Il conto dell'Ultima Cena
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Il conto dell'Ultima Cena

Il cibo, lo spirito e l'umorismo ebraico

  1. 152 pagine
  2. Italian
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  4. Disponibile su iOS e Android
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Il conto dell'Ultima Cena

Il cibo, lo spirito e l'umorismo ebraico

Informazioni su questo libro

La tradizione ebraica della kasherut indica i cibi che si possono consumare perché conformi alle regole della Torah. Ma oltre a questo, il cibo ebraico ha prodotto un'enorme mole di storielle, divieti, ricette e prescrizioni che Ovadia ripercorre con la consueta miscela di umorismo e santità: cullandoci tra pasti e digiuni, tra falafel, molokheya, hommus e altre leccornie, tra antiche osterie e contaminazioni culinarie, e una musica che accompagna l'ospite a tavola, con l'ironia tipica dell'ebreo errante.
Per un viaggio che guarda al cielo con il gusto della terra. Un viaggio dalla manna del deserto, il cosiddetto «pane degli angeli», fino a Pesakh, la Pasqua, dove un Gesú ebreo mangia agnello, pane azzimo, erbe amare e dessert.

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Informazioni

Editore
EINAUDI
Anno
2013
Print ISBN
9788806208707

Il conto dell’Ultima Cena

Il conto dell’Ultima Cena

I rapporti fra ebrei e cristiani nel corso di oltre venti secoli sono stati alterni, complessi, travagliati e spesso, fino a tempi recenti, drammatici.
Il mondo cristiano ha a lungo guardato agli ebrei come ai peccatori che hanno crocifisso Gesú, che hanno continuato a perseverare nell’errore non accettando la grande verità salvifica universale, la redenzione della croce, preferendole il tetragono e vendicativo D-o veterotestamentario ovvero – sia detto per inciso – il Padre celeste di Gesú e di tutti gli uomini.
Il disprezzo con cui i cristiani hanno trattato gli ebrei talora si è espresso con umilianti imposizioni di omaggio e di sottomissione a cui gli ebrei stessi erano obbligati a soggiacere.
Il grande poeta Giuseppe Gioachino Belli ricorda la pratica di questi tristi rituali nel suo sonetto L’omaccio1 de l’ebbrei.
Ve vojjo dí una bbuggera, ve vojjo.
Er giorno a Rroma ch’entra carnovale
li ggiudii vanno in d’una delle sale
de li Conzervatori2 a Ccampidojjo;
e ppresentato er palio prencipale
pe rriscattasse da un antico imbrojjo,
er Cacamme3 j’ordissce un bell’orzojjo4
de chiacchiere tramate de morale.
Sta moral’è cch’er ghetto sano sano
giura ubbidienza a le Legge e mmanate5
der Zenato e dder popolo romano.
De cuelle tre pperucche inciprïate
er peruccone allora ch’è ppiú anziano
arza una scianca e jj’arisponne: «Andate».
Ma gli incontri fra la Chiesa cattolica e le delegazioni delle comunità ebraiche non erano improntati solo ai rituali di sottomissione o di umiliazione. Talora si trattava di relazioni «diplomatiche» che intendevano manifestare civilmente un reciproco fastidio.
Una di queste manifestazioni, che avveniva ogniqualvolta si insediasse sul soglio pontificio di Roma un nuovo papa, era di natura segreta e solo gli adepti di una piccola conventicola ne hanno sentito parlare. Io sono tra costoro.
Dunque, dopo alcune settimane che il pontefice romano si era insediato, una delegazione della comunità ebraica di Roma guidata dal rabbino capo si recava a San Pietro portando un’antichissima pergamena sigillata. Il papa, impassibile, riceveva la delegazione, il rabbino capo gli porgeva la pergamena con un sopracciglio alzato e il piglio interrogativo, e il sommo pontefice faceva spallucce, alzando sdegnosamente la mano a significare che non ci pensava nemmeno di accettare quel vetusto documento. A quel punto la delegazione ebraica lasciava il Vaticano.
