24 novembre 1981.
L’atrio a casa della nonna paterna, a Fiume, era spazioso e pieno di luce. Ad una parete era appoggiato un grande tavolo in legno massiccio con gambe curiose, ora sottili ora voluttuosamente rigonfie, che terminavano in grossi cipolloni. Nel lungo percorso tra il ripiano e il pavimento la loro rotondità a tratti cedeva bruscamente il posto alla spigolosità di un cubo, per poi ricomporsi subito in una nuova agile caviglia o in un robusto polpaccio. Le mie dita infantili percorrevano lentamente quelle curve e quegli anfratti, scoprendo segreti giacigli di polvere, che nemmeno il rigoroso e talvolta eccessivo amore della nonna per la pulizia riusciva a raggiungere.
Papà e mamma, per motivi economici, erano andati ad abitare a casa della nonna Madieri poco dopo la mia nascita e vi erano rimasti due anni. Il primo spazio avventuroso della mia vita, dunque, quello delle esplorazioni fatte carponi nei labirinti domestici, fu proprio il suo atrio, nel quale venivo ammessa piú volentieri, poiché era quasi del tutto privo di suppellettili.
Anche dopo che i miei genitori si furono trasferiti in via Angheben, dove rimasi fino agli undici anni, ritornavo regolarmente da quella strana ed enigmatica nonna, che mi amava moltissimo. Era alta, diritta e silenziosa. I suoi occhi, con le palpebre rigonfie, erano due fessure leggermente piegate all’ingiú, la bocca sottile e dura. Il volto, dai lineamenti imperiosi, era addolcito da una nuvola di capelli soffici e bianchi, con qualche striatura giallastra, raccolti a chignon sulla nuca. Quando mi teneva in braccio tuffavo il volto tra quei capelli, il cui odore di pulito è legato per me ancor oggi al suo ricordo.
Il suo passato era avvolto nel mistero. Anche mio padre ne parlava poco e malvolentieri. Con certezza so soltanto, per averlo letto sul suo certificato di morte, che era nata a Varaždin nel 1868, si chiamava Filippina Miletić e aveva sposato Giorgio Madjarić, il cui cognome subí nel tempo due aggiornamenti, prima in Madierich e poi in Madieri. Il resto della sua vita sfuma nella leggenda. Dai rari accenni che si facevano in casa, ho potuto ricostruire solo alcuni fatti. Dal matrimonio con nonno Giorgio erano nati parecchi figli, sembra addirittura tredici, tra parti singoli e gemellari. Molti erano morti in tenera età e, dei sopravvissuti, si favoleggiavano destini tragici e inconsueti. Una figlia era morta a vent’anni di polmonite proprio il giorno delle nozze, un’altra si era suicidata a diciott’anni per amore. Di quest’ultima soltanto, Angelica, ho trovato di recente una fotografia che la ritrae, sorridente e luminosa, con una mano appoggiata su di un ombrellino spumeggiante e l’altra sulla gonna lunga, di cui solleva un lembo con civetteria. Dalla vita sottilissima sboccia un esile busto di fanciulla, chiuso in una camicetta bianca, resa severa da una cravatta di foggia maschile. I capelli bruni e ricciuti sono nascosti da un cappellino impertinente ornato da un piccolo mazzo di fiori. Null’altro mi è stato detto di questa zia, ma molte cose si possono leggere in quel sorriso e in quello sguardo da cui, nonostante il pignolo intervento del fotografo per predisporre la posa, trapela un temperamento fiero e gioiosamente esuberante.
