Ormai il Lager era lontano. Nemmeno piú ci pensava, anche se erano passati pochi giorni. Ora stava risalendo le montagne verso il confine; camminava di notte, e di giorno se ne stava rintanato lungo il fiume come un animale notturno. Nascosto dentro i cespugli, ogni tanto chiudeva gli occhi e si lasciava prendere da un sonno leggero e bastava il frullo di un’ala a risvegliarlo. Per nutrirsi staccava dai rami degli alberi del bosco germogli di peccio, foglie tenerissime di faggio e di acero appena nate, raccoglieva e portava alla bocca i germogli di mirtillo, di lampone e di rosa canina. Masticava lentamente assaporando i diversi gusti che erano pur sempre piú buoni e graditi della brodaglia che passava il Terzo Reich.
I pezzetti di pane nero e duro che era riuscito a mettere da parte erano finiti da giorni e anche se aveva nello zaino un sacchetto di semolino non poteva accendere un fuoco per fare la polenta. Il semolino l’aveva trovato tra le macerie di un palazzo a Graz, dopo un bombardamento aereo. In una credenza sfondata, fra le travi che bruciavano e i calcinacci. Se le SS ungheresi lo avessero sorpreso in quel momento, lo avrebbero ucciso e abbandonato sul posto. Come avevano fatto con quel povero fante siciliano.
Quella sera, quando li avevano radunati per riportarli nel Lager si era nascosto tra le macerie, anche perché un vecchio che lo aveva osservato mentre scavava gli aveva detto: «Geh sofort nach Hause! Du bist ganz kaputt!»1. Cosí con la notte aveva abbandonato la città, orientandosi con le stelle. Raggiunto il fiume che scendeva dalle montagne aveva risalito la corrente. Dopo notti di cammino, una mattina aveva visto le Alpi innevate. Era arrivato nei pressi della strada che portava in Italia. Sentí passare colonne di automezzi; poi queste si diradarono; osservò piccoli gruppi appiedati, soldati in bicicletta o su carri agricoli tirati da cavalli o muli. In coda anche soldati disarmati o feriti. Forse era proprio e finalmente la fine. Una sera era uscito dal nascondiglio prima che facesse buio e si era avviato allo scoperto tra il torrente e i campi. I caprioli al pascolo lo avevano guardato passare senza spaventarsi.
Aveva continuato a camminare verso ovest e un giorno, uscendo dal bosco per andare a bere nel torrente, si era imbattuto in due donne che stavano seminando le patate in un orto vangato di fresco. Si erano spaventate nel vederselo comparire davanti cosí magro e sbrindellato, con un cappello da alpino in testa. Le aveva salutate borbottando: «Grüß Gott Frauen»2. Lo avevano guardato in silenzio appoggiandosi alla zappa e lui aveva aggiunto: «Ich gefangen, prigioniero, vado a casa. La guerra finisce. Fertig Krieg». «Gott befohlen!»3, gli avevano risposto, e, dopo essersi scambiate uno sguardo, una era andata dove tenevano il sacco con le patate da semina e una borsa appesa alla staccionata, aveva levato dalla borsa una fetta di pane nero e glielo aveva porto senza una parola. Lui aveva detto grazie e aveva ripreso la sua strada.
La fame, il sonno, la stanchezza e un malessere che avvertiva per le membra e che forse era febbre gli facevano confondere luoghi e tempi. Ora sentiva solo che doveva camminare verso occidente dentro la fine di una guerra che aveva vissuto dal primo all’ultimo giorno e che da tempo, ormai, aveva rifiutato. E cosí giunse alla frontiera. Era questa la quarta volta che la ripassava: prima dalla Francia, poi dai Balcani, quindi dalla Russia e ora dalla Germania. Nemmeno si rendeva conto della sua fortuna, di essere ancora vivo. Qualche volta si stupiva di poter ancora muovere le gambe, di poter ancora camminare. Di essere senza compagni. Solo. Ricordava una strada dove aveva tanto giocato da ragazzo.
Passò lo spartiacque di confine. Non c’erano guardie di finanza, doganieri, bandiere. Nessuno. Le sbarre erano alzate, per terra sparsi intorno moduli e carte, qualche arma abbandonata, scatolette di latta vuote, escrementi. Su un giornale tra la polvere della strada lesse un titolo: Mussolini gestorben4, ma, a differenza del 25 luglio 1943, non provò nessuna emozione.
