Buon Gesú, figlio di Giuseppe e di Maria, di che cosa ti sentivi in colpa quando iniziasti la tua predicazione in Galilea e sulle sponde del lago Tiberiade e ti battezzasti dal Battista sulla riva del Giordano?
Ti sentivi in colpa e per espiarla decidesti di caricarti sulle spalle le colpe degli altri. Abbandonasti la tua famiglia e dicesti ai tuoi discepoli di fare altrettanto se avessero voluto seguirti. Ma tu quale colpa avevi mai commesso per voler pagare il tuo debito assumendoti la sofferenza del tuo prossimo?
Per trent’anni avevi vissuto nella casa dei tuoi. Non c’è traccia alcuna della tua vita di ragazzo, di adolescente e di adulto. Perché eri adulto, eri uomo fatto quando cominciasti a parlare e ad incantare i figli di Zebedeo, Simone, i suoi amici pescatori e gli altri che ad essi si unirono.
Buon Gesú, tu hai molto amato. Hai amato gli altri assai piú di te stesso senza aspettarti che gli altri ti restituissero l’amore che tu gli offrivi in dono. Quest’amore era un debito che sentivi di dover pagare affinché i conti col tuo destino tornassero in pari?
La prova dell’amore che avevi per te stesso è contenuta nelle stesse Scritture con le quali gli evangelisti hanno raccontato la tua predicazione. Non il Gesú mite e dolce ma quello duro e sprezzante. Il piú sconvolgente è il passo di Luca (14.26) dove il Maestro si rivolge ad un aspirante discepolo e gli dice: «Se uno viene a me e non odia suo padre, sua madre, la moglie, i figli, i fratelli, le sorelle e perfino la propria vita, non può essere mio discepolo».
E un altro spunto da Matteo (8.22) dove, a un suo seguace cui era morto il padre e voleva andare ai funerali, dice: «Tu seguimi e lascia che i morti seppelliscano i morti». E ancora: «Qualunque peccato o bestemmia sarà perdonata, ma la bestemmia contro lo Spirito non sarà perdonata» (12.31).
Gli storici cristiani di solito sorvolano su questo Gesú che alterna la gentilezza del cuore e l’amore per il prossimo con la durezza del fustigatore e con la pretesa di un amore esclusivo che i suoi seguaci debbono riservargli. San Paolo non fa menzione di questa duplicità ma sa dal canto suo che tutto è a lui dovuto perché lui tanto a tutti ha dato.
Non cosí Agostino che è forse il primo a sentirsi «impotente» nelle sue Confessioni, a spiegare il perché di quella durezza e di quelle parole cosí lontane dalla carità e dall’amore per il prossimo del quale Paolo ha fatto il fondamento della religione. Quel Gesú cosí duro verso gli altri e cosí preso da una sorta di egocentrismo pone «una questione assai impegnativa e non se ne trova altra, nelle Sacre Scritture, piú difficile da risolvere».
Agostino tenta di porre il problema che lo angoscia in un contesto dove è di scena la lotta contro Satana e il peccato. Per vincerla Gesú sa che occorre schiacciare il demonio per mezzo dello Spirito di Dio: se lo Spirito è la remissione dei peccati, bestemmiare contro di esso significa chiudersi al perdono e dare a Satana battaglia vinta.
L’interpretazione agostiniana tuttavia è ben lontana dal risolvere la duplicità della natura umana del Cristo. L’uomo Gesú – che sia un’incarnazione di Dio o un uomo convinto di esserlo – contiene in sé la stessa contraddizione esistente in ogni persona, tra quelle due forme di se stesso e gli altri, da lui portata al parossismo.
Questa è la ragione per cui è il Crocifisso, e non il Dio risorto, la vera icona del cristianesimo. La crocifissione, quello è stato il suo vero simbolo.
Buon Gesú, tu hai mai desiderato? La tua carne ha mai chiesto di essere soddisfatta con il piacere? Certamente sí perché se cosí non fosse avvenuto il tuo merito sarebbe molto minore di quello che i tuoi fedeli ti attribuiscono. Tu hai desiderato ma hai trasformato quel desiderio in pietà e carità per gli altri. Un miracolo? Sí, un miracolo. L’hai potuto fare perché eri un Dio oppure hai compiuto uno sforzo disumano con la tua umana volontà?
Queste domande non sono retoriche come forse potrebbe sembrare; servono a capire in che modo un uomo fatto di carne sangue pensieri e desideri riesca a deviare la fiamma del suo eros sugli altri anziché su se stesso. E la conclusione è una soltanto: tu, figlio dell’uomo, hai amato smisuratamente gli altri perché amavi smisuratamente te stesso.
Come te, rabbi, ne nasce uno ogni mille anni che dà al suo prossimo l’allegria di passare dal sé al noi, trasformando l’egoismo in carità. Quel miracolo tu l’hai fatto negli ultimi anni della tua vita e l’hai esposto chiarissimamente a te stesso nel discorso della montagna. Non so fino a che punto i tuoi seguaci ti hanno innalzato o diminuito riconoscendoti come Figlio di Dio.
«Principio del Vangelo di Gesú Cristo, Figlio di Dio.
