Mia madre, Louanne Antrim, morí un bel sabato mattina nel mese d’agosto dell’anno 2000. Era avvolta tra lenzuola porpora nuove in un letto da ospedale, accanto a bombole d’ossigeno verdi appoggiate contro una parete, in quello che piú o meno era il salotto della sua casa bizzarramente arredata, scura e claustrofobica, non distante dal fondo di una stradina che serpeggiava come un solco accanto a un cantiere fangoso e a giardini chiusi da recinzioni metalliche, e si concludeva nel parcheggio adiacente al malinconico laghetto delle anatre al centro della cittadina in cui aveva vissuto gli ultimi cinque anni della sua vita, Black Mountain, in North Carolina. Il motivo del trasferimento di mia madre dalla Florida in North Carolina era stato la morte di suo padre, Don Self, avvenuta in seguito a un infarto, nel 1995. La vedova di Don Self, madre di mia madre, Roxanne, stava all’epoca intraprendendo il suo declino nella senilità, ed era, ad ogni modo, incapace di gestire la piccola proprietà che mio nonno le aveva intestato. Con ciò intendo dire che mia nonna, divenuta maggiorenne durante la Grande Depressione, e che da quell’età non aveva ricavato alcuna nozione del denaro se non l’idea che non fosse bene darne troppo ai propri figli, difficilmente avrebbe portato avanti la tradizione inaugurata dal marito di effettuare mensilmente sostanziosi bonifici sul conto corrente di mia madre. Don Self aveva mantenuto a galla la figlia per lungo tempo – fin da quando lei aveva smesso di bere, tredici anni prima, stabilendo che era un’artista e una visionaria in anticipo sui suoi tempi – mentre ora, all’improvviso, a mia madre toccava l’incombenza di piegare sua madre tramite avvocato e acquisire il controllo del portafoglio azionario, blitz che avrebbe tranquillamente potuto portare a compimento da Miami, ma che sarebbe riuscita a organizzare meglio mediante quello che nell’ambiente dello spionaggio è noto come «lavoro sul campo».
Quattro anni dopo, Roxanne Self passò a miglior vita. Il funerale si tenne alla Presbyterian Church di Black Mountain nel settembre del 1999. La settimana successiva, mia madre – appena qualche giorno dopo essersi, come la sentii proclamare a piú riprese, «liberata di quella donna, e adesso me ne andrò in un posto dove io ho voglia di stare, e vivrò la mia vita» – fu ricoverata in ospedale con un’infezione polmonare, e scoprí che anche lei, di lí a poco, sarebbe morta.
Aveva sessantacinque anni, e da molti tossiva senza sosta. Non c’era mai stato verso di affrontare con lei l’argomento fumo. Scoprire che aveva un cancro non fu una sorpresa. Le era cresciuto nei bronchi e non si poteva operare. Come palliativo le fu offerta la radioterapia – che avrebbe potuto (e per breve tempo cosí fu) rimpicciolire il tumore quel tanto da permettere l’ingresso dell’aria nel polmone congestionato – ma mia madre non fu ritenuta una candidata adatta alla chemioterapia. Si era, nel corso di quarant’anni di, come si suol dire, vita dura, progressivamente e inesorabilmente deteriorata. La storia del deterioramento di mia madre, durato una vita, è, per alcuni versi, la storia della sua vita stessa. La storia della mia vita è intrinsecamente legata a questa storia, la storia del suo deterioramento. È la storia intorno alla quale ruota costantemente il mio modo di percepire me stesso e gli altri. Sarà questa storia, o in ogni caso il mio ruolo in questa storia, a permettermi di non perdere mia madre.
Partendo da questo presupposto – la storia di mia madre e di me, di mia madre in me –, cercherò di raccontare un’altra storia, la storia del mio tentativo, nelle settimane e nei mesi che seguirono la sua morte, di acquistare un letto.
