vel′čaninov domandò a che cosa, risposero che giocavano a tutti i giuochi e anche a rimpiattino, ma che di sera giocavano ai proverbi, cioè tutti si mettono seduti e uno s’allontana; gli altri scelgono un proverbio, per esempio: «Chi va piano va sano e va lontano» e quando quello viene chiamato, ognuno o ognuna a turno deve preparare e dire una frase. Il primo deve assolutamente dire una frase che contenga la parola «Chi», il secondo una che contenga la parola «va», ecc. E l’altro deve immancabilmente afferrare tutte queste parolette e da esse indovinare il proverbio.
– Dev’essere molto divertente, – osservò Vel′čaninov.
– Macché, è noiosissimo! – risposero due o tre voci insieme.
– E poi giochiamo anche al teatro, – saltò su a un tratto Nadja, rivolgendosi a lui. – Vedete quel grosso albero, con una panca tutt’intorno? Là dietro l’albero immaginiamo che ci siano le quinte e là seggono gli attori, insomma, diciamo, il re, la regina, la principessa, l’attor giovane, a ciascuno la parte che preferisce; e ciascuno vien fuori quando crede e dice quello che gli passa per la testa, una cosa qualsiasi, e poi esce di nuovo.
– Ma è magnifico! – lodò ancora una volta Vel′čaninov.
– Macché, è noiosissimo! Al principio ogni volta ne vien fuori una cosa allegra, ma da ultimo ogni volta è un gran pasticcio, perché nessuno sa finire; a meno che con voi ci si diverta di piú. Noi si pensava che foste amico di Pavel Pavlovič, invece è saltato fuori che è stata soltanto una sua vanteria. Sono molto lieta che voi siate venuto... per un motivo, – lanciò un’occhiata molto seria e penetrante a Vel′čaninov e subito andò a raggiungere Marja Nikitišna.
– Stasera si giocherà ai proverbi, – sussurrò a un tratto in confidenza a Vel′čaninov una delle amiche che egli aveva appena notato fino a quel momento e con la quale non aveva ancora scambiato una parola, – stasera di Pavel Pavlovič rideranno tutti, e anche voi.
– Che bellezza che siete venuto, da noi ci si annoia tanto! – gli disse cordialmente un’altra amica, anche questa da lui non osservata fino a quel momento, spuntata fuori da Dio sa dove, rossa di capelli, lentigginosa, con un viso assai buffo, acceso dalla passeggiata e dal caldo.
L’inquietudine di Pavel Pavlovič andava crescendo. Infine, in giardino, Vel′čaninov era già riuscito completamente a intendersela con Nadja; essa non lo guardava piú di sottecchi come prima e pareva avesse smesso l’idea d’esaminarlo piú minutamente, ma rideva, saltava, strillava e un paio di volte lo prese anche per mano; era felicissima, seguitava a non badare affatto a Pavel Pavlovič, quasi non si accorgesse di lui. Vel′čaninov si convinse che esisteva una vera e propria congiura contro Pavel Pavlovič; Nadja e un branco di ragazze trassero Vel′čaninov da una parte, mentre le altre amiche attiravano Pavel Pavlovič dall’altra, con pretesti vari; ma questi si liberava a forza e correva subito a precipizio da lo...