La nonna dunque era rimasta sposata per lunghi anni, poi improvvisamente nel 1904 qualcosa di grave deve aver sconvolto la sua vita. Il nonno pare fosse un facoltoso commerciante di legname a Varaždin. Aveva infatti carrozza e cavalli, ma anche il vizio del gioco. La leggenda vuole che un giorno nonno Giorgio, avendo perso al Casinò casa, carrozza e cavalli, perdesse anche la moglie la quale, esasperata e incinta dell’ultimo figlio, Luigi, mio padre, abbandonò la famiglia e si recò a Fiume. Non so se questa versione sia del tutto attendibile, poiché in tal caso la nonna, oltre al marito, avrebbe rinunciato anche ai figli, cui era attaccatissima e con i quali peraltro rimase sempre in contatto epistolare. Ho persino pensato che mio padre potesse essere un figlio adulterino e che la nonna fosse stata cacciata di casa. Ma, senza contare che non ci fu nessun disconoscimento di paternità da parte del nonno, mi sembra alquanto improbabile che una donna impegnata in cosí numerose gravidanze avesse il tempo e la voglia di pensare anche ad avventure extraconiugali. Ritengo quindi piú ragionevole la versione mitica, che cioè la nonna ad un certo punto abbia detto di no.
A Fiume, sola, priva di qualunque mezzo di sostentamento e con un figlio prossimo a nascere, la nonna non si perse d’animo. Con il suo volto impenetrabile, nascondendo l’incipiente maternità sotto uno stretto busto e un’ampia gonna, affrontò impassibile un lavoro faticoso e umiliante per una signora della sua levatura sociale. Venne assunta come pulitrice al Casinò di Fiume, con orari pesanti ed equivoci agli occhi dei benpensanti. Ma la sua ferrea volontà e la conoscenza di parecchie lingue – il serbocroato, l’ungherese, il tedesco e l’italiano – le permisero ben presto di divenire guardarobiera nel medesimo luogo. Fu questo l’inizio della sua relativa fortuna. Infatti non tanto lo stipendio quanto le mance dei ricchi signori permisero alla nonna di mantenere dignitosamente se stessa e il figlio e di acquistare piú tardi l’appartamento in cui viveva. Per ironia della sorte proprio il Casinò, dunque, che aveva segnato nella sua vita l’inizio di ogni sventura, le offrí poi anche l’occasione di ritrovare un’orgogliosa emancipazione economica e spirituale, molto difficile per una donna di quei tempi.
Nonno Giorgio fu cancellato dalla sua vita. Mio padre non solo non lo conobbe mai di persona, ma neppure ne vide il volto in una fotografia né mai lo sentí nominare dalla nonna. Fu solo informato della sua morte avvenuta parecchi anni piú tardi.
25 novembre 1981.
La profondità del tempo è una mia recente conquista. Nel silenzio della casa, la mattina quando rimango sola, ritrovo la felicità del pensare, del ripercorrere avanti e indietro il passato, dell’ascoltare il fluire del presente. È qualcosa che avevo raramente conosciuto prima. Dopo un’infanzia appagata e risolta nell’immediatezza, un’adolescenza povera e introversa e una giovinezza accanita, sono approdata ad una maturità in cui le cose e gli eventi sembrano avere un ritmo piú lento, che consente la riflessione. Dal mondo del lavoro, con i figli già piuttosto grandi, sono stata restituita alla libertà della mia casa e delle mie giornate. Nell’umile e vario lavoro quotidiano i pensieri possono affiorare, organizzarsi, chiarificarsi. Il tempo, prima quasi senza dimensioni, ridotto a mero presente da una vita frettolosa, incalzata da un turbinio di doveri, di gioie strappate e di affanni, ora si distende in ore leggere, si dilata e sprofonda, si popola di risonanze e ricordi che a poco a poco si ricompongono a mosaico, emergendo in piccoli vortici da un magma indistinto, che per lunghi anni s’è andato accumulando in un fondo buio e inascoltato.
26 novembre 1981.