O, per meglio dire, di riuscire a tenere un letto. Ne comprai diversi. Il primo fu un bel matrimoniale «queen-size»1 Stearns & Foster al Bloomingdale’s tra Fifty-ninth Street e Lexington Avenue, a New York. La mia ragazza di allora, R., mi accompagnò al negozio, e insieme ci distendemmo e confrontammo. Shifman? Sealy? Stearns & Foster? Morbido? Duro? Multistrato? Guardai R. rigirarsi su un materasso; la vidi rimbalzare su e giú con il sedere per aria, e mi ritrovai a pensare, sconclusionatamente, a proposito di me stesso in relazione a mia madre, morta la settimana prima: «Finalmente mi sono liberato di quella donna! Adesso mi comprerò un letto enorme, scoperò e vivrò la mia vita».
Duemila dollari.
Con tremila mi sarei portato a casa uno Stearns & Foster piú grosso (e, per estensione, una piú grossa e consistente quantità di comfort, che avrebbe portato a un sonno piú soddisfacente, a una migliore vita amorosa e, in generale, a un’esistenza piú felice e produttiva), o uno Shifman tra i migliori della gamma. Gli Shifman esercitavano una notevole attrattiva, grazie a una campagna pubblicitaria che descriveva dettagli della fabbricazione tradizionale (anacronistica?) quali la rete a otto molle intrecciata a mano, e alla scelta delle fibre naturali (cotone o lana compressi) rispetto alle schiume sintetiche.
– Che ne pensi, amore? Ti piace quello con lo strato-cuscinetto?
– Quello grosso che c’è lí?
– Sí.
– È fantastico, sí.
– Quanto durerà uno di questi? Il signore l’ha detto?
– Donald, prendi il letto su cui stai piú comodo. Piú avanti potrai comprarne altri.
– Piú avanti? In che senso, «piú avanti»? Piú avanti nella vita?
– Se prendi un letto e poi non ti piace puoi darlo indietro. Guarda che hai trenta giorni di tempo. La gente restituisce i letti in continuazione. È a questo che servono i grandi magazzini.
– Giusto.
– Donald, dovresti essere tutto contento! Ti stai comprando un letto fantastico. Te lo meriti! Dovremmo festeggiare.
– Già.
– Ti senti bene?
– Eh?
– Vuoi provarli ancora una volta?
E fu esattamente ciò che io e R. – ma a quel punto sempre piú spesso io, da solo – facemmo. Comprai il letto n. 1 con la carta di debito all’inizio del settembre 2000, andai a casa, chiamai il negozio e dissi di non consegnarmelo, poi tornai e, verso la fine di settembre, optai per un letto diverso e piú costoso (quello con lo strato-cuscinetto), non mi feci consegnare neppure quello, quindi mi imbarcai in quella che risultò essere, a conti fatti, una sorta di ricerca epica, o addirittura, si potrebbe dire, un pellegrinaggio per vari negozi, dove mi distendevo e mi rigiravo e intrattenevo conversazioni ripetitive, ossessive, con addetti ai lavori e, ogniqualvolta mi era possibile, con gli amici che pazienti mi accompagnavano, pubblico di profani, a proposito di letti. Trascorsero tre mesi, durante i quali finii per imparare piú di quanto avrei mai immaginato fosse possibile sui materassi e sull’industria del materasso in generale – non solo come e dove venivano fabbricati i letti, ma anche come venivano commercializzati e venduti, e a chi – e, nel mentre, mi feci una cultura anche su altre cose, oltre ai letti. Intendo coperte, cuscini e lenzuola.