Finalmente la strada andava in discesa e il suo passo si fece meno faticoso. Lontano, chissà dove, ogni tanto si sentiva una fucilata, come di cacciatori tra le montagne. Ora la valle si allargava un po’ e, dopo il valico che portava ancora impressi i segni del passaggio dei soldati, vide risalire un reparto armato che procedeva su due file, a passo di marcia. Fece appena in tempo a nascondersi in uno stabbio, vicino al bosco e, da lí dentro, li osservò andare verso le loro terre. Erano ancora equipaggiati di tutto punto: elmetto, maschera antigas, nastri di cartucce per le mitragliatrici, bombe a mano appese alla cintura, zaini, fucili, baionette; comandanti in testa e in coda. Forse pensavano di rientrare ancora in caserma, non di ritornare a casa. Solamente non cantavano le loro canzoni come quando in Russia passavano per i villaggi e tutti i paesani si nascondevano nei boschi.
Camminarono via e li perse di vista e d’ascolto. «Questi saranno gli ultimi», pensò. Le cornacchie ritornarono a volare sui rifiuti e lui si disse che ora poteva accendere un piccolo fuoco per cuocere il semolino. Levò dallo zaino la gavetta, andò nel torrente a prendere l’acqua, accese il fuoco tra due pietre e quando l’acqua alzò il bollore, rimestando con uno stecco, fece scendere il semolino dalla mano a pugno.
«Sono senza sale, pazienza», si disse. Forse erano passati dieci giorni dall’ultima zuppa di rape.
Incominciava a scendere la sera. Prima, giorni prima – ma quando? – era questa l’ora in cui si rimetteva in cammino. Ma adesso voleva solo dormire: si sentiva scottare la testa e freddo il corpo. Entrò nello stabbio, si sdraiò nella greppia tra i rimasugli di fieno e chiuse gli occhi. Si svegliò per il freddo nel profondo della notte; da uno squarcio nel tetto vide tante stelle e rimase immobile a fissarle con la mente lucida. Guardandole ricordava le notti di bivacco sopra i ghiacciai in Val d’Aosta, le notti di tormenta sulle montagne dell’Albania nell’inverno del ’40 e i compagni congelati nella neve, le tiepide notti nella steppa sulla grande ansa del Don nell’estate del ’42. Andava indietro nel suo tempo: da bambino fino a questo presente. Ricordava amici e compagni lasciati lungo le strade della guerra; il grande nonno paterno e l’esile nonna materna. Ci sarebbe stato ancora qualcuno ad aspettarlo? E lei? Sí, suo padre e sua madre certamente. Ma da molti mesi non sapeva niente di loro. Ricordava con lucidità i compagni e le compagne di tanti giochi, le corse con gli sci, le escursioni, le sere invernali nella calda casa e il focolare che restava sempre acceso, i compagni di scuola, la maestra, il parroco. Lo Stammlager I/B e il bestiale Lagerführer Braum, la miniera, i prigionieri russi, i deportati che sottovoce cantavano L’internazionale. La colonna di ebrei tra la bufera di neve. Era la vigilia di Natale, erano trascorsi solo pochi mesi. Ricordava quegli ultimi giorni. Cosí finisce una guerra? Ma forse doveva camminare ancora una settimana prima di arrivare a casa.
Le stelle sopra la testa segnavano il passare del tempo e sulle montagne, a oriente, iniziava il crepuscolo dell’alba. L’Armata Rossa era già arrivata a Vienna? I tordi incominciarono a svegliare il bosco. Uscí dalla greppia, con le mani si ripulí dallo strame e camminò fino al torrente per rinfrescarsi la fronte e bagnarsi gli occhi.
Vennero verso di lui dopo una curva della strada. Su un carretto tirato da un asino avevano piazzato una mitragliatrice con il nastro infilato; era pronta per sparare. Su quel carretto erano in due, gli altri camminavano a lato con le armi spianate. Erano accaldati e sporchi di fumo. Quando gli giunsero a pochi metri, si vide puntare contro la canna della mitragliatrice. Non si mosse e respirò profondo aspettando la raffica. Non spararono. Gli passarono accanto sfiorandolo e tenendolo sotto mira fin dove la strada ritornava a girare. Riprese a camminare in discesa. Dove il bosco si allargava sentí odore di bruciato, e dopo attraversò una contrada che ancora fumava, ma vuota di gente. Sulla strada c’erano stoviglie e vetri rotti. Camminando incontrò altre case bruciate con delle persone che si affaccendavano intorno. Non si fermò. Non badarono a lui. Avrebbe voluto affrettare il passo, ma le forze e la febbre che l’aveva ripreso non lo consentirono.
