Brahe non ha avuto il tempo di tirare su la testa, né di richiudere la bocca; Eileen gli era di fianco, entrata senza aspettare oltre. Ha aperto gli occhi sulla luce della finestra, divisa in due colori all’orizzonte, il verde giallo dei campi e il grigio celeste del cielo. Ha visto la ragazza, ha guardato l’orologio, si è alzato di scatto dalla sedia, cosí di scatto che per compensazione qualcuno dentro di lui scivola piano aggrappandosi alle palpebre, tirando in giú. Eileen si è girata un attimo verso la stanza per dargli il tempo di riprendersi; ha detto, in parte severa in parte noncurante: «È meglio dormire la notte».
«Eh sí», ha sorriso Brahe. Ha fatto un respiro profondo: «Cesare e Palmiro sono già arrivati?»
«No. Però in giardino Sarad ha preparato tutto».
Brahe ha fatto cenno di sí; si è girato a guardare il disegno sul tavolo; muovendosi nel sonno aveva fatto un’orecchietta, l’ha pareggiata subito col dito. Ha detto: «Credo che non potrò restare a colazione con voi».
Eileen si è avvicinata al tavolo, ha guardato il disegno, attenta e distaccata. Brahe le ha spiegato di cosa si trattava, le ha raccontato dell’appuntamento con Mr Wang, e lei ha detto: «Un pescecane»; lui ha piegato la testa e ha ripreso: «Sí. Vuole venti centimetri in piú, viene apposta da Berlino». Ha indicato a Eileen il punto di giunzione tra due parti del rivelatore; lei si è chinata sul bleu d’usine, alta e aperta di spalle nel maglione svasato, ha detto: «E non è possibile darglieli?»
Brahe ha scosso la testa, con le mani in tasca: «Ho ricontrollato tutto questa notte. Non c’è proprio lo spazio per dare a Wang altri venti centimetri. Però debbo fare finta di darglieli, senza darglieli in realtà».
«Non è molto corretto, – ha detto Eileen piegando un sopracciglio sugli occhi chiari. – Né molto fattibile, conoscendo Wang».
«Non posso fare altro. Debbo spostare tutta la mia parte piú in là, – ha detto Brahe con le mani parallele, come se ci fosse una soglia invisibile, – e poi fare finta di rispostarla tutta piú in qua, discutendo con lui». Ha sorriso, ha abbassato gli occhi. Poi ha detto in un tono diverso: «Non è colpa mia se questo mestiere sta diventando cosí».
«Wang avrà la sua copia, no?» ha detto Eileen.
«Questo è l’unico bleu d’usine. Lui ha soltanto le misure generali della macchina, e il dettaglio della sua parte. Io posso anche ridisegnare i miei elementi, ma il problema è il pulviscolo. Se cancello, viene via anche il pulviscolo. Hai idea di come si possa rifarlo?»
«Il rumore di fondo?» ha detto lei, come ormai chiamavano senza piú confine tra acustica e ottica qualunque disturbo nella percezione netta di una cosa.
«Sí, il rumore», ha sorriso Brahe.
Eileen ha preso il disegno dal tavolo, lo ha guardato da vicino, poi controluce; ha detto: «Ci vorrebbe dell’inchiostro. Hai dell’inchiostro stilografico?» Brahe ha aperto uno dei cassetti del tavolo, ha tirato fuori la boccettina. Lei ha svitato il tappo e ha infilato il dito nella boccettina, controllando la labilità di una goccia. Ha detto: «Quanto tempo c’è?»
«Un’ora, al massimo. Poi debbo uscire», ha risposto Brahe guardando l’orologio.
Eileen aveva un’aria attenta, appena ironica. Si è pulita il dito sul cartoncino della scatola dell’inchiostro; ha guardato Brahe, poi il disegno, poi di nuovo Brahe che aveva i capelli scomposti e gli occhi pesanti; ha detto: «C’è assolutamente bisogno di caffè, vado a prenderlo giú. Tu dovresti fare la traccia a matita, poi vedremo».
Brahe si è seduto di nuovo al tavolo, mentre Eileen usciva dalla stanza. Ha ridisegnato a mano gli elementi, appena spostati rispetto allo stampato; ricopriva col bianchetto le vecchie linee, e nonostante avesse tenuto molto liquido il liquido, e molto sottile il pennello, sul bleu d’usine c’erano adesso tre cornici bianche che bucavano la compattezza dell’azzurro spolverato, come se gli elementi nuovi a matita fossero dei vetri usciti dai telai e rimasti appesi un po’ piú in là. Brahe ha lasciato il disegno cosí, non del tutto convinto che si potesse recuperare.