Potrebbe essere utile a questo punto dire che, durante il suddetto periodo, caratterizzato e piú probabilmente definito da un consumismo compulsivo, avevo un’intensa percezione di me stesso come matricida. Sentivo, in maniera concreta e tuttavia sfuggente, di aver avuto delle responsabilità nella morte di mia madre. E cosí la ricerca di un letto si trasformò in una ricerca d’asilo, il che significa che la ricerca di un letto divenne ricerca di un posto; e, naturalmente, con posto intendo dire spazio, quel genere di spazio approssimativo e indeterminato a cui talvolta alludiamo quando diciamo a qualcuno: «Ho bisogno di spazio»; e il fatto che in questo contesto lo spazio sia generalmente sinonimo di sentimenti non mi impediva di immaginare che lo spazio – considerato, contro ogni logica, come un luogo reale; nella fattispecie, la mia camera da letto – potesse essere riempito, pressoché alla perfezione, da un sontuoso letto matrimoniale su cui adagiare virili lenzuola a righine bianche e grigie, magari con un copriletto a balze vagamente e studiatamente femminile a rivestirne la mole. E immaginavo, in modo tutto sommato logico, considerato il dolore per la dipartita di mia madre e per il mio coinvolgimento, non solo nell’evento della sua morte avvenuta in quel mattino di agosto, ma anche, da bambino e poi da uomo, nel piú ampio contesto dell’annientamento di sé che aveva praticato per tutta la vita, mediante l’alcolismo e quello che dell’alcolismo è il principale sintomo e lascito, la rabbia – immaginavo, o fantasticavo, che, una volta rannicchiato e al sicuro nello spazio riempito dal letto, disteso da solo o con R. su montagne di cuscini ammassati come quelli che si vedono sui letti fotografati nelle riviste di arredamento, avrei forse scoperto chi sarei stato e come sarei andato avanti senza mia madre, una donna che era morta in una casa tetra, e in un letto scomodo.
Non c’era molto che chicchessia potesse fare. Mia madre, negli ultimi anni della sua vita, era diventata drasticamente paranoica. Coltivava o forse era vittima di episodi in cui conversava con figure mitologiche o religiose, tra cui la Vergine Maria. Formatasi come sarta e costumista, confezionava indumenti bizzarri e di pregevole fattura che ricordavano ed erano ideati per essere indossati come vesti per cerimonie spirituali il cui scopo rimaneva poco chiaro. Tutto, in quegli indumenti – gli elementi simili ad ali che adornavano la parte posteriore, i ciondoli e gli oggetti totemici che penzolavano dalle maniche o dai risvolti, le tavolozze di colori dissonanti esibite in brandelli di tessuto cuciti uno sull’altro come pezzi di uno strano collage –, parlava di un simbolismo che era profondamente privato. Indossati in pubblico, quegli abiti e quelle vesti immancabilmente suscitavano disagio in chi era abituato a vivere nella società nel suo complesso. Quando mia madre indossava, per un concerto o un vernissage ad Asheville, una giacca viola scuro chiusa da bottoni grossi come quelli di un clown e ornata sul davanti e ai lati da un reticolo di strisce di seta thailandese in tinte pastello tropicali, una giacca decorata sulla schiena da un enorme medaglione bianco ricoperto di panno dorato pieghettato e drappeggiato in modo tale da ricordare una guarnitura floreale da torta, e completata da ulteriori strisce di seta colorata annodate da cui pendevano nappe di panno di varie lunghezze che scendevano sotto l’orlo, non si limitava a comportarsi da spirito libero facendo le cose a modo suo: ripudiava il patriarcato e si autoproclamava artista.
La sua capacità di allontanare gli altri da sé era stupefacente. Si comportava in modo astioso e tendeva a creare discordia con le persone altrettanto poco allineate che diventavano sue amiche, e con cui intratteneva rapporti di effimera durata. La sua risata era abrasiva, talvolta perfino spaventosa. Masticava a bocca aperta, sovente facendosi cadere il cibo addosso. A volte dava l’impressione di tagliarsi i capelli da sola, al buio. O eri con lei, o eri contro di lei. Era convinta che suo padre non fosse il suo vero padre; che sua madre avesse tentato di annegarla in un laghetto quand’era bambina; che il suo pneumologo volesse fare sesso con lei; che una volta morta avrebbe trovato ad accoglierla Carl Jung, la Vergine Maria e Mago Merlino; era convinta di aver assolto al suo compito sulla terra, e di averlo fatto bene; di essere una delle persone scelte per preannunciare l’avvento del nuovo ordine umano improntato alla bellezza; di essere morta in mare al termine di una precedente vita da schiava a bordo di una galea romana, incatenata ai remi; che gli uomini fossero pezzi di merda e che i suoi figli le fossero ostili; che se fumava erano affari suoi, e quindi fatti i cazzi tuoi; che suo figlio fosse un artista proprio come lei; che io e lei saremmo dovuti andare dall’analista insieme.