Ritrovo quindi nella memoria l’atrio luminoso della nonna, su cui s’aprivano con regolare scansione le porte delle altre stanze. Sulla sinistra, in fondo, c’era la cucina, tutta bianca e straordinariamente ordinata. Lo «spahert», cioè la cucina economica a legna, aveva i bordi smerigliati e il piano di cottura con tanti anelli concentrici che, con mio stupore, potevano venir levati creando delle aperture piú o meno grandi. In braccio alla nonna spesso contemplavo da quei fori il fuoco rosso e tumultuoso, in un magico stordimento. Anche il ripiano del tavolo, in marmo chiaro, esercitava su di me un fascino singolare. Era percorso da una profonda ferita nera e irregolare che contrastava con le venature leggere e azzurrine della superficie. Io amavo seguire con lo sguardo quegli arabeschi sfumati, quei disegni sempre nuovi come nuvole fuggevoli in un cielo di primavera. La cucina aveva anche un grande poggiolo che dava su una corte squallida e polverosa, in terra battuta.
A questa è legato uno degli episodi che meglio ricordo dei miei primi anni. Dopo il nostro trasferimento in via Angheben, la nonna aveva affittato una stanza ad un giovane ufficiale, dalla figura sottile e i lineamenti gentili. Un giorno, mentre ero in braccio alla nonna, l’ufficiale mi porse in regalo una scatola di cioccolatini, che rappresentavano per me una ghiottoneria irresistibile. Non dissi nulla, ma feci capire alla nonna che desideravo esser messa a terra. Con la preziosa scatola in mano mi avviai verso il balcone della cucina e senza una parola la gettai nel cortile sottostante. La mamma e la nonna mi rimproverarono aspramente per l’inspiegabile e ottusa gratuità dell’episodio e per l’assoluta mancanza di educazione. Nessuno comprese, nemmeno il giovane ufficiale, che quel gesto era stato invece una goffa manovra di civetteria femminile. Facendo la sdegnosa, volevo dimostrare che non ero una facile conquista e mi dichiaravo disponibile alla schermaglia amorosa.
In seguito, per molto tempo, ad ogni visita continuai a correre verso quel balcone cercando di scorgere, in basso, la mia scatola inutilmente sacrificata e perduta per sempre, assieme al bell’ufficiale che non rividi piú.
Ma i richiami piú seducenti e misteriosi a casa della nonna provenivano dalla stanza da pranzo, che fungeva pure da salotto e dalla quale ero rigorosamente esclusa anche da piú grande. La nonna la teneva chiusa a chiave e l’apriva, come un sacrario, solo in circostanze speciali, visite di persone importanti o pranzi in occasione di qualche ricorrenza. Attraverso il buco della serratura cercavo curiosa di carpirne i segreti. Vi regnava la penombra, quasi anche la luce potesse turbarne il decoro ed il raccoglimento. L’arredamento era sovraccarico, ma ai miei occhi nulla aveva maggior fascino del trofeo di frutta in vetro colorato che ornava il centro del grande tavolo da pranzo. La scarsa luce che riusciva a filtrare dalle finestre sembrava raccogliersi tutta nelle trasparenze elusive, nei riverberi, ora sanguigni ora languidi, dei rossi cupi, dei viola, degli amaranto e dei blu di quelle forme. Le mele, le prugne, le pere e i traboccanti grappoli d’uva mi suggerivano opulenze lontane e fiabesche. Quella stanza resterà per sempre una terra mitica ed inesplorata, l’Atlantide della mia infanzia.
6 dicembre 1981.
A mia madre penso sempre piú spesso e intensamente. Le radici della mia forza e della mia capacità di non arrendermi di fronte alle difficoltà affondano nel suo amore. La solitudine, sempre in agguato anche in una vita ricca di affetti e che tre anni fa mi ha improvvisamente svelato il suo volto di Medusa, trova ancora in lei il suo conforto e il suo superamento. Il suo amore totale e definitivo per me e mia sorella è quanto di piú puro e incorruttibile la vita mi abbia donato.