A ogni nuovo papa la scena si è ripetuta uguale per secoli. Fin quando è asceso al soglio di Pietro un porporato di indole assai curiosa – non ne faremo il nome per rispetto della segretezza – il quale ha attivato la propria diplomazia per concordare con l’allora rabbino capo di Roma un seguito, coperto dalla piú assoluta riservatezza, da porre in atto al termine del solito rituale. Cosí il segretario di Stato del Vaticano e il presidente della comunità ebraica si sono accordati in gran segreto perché a cerimonia conclusa il rabbino capo rientrasse da una porticina nascosta, al fine di appartarsi col papa in uno studiolo e quindi procedere a dissigillare la pergamena senza danneggiare il sigillo. Con lo scopo di conoscere, finalmente, il segretissimo contenuto dell’antico scritto.
Per compiere con il vapore la delicata operazione ci vollero parecchi minuti… poi, con grande trepidazione, srotolarono la preziosa pergamena e, con la voce rotta dall’emozione, cominciarono a leggere l’intestazione: «Conto dell’Ultima Cena».
Non sono in grado di informare il lettore sull’ammontare dell’importo richiesto per quel celebre pasto a Gesú e agli apostoli. Essi, per risapute ragioni, non riuscirono a onorare il debito. Però sono in grado di riferire alcune cose riguardo a quella cena: Gesú e gli apostoli scelsero di sicuro una locanda nota per il suo rispetto delle leggi della Torah, altrimenti come spiegare i versetti di Matteo:
Amen, sí vi dico, finché i cieli e la terra non saranno passati, non passerà una sola yod [iota], non un solo segno della Torah che tutto non si compia. Anche l’uomo che distrugge una sola delle sue mitsvòt [precetti], anche la piú piccola, e ne fa insegnamento agli uomini sarà chiamato minore nel Regno dei Cieli, ma chiunque la mette in pratica e la insegna, colui sarà chiamato grande nel Regno dei Cieli6.
L’oste aveva di certo ripulito minuziosamente il locale da ogni minima traccia di cibo lievitato e di bevanda o condimenti fermentati, cosí come prescrivono i precetti del Pesakh. Quindi tutti avranno cominciato il rito con le benedizioni, a partire dal qaddesh, la consacrazione della festa in cui si recita il kiddush (la benedizione del vino), poi avranno bevuto il primo bicchiere di vino – un vino intenso e ricco dei profumi del sole e della santità, anche se enologicamente non «corretto» – e si saranno seduti comodamente e persino stravaccati (perché l’uomo liberato dalla schiavitú non ha piú costrizioni). Avranno fatto l’urkhas, il lavaggio delle mani, senza recitare la benedizione, ed eseguito il carpas, l’atto di intingere del sedano, del prezzemolo o un pezzo di patata nell’aceto o nell’acqua salata recitando la preghiera: «Benedetto tu, o Signore, D-o nostro, Re del mondo, creatore del frutto della terra».
A quel punto Gesú avrà compiuto la cerimonia del jahaz, preso dal piatto rituale tre azzime sovrapposte7 ed estratto l’azzima di mezzo, poi l’avrà spezzata chiedendo che una delle due metà fosse nascosta. Fatto questo, avrà riempito il secondo bicchiere di vino e dato principio alla lettura della haggadah del Pesakh.
La haggadah è il racconto della schiavitú d’Egitto, dell’oppressione degli ebrei e della loro liberazione a opera di prodigi e miracoli. Gesú avrà partecipato alla lettura, prestato attenzione alle quattro domande sul senso intimo della festa poste dal piú piccolo partecipante al seder8, avrà ascoltato e ripetuto l’elenco delle piaghe mandate per domare la crudele caparbietà tirannica del faraone. Gesú avrà meditato con tremore sul passaggio in cui il Santo Benedetto si assume la piena e diretta responsabilità dell’uccisione dei primogeniti egizi, di uomini e animali, ne avrà di sicuro capito gli abissi e il significato intrinseco, avrà cantato i magnifici salmi e le commoventi melodie paraliturgiche.