Costituiva, per chiunque le stesse vicino, e specialmente per coloro che rientravano nella sua giurisdizione, una minaccia vivente. Aveva di fatto vissuto buona parte della sua vita adulta in una condizione di obnubilamento, «dormendo» tre ore a notte o meno, e senza sognare. La perdita del sonno REM doveva aver avuto conseguenze devastanti sul suo corpo e sulla sua mente. Si lanciava in crisi di urla che si protraevano fino alle ore piccole. Mi capitava, ricordo, di trovarla stesa sul pavimento del salotto al mattino presto, prima dell’alba.
Forse sua madre aveva davvero tentato di annegarla in un laghetto. La verità poteva essere cosí tremenda, o peggio ancora. Forse mia madre era stata vittima di una sindrome di Munchausen per procura, una perversione delle attenzioni genitoriali che porta a sottoporre il figlio a interventi medici ingiustificati, addirittura chirurgici. I suoi medici in North Carolina, e come loro anche alcuni membri della nostra famiglia, sospettavano che la madre di mia madre avesse avuto il curioso vizio di portare la figlia dal dottore. Non è cosa che possa commentare nel dettaglio: non c’ero. Eppure riesco lo stesso a immaginare mia nonna Roxanne, verso la fine degli anni Quaranta o giú di lí, accompagnare per mano mia madre lungo i corridoi bianchi di un qualche ospedale di campagna, o sedere con lei nella sala d’attesa dell’ufficio di un medico in Florida. Ricordo che mia madre raccontava storie, quand’ero piccolo, di operazioni. Quale fosse l’esatto scopo che tali operazioni volessero ottenere rimane un mistero. Una, mi pare di ricordare, aveva a che fare con la rimozione di una costola. E c’era un famoso aneddoto secondo cui mia madre «si era risvegliata» proprio mentre i medici la dichiaravano morta sul tavolo operatorio. All’epoca della mia nascita, Roxanne era ormai diventata una fondamentalista della nutrizione, dedita al controllo della dieta e degli umori della sua famiglia; somministrava vitamine e consigli ai malati di cancro che venivano a sapere di lei tramite il passaparola dei malati della Florida; prescriveva cibi la cui efficacia in alcuni casi (broccoli, cavolorapa) venne in seguito confermata dall’industria sanitaria nazionale. Credo che si considerasse una sorta di eroina popolare. È possibile immaginare il viaggio verso la morte di mia madre come un atto d’odio interiorizzato di stampo masochistico contro sua madre, la quale si serviva della salute per soggiogare chi la circondava; e contro suo padre, che, in un’infinità di frangenti immaginabili, era stato incapace di riconoscere la situazione in cui versava la figlia, o di agire in sua difesa, durante l’infanzia.
Da giovane, mia madre era popolare, nonché un’autentica bellezza. Fu bambina in Tennessee e adolescente a Sarasota, in Florida, dove conobbe mio padre. Insieme, i miei genitori erano, a giudicare dai loro annuari scolastici, una di quelle coppiette di successo che al liceo sono oggetto di invidia. Un loro amico, che si era innamorato di mia madre al college e non ne era piú uscito, una volta me la descrisse in termini rivelatori della forza sessuale e caratteriale che lei possedeva all’epoca. Dal momento che era figlia unica, non ho zii materni in grado di ricordarla con precisione da ragazza. E le testimonianze dei vecchi amici dei miei genitori sugli anni successivi – dopo che mia madre se ne andò di casa, sposò mio padre, ebbe i figli e si stabilí come moglie e madre in uno degli appartamenti destinati al corpo docente – sono difficili da reperire, cosí come i miei ricordi stessi, quel genere di ricordi che contribuiscono a formare una coerente... cosa? Immagine? Impressione? Trama? Io avevo quattro, cinque, sei anni. Mia sorella Terry ne ave...