Si è lavato e rivestito, e nel lavarsi ha pensato qualcosa sull’importanza dell’acqua, di cui aveva parlato Epstein; poi si è accorto che i pensieri andavano avanti come curve aperte nello spazio, mai conclusi, e il respiro aveva un suo ritmo lento, non da sveglio, e i movimenti erano soltanto lo sfondo dei pensieri. Ha ripreso il tempo con uno scatto interno, una specie di accelerazione: concentrato sullo spazzolino, sul rasoio, sulla spugna.
Quando è tornato dalla stanza da letto nello studio, Eileen era già seduta al tavolo; Brahe si è fermato sulla porta, osservando per un attimo la curva della schiena, la linea delle spalle, scontornate nella luce della finestra a mezzaluna. Poi si è seduto anche lui al tavolo, ma di lato, per non esserle di ingombro.
Eileen aveva diluito l’inchiostro in successive prove di colore, aveva ripassato le linee della matita, e con un ago intinto nel tappetto della boccettina faceva adesso dei minuscoli puntini azzurri, infinitesimi e apparentemente casuali, sulle cornici bianche e attorno alle nuove linee del bleu d’usine. I puntini erano già indistinguibili all’occhio come puntini, diventavano piano piano la tramatura del rumore di fondo che Eileen stava ricucendo, senza piú nessuno strappo.
«Sei veramente brava», ha sorriso Brahe. Guardava la ragazza concentrata sul disegno: le labbra tese per l’attenzione, i capelli crespi e lunghi quasi fino al foglio, gli occhi straordinariamente verdi nel riverbero. Lei ha detto in italiano senza distrarsi: «Un fisico fisico come te non se lo sarebbe aspettato da una costruttrice di magneti», mantenendo liquide le consonanti che comunque sarebbero state liquide nella sua lingua.
«Ne ero sicuro, altrimenti non te l’avrei chiesto», ha detto Brahe. In realtà ha pensato al mistero per cui il disegno libero e il cucito, cosí imprendibili e sfuggenti alla forma dritta, sono davvero dominio delle donne.
Certe volte Eileen pungeva il foglio con l’ago appena macchiato, altre volte prendeva una goccia piú grossa, labile nel colore, e dopo averla poggiata ne tirava i bordi, finché i pori della carta l’assorbivano in un celestino sfumato. Ogni tanto alzava la testa dal foglio, guardava l’effetto d’insieme.
Brahe le ha versato del caffè nella tazza, poi ha riempito la sua. Beve in piedi, appoggiato alla finestra: le punture di azzurro sul disegno, la ragazza bruna e ariosa di capelli, la luce e la situazione e lui stesso gli sembrano cose percepite in questo istante e nello stesso tempo da un futuro in cui avrebbe potuto ricordarle e magari non se ne sarebbe ricordato piú, da un futuro anteriore.
Lei lo ha fissato un attimo con l’ago in mano: «Tu Pietro Brahe sei uno di quelli che si commuovono soltanto nel lavoro», ha detto piano.
«Ma no, – ha sorriso lui, piú teso. – Ci vuole molto di piú».
Eileen ha dato un’occhiata finale al bleu d’usine, controllando il risultato: il pulviscolo era di nuovo compattamente pulviscolo, il rivelatore ben rilevato nelle nuove linee. Ha piegato la testa, ha detto: «Ecco una grande truffa ai danni del cinese Wang».
Brahe si è chinato sul foglio, ha sorriso: «Straordinario».
«È meglio se fai una fotocopia, – ha detto lei alzandosi. – Cosí non si vedrà assolutamente nulla».
C’è stato, fuori, un rumore di gomme e di ghiaietto, di sportelli chiusi e di saluti. «Scendo giú, sono arrivati», ha detto Eileen sulla porta. Brahe l’ha fermata, sfiorandole il braccio. «Non so come ringraziarti», ha detto. Lei gli ha sorriso, è uscita.