Prima di sera giunse in un paese che non era bruciato. Una scritta sopra una porta indicava Osteria del cacciatore e due bandiere, una tricolore e una rossa, pendevano dalle finestre. Si ricordò allora che tra panno e fodera della giacca aveva cucito un biglietto da cinquanta lire. Entrò. Non fece caso ai ragazzi armati che entravano e uscivano dall’osteria, né alla donna che versava da bere a tutti. Si sedette in un angolo per riposarsi e scucire le cinquanta lire; si alzò dal tavolo, si avvicinò al banco porgendo la banconota e chiese di mangiare qualcosa. I ragazzi con il fazzoletto rosso attorno al collo risero e uno gli chiese: – Ma tu, da dove vieni? – La donna lo guardò con pietà e scansò con la mano i soldi dicendogli: – Puoi tenerteli per ricordo, ora valgono ben poco! Quello che mangi l’abbiamo ripreso ai tedeschi.
Gli fu portato un piatto di minestrone con i fagioli, un pane e un quarto di vino.
Si era addormentato sul tavolo, con la testa posata sulle braccia. Si sentí scuotere e aperse gli occhi. Oramai era sera e nell’osteria avevano acceso dei lumi a petrolio. Davanti a lui stava un uomo con cinturone e pistola: – I compagni mi hanno detto da dove vieni. Lo puoi dimostrare? – Fece cenno di sí con la testa e si sbottonò la camicia. Apparve il suo scheletro ricoperto di pelle grigia e prendendo il piastrino di prigioniero che gli pendeva da uno spago disse: – Qui è scritto tutto, il Lager e la matricola.
L’uomo con la pistola disse alla donna dell’osteria di portargli ancora qualcosa da mangiare, ma non tanto, ché poteva farlo morire, e ordinò ai partigiani di dargli due coperte e di accompagnarlo a dormire nel fienile. L’indomani se ne sarebbe riparlato.
Il vino bevuto con i partigiani gli aveva dato alla testa ma si sentiva anche riscaldato dentro. Sdraiato sul fieno di montagna con le coperte tirate fin sugli occhi, lo prese un sonno profondo.
Il mattino dopo ritornò all’osteria; la donna gli riempí una ciotola di vino: – Caffè non ne abbiamo e nemmeno latte. Puoi intingere il pane, – e gli porse due mezze pagnotte. I partigiani entravano e uscivano rumorosi e allegri; quello che sembrava il loro comandante dava ordini e riceveva relazioni conformalità militare. Scattavano, salutavano con il pugno chiuso e dicevano compagno. Lontano, su per le montagne, si udiva ancora qualche sparo.
Dopo aver mangiato il pane inzuppato nel vino si sentí in forze abbastanza da poter riprendere la strada verso casa. Si alzò dal tavolo, ringraziò il comandante, i partigiani presenti e la donna: – A tutti grazie, ora mi rimetto in marcia.
– Ma ne hai di chilometri da mangiare. Aspetta qui, – disse il comandante. – Tra poco arriveranno gli americani e ti farò accompagnare a casa in macchina. Loro ne hanno tante!
Verso mezzogiorno si sentí venir su dalla strada un rumore sferragliante che si avvicinava. Erano carri armati, artiglierie, camion, cucine autotrasportate con i camini che fumavano. I partigiani con il loro comandante e tutti i paesani con il parroco stavano sulla piazza ad aspettarli.
Un ufficiale scese da una camionetta e si avviò a parlare con il capo dei partigiani. Entrarono insieme nell’Osteria del cacciatore. Il partigiano fece portare una bottiglia di grappa che era stata messa da parte per quel momento. Si dissero chissà cosa: uno parlava inglese e l’altro friulano. Continuarono a parlare e a bere finché la grappa finí e all’inglese si ingarbugliò la lingua. Il comandante partigiano alla fine gli disse che c’era uno che veniva dai Lager tedeschi, che era ammalato e che loro dovevano portarlo a casa. L’inglese faceva segno di sí con la testa, che aveva capito tutto.
Uscirono insieme. L’ufficiale ordinò qualcosa a un suo sottoposto e un carro armato fece inversione di marcia.
Il carro armato scendeva sferragliando per la valle in festa. Sulle case dei villaggi le bandiere erano vive nel vento di primavera e quando passavano la gente applaudiva e salutava allegra. Lui, seduto sulla torretta, con una mano si teneva aggrappato e con l’altra rispondeva ai saluti agitando nell’aria il cappello da alpino su cui i partigiani avevano infilato una bandierina tricolore.