Chissà che voce aveva, Gesú. Era intonato o stonato come il patriarca Abramo? Faccio un’ipotesi: Gesú forse non aveva una voce bella, ma di certo un’espressività perturbante e gioiosa come quella di Louis Armstrong. Nel momento in cui, con ogni probabilità, intonò Betzet Israel (all’uscita dall’Egitto), il salmo dalla melodia piú intensa, gli apostoli forse ammutolirono e ascoltarono a bocca aperta.
Nel corso del racconto tutti avranno bevuto gli altri due bicchieri di vino prescritti, tranne gli astemi, che avranno bevuto del succo d’uva. Poi il pasto sarà cominciato dopo il rohzah, il secondo lavaggio delle mani seguito dalle parole: «Benedetto tu sia, o Signore nostro D-o, Re del mondo, colui che ci ha comandato la lavanda», e dalla sequenza dei «bocconi rituali» accompagnati dalle relative benedizioni: il motzí matzà, quando il capofamiglia solleva dal piatto rituale la prima matzà e la matzà di mezzo spezzata. Sulla prima azzima recita: «Benedetto tu sia, nostro Signore, Re del mondo, che fai uscire il pane dalla terra», sulla seconda invece pronuncia: «Benedetto tu sia, o Signore nostro D-o, Re del mondo, colui che ci ha santificato e ci ha comandato di mangiare azzima». Poi distribuisce un pezzetto di ciascuna delle due azzime a ogni convitato, che lo intinge nel sale e ripete la benedizione.
La matzà è il pane della libertà, dell’identità universalista del monoteismo, non lievitato e non salato, perché non ci fu tempo di aspettare la lievitazione. Gesú ne avrà gustato il delizioso sapore di cartone al forno. Sí, delizioso, perché è per antonomasia il cibo dell’uscita dalla schiavitú, e come lui noi lo apprezziamo durante la festa del Pesakh, perché dobbiamo conquistare la liberazione anno dopo anno a ogni generazione.
Dopo il motzí matzà si mangia il maror, l’erba amara, per ricordare l’amarezza della schiavitú e insieme per esprimere lutto per la morte degli Egizi annegati nelle acque di Yam Suf, il Mare dei Giunchi. Gli ebrei non attraversarono mai il Mar Rosso, se non nei marchiani errori di pessime traduzioni. Le acque di Yam Suf si richiusero sopra gli Egizi dopo il passaggio degli ebrei, provocandone la morte. Poi si intinge del prezzemolo o del sedano nel kharoset, uno straordinario impasto dolce e denso come un fango fatto con fichi, datteri, mandorle, essenza di arancio e vino liquoroso, per ricordare il fango con cui gli ebrei erano costretti a impastare i mattoni, e si dice: «Benedetto tu sia, o Signore D-o nostro, Re del mondo, colui che ci ha santificato con i suoi precetti e ci ha comandato di mangiare l’erba amara». E da ultimo, in ricordo del santuario, dopo averlo distribuito ai commensali si mangia il korekh, preparato con un pezzo della terza azzima avvolta in erba amara e intinta nel kharoset, e si recita: «In memoria del santuario, come faceva Hillel il vecchio che avvolgeva [azzima, erba amara e kharoset] per osservare letteralmente la prescrizione del testo [Esodo, 12, 8]. Con azzime ed erbe amare lo mangeranno [l’agnello pasquale]».
Alla fine di questi passaggi ha inizio la cena vera e propria. Gesú quella sera avrà mangiato delle uova, simbolo dell’integrità della vita; inevitabilmente l’agnello o il capretto, in ricordo della terribile notte in cui furono uccisi i primogeniti egizi mentre le case ebraiche venivano «saltate», perché come ordinato da Mosè gli ebrei avevano segnato gli stipiti delle porte con sangue di agnello. Saranno stati messi a tavola cibi a base di legumi e verdure, piatti come il hommus, la tahina, il ful medammes, tutti avranno bevuto vino in abbondanza e accompagnato le pietanze con le azzime, avranno forse assaporato, al modo di noi ebrei sefarditi, i burmuelos, pezzi di azzima immersi nell’acqua, strizzati, poi passati nell’uovo sbattuto, frit...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Il conto dell'Ultima Cena
  3. Antipasto di Gianni Di Santo
  4. Il conto dell’Ultima Cena
  5. Il libro
  6. L’autore
  7. Dello stesso autore
  8. Copyright