La rivedo in momenti diversi della sua vita, in immagini staccate l’una dall’altra. Ora mi appare giovane, in via Angheben, con i capelli nerissimi ondulati, gli occhi verdi, sempre un po’ affannata e timorosa di non essere all’altezza di qualcosa; ora la penso a Trieste, al campo profughi del Silos, oppressa dagli affanni, dalla miseria, da una madre tirannica, dalla mancanza di una casa, desiderosa solo di invecchiare presto per avere il tempo di «leggere dei libri»; ora la ricordo con i capelli grigi e lo sguardo dolcissimo negli ultimi anni della sua vita, in via Piccardi, di nuovo in una casa vera, finalmente piú serena nonostante altre tribolazioni, contenta di vedere le sue figlie diplomate e con un futuro indipendente, tanto diverso dal suo.
Mi è stata strappata troppo presto, proprio quando avrei potuto cominciare a restituirle quello che fino ad allora avevo soltanto ricevuto.
18 gennaio 1982.
Gli anni trascorsi in via Angheben, divenuta dopo la guerra Zagrebačka Ulica, furono anni di giochi sfrenati, di felicità, di libertà. Il mio giardino, che ho rivisto da adulta trovandolo misero e angusto, ai miei occhi infantili era il mondo intero, era l’avventura. Le sue siepi di ligustro erano una foresta, i gatti che vi si nascondevano, i passeri, le formiche e le lucertole tutti gli animali dell’Eden, i sassi e i vetri colorati sparsi sul terreno tesori e pietre preziose, i gradini che portavano all’abitazione della portinaia la scalinata di una reggia. Dietro, la mia casa confinava con il porto Baross, teatro delle mie prime scorribande fuori dai confini domestici. Dalle finestre vedevo il mare profondo e inquieto del Quarnaro, in cui imparai molto presto a nuotare con l’aiuto di mio padre, abile tuffatore e dotato di una straordinaria capacità di rimanere a lungo sott’acqua in apnea. Si divertiva spesso a fingersi scomparso per sempre e riemergeva solo quando noi già cominciavamo a preoccuparci.
Perfino la tragedia della guerra fu per me una curiosa avventura: bombardamenti, incendi, allarmi, corse nei rifugi mi apparivano indecifrabili episodi che non minacciavano ma solo movimentavano la mia vita. I soldati mi sembravano tutti buoni, da quando, verso la fine della guerra, un giovane militare tedesco, innamorato di una ragazza che abitava nel nostro stabile, venne di nascosto ad avvisarci, affinché potessimo prendere le nostre precauzioni, che l’indomani il porto Baross sarebbe stato fatto saltare in aria con le mine.
Oltre a mia sorella Lucina, bionda, paffuta e tranquilla, quattro anni piú piccola di me, che trascorreva molte ore di riflessione succhiandosi il pollice e mi seguiva docile dovunque, perlopiú contemplando il mio iperattivismo, avevo tanti compagni di gioco. Amavo soprattutto una bambina ebrea, Cicci Naugebauer, che stava al piano inferiore al mio. La sua casa, nella quale ero raramente ammessa, era ordinata e signorile, a differenza della mia che era sempre un po’ sottosopra. La Cicci aveva una stanza tutta per sé piena di giocattoli, tra cui grandi bambole come nuvole rosa. La Cicci doveva essere anche molto viziata, poiché le rare volte che mi si invitava a casa sua era per farle compagnia e distrarla durante i pasti, altrimenti non mangiava. Alla fine della guerra i Naugebauer se ne andarono e nel loro appartamento venne ad abitare una famiglia benestante di slavi meridionali. I due bambini, circa miei coetanei, si chiamavano Branko e Mile. Il padre era un burocrate, la madre una signora bellissima, con gli occhi neri ombreggiati da lunghe ciglia. Il figlio maggiore, Branko, le rassomigliava. Anch’egli aveva gli occhi neri, le ciglia maliose e la carnagione scura.