Brahe ha guardato l’ora, si è reso conto che era tardi per tutto; è corso nell’altra stanza, ha tirato fuori dall’armadio una giacca che non stava coi pantaloni, un’altra che non c’entrava con la camicia; una terza poteva andare, ma era lui che non si sentiva bene nella giacca, troppo rigido. Alla fine ha preso un giubbotto di pelle, piú smussato; ha preso una cartella portadisegni che non usava mai.
Al tavolo dello studio, guardando un’ultima volta il bleu d’usine prima di ripiegarlo, ha avuto l’impressione che il rivelatore, coi calorimetri e gli scintillatori coperti da sagomature e senza cavi a vista, avrebbe avuto la forma complessiva di una mola per le scarpe, quelle col motore al centro e due spazzole ai lati, una per dare la pasta l’altra per lucidare: alta piú o meno come una villa di tre piani, lungo le cui scale Brahe stava già scendendo.
In giardino ci furono convenevoli con Cesare e Palmiro, due logici matematici che lavoravano sempre in coppia, e che dicevano «Pietro devi assolutamente restare, stavolta è formidabile!», e lui diceva «Formidabile cosa?», «La mozzarella», rispondeva per tutti Sarad, come se anche gli indiani ne avessero esperienza, mentre Eileen tagliava fettine di prosciutto di cervo e salame d’oca mettendole a contorno di vassoi con tartine di paté e foglie d’insalata; le mozzarelle, portate su per tradizione da chiunque tornasse dall’Italia, erano intere sui taglieri e venivano prese a fette o a piccoli quadratini. Brahe avrebbe voluto restare, perché aveva fame e perché situazioni come quelle gli sembravano «la normalità» e anche, un poco, «la perdita di tempo»; apprezzarle fino in fondo era stata all’inizio una disciplina, cosí aveva scoperto che si può parlare anche senza dover convincere e trascinare, e che c’erano modi di stare insieme non necessariamente determinati dal lavoro, e questo, come aveva detto a Rüdiger una volta, rendeva le persone «piú rotonde, piú larghe»; e nonostante questo disse che doveva andare, che aveva un appuntamento con Mr Wang, e Cesare e Palmiro dissero: «Un pescecane!», e Brahe fece cenno di sí, sorridendo, e tagliò col coltello la palletta bianca che il laccio della strozzatura forma in cima al fiordilatte e la ingoiò di colpo, e siccome tutti loro dicevano: «Dai resta!» lui inghiottí, sorrise, e già a metà strada del giardino, quasi correndo disse a Palmiro in italiano: «Forza, sposta la macchina che debbo uscire».
Come tutti, Brahe aveva una doppia immagine del luogo: il grande anello sotterraneo arrivava fino al Giura inclinandosi di qualche grado, passava sotto una decina di paesi con campanile e monumento che davano nome alle vicine hall in profondità, e dunque Brahe pensava la topografia della pianura in forma circolare, ma le strade in superficie collegavano i paesini come in qualsiasi altro posto, con diagonali nette che tenevano conto soltanto degli espropri, delle fattorie, delle piccole colline naturali, del reticolo rurale di campi di colza e girasole. Cosí la rotazione, la grande rotazione e circolarità del sotto non corrispondeva alla geometria del sopra e, per andare dove voleva andare, Brahe doveva passare da un ordine mentale all’altro, secondo un orientamento di immaginazione, e doveva farlo velocemente soprattutto se era in ritardo come adesso che non ha nemmeno il tempo per le fotocopie e prende una strada asfaltata senza margini, tagliando le curve e derapando per essere a Brétigny in tempo, alla foresteria idealmente al centro dell’anello, che ospitava persone di passaggio non impiegate negli esperimenti.
Lasciò la macchina nel parcheggio sotterraneo.
Alla rastrelliera degli avvisi, nell’atrio, c’era un biglietto per lui di Mr Wang; diceva: «Venga su nella rotonda, io sono lí». La foresteria è un edificio medio di listelli di cemento e curve di cristallo, isolato nella campagna ma con attorno un prato d’erba di un verde diverso da ogni altro verde nella zona; le scale girano attorno a una serra di vetro, e Brahe salendo vede sempre un po’ piú dall’alto la stessa palma da datteri, gli stessi alberelli giapponesi, la stessa vecchia camera a bolle interrata lí con una targa per ricordare tutto quello che aveva permesso di vedere. La serra è un nucleo di vetro nel nucleo di vetro della foresteria, in trasparenza da una parte all’altra; ad ogni piano persone diverse per età e modo di vestire sfogliano riviste nel riverbero dei cristalli interni e esterni, bevono ai tavolini prendendo qualche appunto, parlano sottovoce sporgendosi uno verso l’altro da poltrone di cuoio rosso abbottonato.