Arrivarono a Udine. Attraversò la città tra un tripudio di gente in festa. Gli gridavano: «Viva! Bravo! Bravo!» Giunsero davanti a una caserma, passarono per un portone dove c’erano sentinelle inglesi, si fermarono nel cortile recintato con file intrecciate di reticolati, lo fecero scendere.
Si ritrovò tra una moltitudine disarmata di soldati tedeschi, brigate nere e soldati della Repubblica di Salò. In un primo momento rimase perplesso e si guardò attorno come fosse dentro un incubo, o appena uscito da un brutto sogno. La lucidità gli ritornò quando si accorse di come veniva osservato dai tedeschi e dai fascisti: con dispregio, con dileggio. I fascisti se lo indicavano ridendo e si sentí montare dentro una furia impetuosa, come quella che in Albania stava per fargli uccidere con la baionetta quel maresciallo del Comando che intercettava i pacchi destinati ai soldati in linea sulla montagna maledetta, dove si moriva per le tormente di neve piú che per i mortai dei greci. Strinse i pugni, si morse le labbra, girò le spalle e se ne andò verso un lato del cortile, lungo le mura. Si sedette per terra e pianse convulsamente per la rabbia di ritrovarsi prigioniero degli inglesi in Italia dopo essere stato per tanto tempo prigioniero dei tedeschi. E con loro! Con i tedeschi!
Una sentinella a cui forse non erano passati inosservati il suo ingresso, la sua reazione e il suo rifiuto, sparò in aria un colpo di fucile e gli fece cenno di allontanarsi dal muro. Lui si alzò, si avvicinò, e con la disperazione nel viso le disse: – Voglio il comandante. Voglio parlare con il tuo comandante.
La sentinella lo guardò con stupore, per il tono duro e deciso della voce, per la sua ira, per l’aspetto magro, tirato e sbrindellato, e rispose: – Yes, comandante –. Disse qualcosa a un soldato che si era avvicinato e lo accompagnò dentro un edificio per corridoi, sale, uffici. Lui si rese conto che la caserma era quella dove due anni prima aveva fatto la contumacia al ritorno dal Fronte russo. Erano rimasti in pochi.
L’uscio dell’ufficio del comandante era aperto; il soldato inglese si fermò sulla porta, salutò e disse qualcosa. Con un cenno l’ufficiale li fece entrare, ascoltò, e con un altro cenno allontanò il soldato.
Lui non sapeva che grado avesse quell’ufficiale che lo stava squadrando dalla testa ai piedi e dai piedi alla testa. Forse era un maggiore. Teneva in mano la pipa accesa e sulla scrivania aveva una bottiglia di vino, un bicchiere, un libro e un fascicolo di carte. – Cosa vuoi? – gli chiese in italiano.
Spiegò che era fuggito da un campo di concentramento tedesco, da Graz, e che a piedi era giunto in un paese dove i partigiani lo avevano consegnato agli americani perché lo portassero a casa.
– Noi siamo inglesi, – gli rispose l’ufficiale. – Lo puoi provare che eri prigioniero dei tedeschi?
Si sbottonò la camicia e gli fece vedere il piastrino appeso al collo con lo spago. Quindi gli disse il suo nome, il suo grado e il reparto al quale aveva appartenuto. Dalla tasca della giacca levò una cartolina Kriegsgefangenenpost5 con il suo nome e con il numero di matricola che corrispondeva a quello del piastrino; l’indirizzo del mittente, i timbri del Lager e della censura. – Sí, – disse l’ufficiale inglese, – capisco. Potrei anche credere a quanto dici, ma tu sei stato consegnato a noi dai partigiani per qualche motivo che non conosco. Per intanto rimani qui. Poi ti porteremo al tribunale di Mestre, lí ti giudicheranno. Potranno mandarti a casa o fucilarti. Vedranno loro –. E con la mano gli fece cenno di ritirarsi.
Aveva sempre il suo zaino in spalla e appena fu uscito l’ufficiale ordinò a un sergente di perquisirlo. Gli fecero vuotare lo zaino sul pavimento: una gavetta, un cucchiaio, una maglia dove erano piú i rammendi che le trame, pezze da piedi ritagliate da un cappotto russo, stracci di tela grigia e consunta per tutti gli usi, una mezza coperta, un sacchetto con due manciate di semolino, dei fogli legati con uno spago. Nient’altro. Con destrezza il sergente gli passò le mani sulle tasche e sul corpo, poi co...