Sullo stesso mio piano abitava da sempre la famiglia Scatola, con tre figli, il maggiore dei quali, Gigi, aveva la mia età ed era timidissimo. Non mi rivolgeva mai la parola per primo. Rispondeva solamente a qualche mia domanda impertinente, in modo frettoloso e imbarazzato. Ma la cosa non mi preoccupava. Avevo deciso, senza bisogno di interpellarlo, che l’avrei sposato e ne facevo il mio sottomesso, immaginario interlocutore di molti giochi, soprattutto di quelli «alla casa».
Con Branko e Mile e tanti altri bambini slavi che frequentavano il mio giardino imparai rapidamente ad esprimermi in croato, ma poi altrettanto rapidamente dimenticai ogni cosa, dopo aver lasciato Fiume. Mi galleggiano nella memoria, come relitti in un oceano, solo alcuni frammenti di filastrocche infantili, di cui conosco il suono ma di cui mi sfugge il significato: cassezigonaiedè siraicrumpira zielahisciaseplema daziganche darozanche iossiselanema... Forse per inseguire questi significati perduti ho ripreso da due anni a studiare il serbo-croato.
Agli occhi bruni di Branko cominciai a pensare molto spesso e ben presto la mia decisione di sposare Gigi non fu piú tanto salda. Esitai un poco tra fedeltà e avventura, tra familiare ed esotico, ma alla fine cedetti al fascino slavo. Naturalmente Branko mai sospettò di essere complice della mia infedeltà, né mai degnò la piccola italiana selvatica di particolari attenzioni.
La famiglia Scatola, dopo alcuni mesi, partí per l’Italia e molti anni piú tardi seppi dallo zio Alberto che si erano stabiliti a Genova e che Gigi era diventato ingegnere.
19 gennaio 1982.
Curiosamente i cinque anni di scuola elementare trascorsi a Fiume non mi hanno lasciato che ricordi sfocati e spesso sgradevoli. Dalla terza alla quinta classe sperimentai, nella mia città non piú italiana, il sistema scolastico jugoslavo che prevedeva, oltre allo studio obbligatorio della lingua serbo-croata, un insegnante per materia. Io rimpiangevo la mia cara vecchia maestra, materna e indulgente, che mi faceva fare le bordurine sui quaderni a quadretti, mi lodava per le castagne, i soli e gli alberi di Natale con tante candeline sbilenche, che io amavo disegnare, e mi confortava quando spargevo amare lacrime sulle pagine che dovevo strappare a causa dei buchi fatti con la gomma dopo troppe cancellature.
Nessun compagno divenne in particolare mio amico. Ricordo solo Cocon che in quinta era il piú bravo dei maschi, mentre io ero la migliore delle femmine. Tra di noi c’era una sorda rivalità per il primato assoluto. Io lo battevo in lingua ma lui eccelleva in conti, materia che si trasformò alla fine nella mia Waterloo in un compito in classe che proponeva il classico problema della vasca con i rubinetti, il volume, i litri al secondo. Tra gli altri ricordi sgradevoli c’è anche un’interrogazione, in quarta, sulla Rivoluzione Francese. Feci scena muta e alla fine scoppiai in lacrime. Risale forse ad allora il mio difficile rapporto con la Storia, rimasto problematico anche negli anni successivi.
Ma allo squallore dell’ambiente scolastico corrispondeva un panorama familiare assai vario e interessante. Oltre alla mamma, a mia sorella e al mio grande papà (sempre un po’ frettoloso, a dire il vero, con la sua famiglia alla quale dedicava solo tempi marginali, pur essendole molto affezionato), vivevano con noi, fin dai primi tempi del loro matrimonio, anche il fratello piú giovane della mamma, lo zio Alberto, e sua moglie, la zia Ada. Lo zio Alberto mi voleva molto bene, d’altronde corrisposto, anche se in modo petulante e aggressivo. Il fatto è che ero gelosissima della zia. Non sopportavo che i due sposi cercassero di appartarsi, mi escludessero dalle loro conversazioni, dorm...