Vedendo arrivare Brahe, Mr Wang si è alzato e ha sorriso con un leggero inchino: «La ringrazio di essere venuto», ha detto. Poi senza lasciargli la mano ha aggiunto: «Lei è qua», come se nonostante i telex, l’appuntamento, l’avviso nell’atrio, la cosa potesse avere un aspetto sorprendente.
«Dunque lei è qua, ed è stato molto gentile a venire» ha detto Wang sedendosi di nuovo nel divanetto circolare che girava lungo la grande rotonda a cielo aperto. «È stato veramente gentile a venire». Ha guardato Brahe con uno sguardo pervadente, tenendo le mani in grembo. Ha detto: «Cosí lei è qua».
«Eh sí», ha detto Brahe cercando un posto dove appoggiare la cartella dei disegni. Si è seduto di fronte al cinese, ha guardato il viso accentuato verso l’alto, comprese le iridi degli occhi con molto bianco sotto e le palpebre calate quasi a metà.
«E come va a Echenevex? Avrete certamente già visto qualcosa», ha detto Wang.
«No, non abbiamo visto ancora niente».
«Oh sí, – ha detto Wang piegando leggermente gli occhi, – avrete certamente visto qualcosa, ma lei non me lo direbbe».
«Ma no, – ha sorriso Brahe, – siamo appena all’inizio. Le assicuro che non abbiamo visto nulla». Dalla volta a vetri veniva una luce pomeridiana, un sole netto; attraverso i cristalli piú bassi si vedevano piccole auto in movimento senza rumore tra le case sparse e tra i campi, sullo sfondo della montagna.
«Con la potenza che avete nell’anello, – disse Wang accennando un gesto circolare, – con un rivelatore come quello di Echenevex non posso credere che non abbiate visto nulla. Almeno un candidato, almeno una cosa probabile. Ma certamente lei non me lo direbbe finché non fosse sicuro, finché non avesse controllato e ricontrollato. Non è vero?» Aspettava una risposta, nel silenzio della rotonda con solo loro due; pareggiava con la mano la cravatta, la striscia sotto appena piú lunga della striscia sopra per un difetto nel nodo o nella posizione; lavora con le dita attorno alle punte della cravatta senza guardarle, guardando invece Brahe con occhi liquidi, tolleranti.
«Le dico di no, – ha sorriso Brahe. – Anzi, credo che vediate molto di piú voi ad Amburgo che noi qua».
«Oh no. Ad Amburgo non si vede niente. Praticamente niente, – ha detto Wang rassegnandosi alla cravatta cosí com’è. – Niente che non sia già stato visto».
C’è stato un silenzio breve; il cinese aveva uno sguardo distante e vicinissimo, tutto ritratto in sé e tutto a ridosso di Brahe, come se lo toccasse. Dopo un attimo ha ripreso: «Per vedere bisogna avere la forza di produrre ciò che si vuol vedere. Lei non crede?»
Brahe si è stretto nelle spalle, ha detto: «Sí, certo».
«Per vedere ci vuole una grande intenzione e una grande energia. Solo cosí si può produrre quello che si vuole vedere».
Di nuovo Brahe ha fatto cenno di sí. Cercava di ricordare quanti anni prima Wang avesse preso il Nobel per aver visto quello che aveva visto, e quindi quanti ne avesse adesso, dato che i capelli lisci sul viso magro e il corpo magro nel vestito blu, nella camicia bianca, nella cravatta spareggiata apparivano astratti da ogni età.
«Per vedere, – ha ripreso Wang, – ci vogliono grande intenzione e grande energia, prima e dopo, perché ciò che è stato prodotto per poterlo vedere non lo si vede mentre accade: si vede prima come intenzione, si vede dopo come risultato». Ha fissato Brahe negli occhi con intensità, ha detto: «Lei e io vediamo cosí».
Brahe seguiva con le braccia conserte; sembrava che Wang mettesse un chiodo dopo l’altro, ma prima di salire all’appoggio successivo provasse continuamente il piede su quello che stava per lasciare, controllandone la tenuta.
«Se per vedere, – ha detto...