Come ha scritto il profeta Isaia: “Ecco, io mando il mio messo avanti a te perché ti prepari la via”. E comparve Giovanni Battista a predicare: “Preparate la via del Signore, appianate i suoi sentieri”. Comparve nel deserto e predicò un battesimo di pentimento per la remissione dei peccati. E cominciò ad accorrere a lui tutta la Giudea e tutti quei di Gerusalemme e venivano da lui battezzati nel fiume Giordano confessando i loro peccati. Giovanni era vestito di pelli di cammello con una cintura di cuoio intorno alla vita e si cibava di locuste e di miele selvatico. E predicava dicendo: “Viene dopo di me uno che è piú forte di me e io non sono degno di chinarmi a sciogliere la correggia dei suoi sandali. Io vi ho battezzati con acqua ma egli vi battezzerà con Spirito Santo”.
Or in quei giorni venne Gesú di Nazareth dalla Galilea e si fece battezzare da Giovanni nel Giordano. E appena risalito dall’acqua vide aprirsi i cieli e discendere lo Spirito come colomba sopra di lui. E una voce venne dal cielo: “Tu sei il mio diletto Figlio, in te io mi compiaccio”.
E subito lo Spirito lo spinse nel deserto. E rimase nel deserto per quaranta giorni, tentato da Satana; viveva con le fiere e gli angeli lo servivano».
Cosí comincia il Vangelo di Marco; secondo la dottrina della Chiesa il secondo, preceduto di cinque o sei anni da quello di Matteo; secondo altri studiosi il primo, seguito a breve distanza da Matteo e poi da Luca e Giovanni.
Questa cronologia è importante. Matteo e Luca raccontano infatti diffusamente della nascita di Gesú e delle prime vicende della sua infanzia. Poi tacciono su quanto avvenne dalla prima infanzia al battesimo nel Giordano e all’inizio della predicazione, quando Gesú aveva trent’anni. Matteo anzi traccia nelle prime righe del suo Vangelo addirittura la genealogia da Abramo a Gesú che discenderebbe dalla stirpe di Davide.
Ma nulla di tutto ciò troviamo nel Vangelo di Marco che, come abbiamo appena visto, introduce Gesú nel momento in cui si battezza e poi viene sospinto dallo Spirito nel deserto dove vive con le fiere e servito dagli angeli ma sotto la costante tentazione del demonio che dopo quaranta giorni Egli scacciò definitivamente per poi rientrare in Galilea da dove presto ripartirà lasciando per sempre la sua casa dove mai piú tornerà.
Non si parla di Maria né di Giuseppe né di fratelli, né del mestiere che può aver fatto in quei trent’anni. Nulla. Una breve menzione dei familiari Marco la scrive quando Gesú sta predicando in una casa ospitale nei pressi di Cafarnao, ma è tutt’altro che affettuosa. Una delle persone che lo ospitano in quella casa, dove Gesú predica e soprattutto esercita i suoi poteri di guaritore, gli sussurra all’orecchio che sono arrivati per vederlo la madre e i fratelli. Gesú ascolta e poi ad alta voce risponde: «Mia madre e i miei fratelli sono questi qui con me. Dí a quelli che ti mandano di tornare alla loro casa».
Del resto anche Matteo, che pure fornisce sui parenti di Gesú una notevole quantità di informazioni, non tace alcune sortite assai brusche di Gesú sulla famiglia in generale e sulla sua in particolare.
Nel Vangelo di Marco, comunque, il Figlio di Dio – poiché cosí lo chiama l’evangelista fin dalle prime righe del testo – entra in scena a trent’anni.
Giovanni invece (di cui si discute ancor oggi se sia l’apostolo oppure un’altra persona) comincia in tutt’altro modo rispetto agli altri tre evangelisti, ed è un inizio dall’andatura non cronachistica ma profetica e poetica insieme:
«In principio era il Verbo
e il Verbo era presso Dio
ed era Dio il Verbo.
Le cose tutte furono fatte per mezzo di lui
e senza di lui nulla fu fatto di quanto esiste.
In lui era la vita
e la vita era la luce degli uomini
e la luce risplende tra le tenebre
ma le tenebre non l’hanno ricevuta».
Poi prosegue in questa sorta di Genesi che rimpiazza quella biblica ed arriva alla comparsa del Figlio con un impeto poetico che è al tempo stesso evocazione della potenza di Dio, fonte unica della luce che soltanto lui può dispensare alle creature. Per dare inizio a questo percorso manda in terra il Battista «affinché per mezzo suo tutti credessero». Ma il mondo sembrava difficile da illuminare e neppure il Battista ci riesce:
«Era nel mondo il Verbo
e il mondo fu fatto per mezzo di lui
ma il mondo non lo conobbe.
Venne nelle sue case
ma i suoi non lo ricevettero.
Ma a quanti lo ricevettero
diede il potere di diventare figli di Dio
ai credenti nel suo nome
che non per via di sangue
né da voglia di carne,
ma da Dio sono nati».
Finalmente si compie il miracolo:
«Il Verbo si è fatto carne
e abitò tra noi
e noi fummo spettatori della sua gloria,
gloria quale l’Unigenito ha del Padre,
pieno di grazia e di verità
perché la Legge fu data per mezzo di Mosè
ma la grazia e la verità
è venuta per mezzo di Gesú Cristo.
Dio non l’ha mai veduto nessuno,
ce l’ha manifestato l’Unigenito Dio
che sta nel seno del Padre».
Per l’evangelista Giovanni, Gesú è dunque il Verbo che si è fatto carne e qui termina l’incipit del suo Vangelo e comincia il racconto, col battesimo nelle acque del Giordano, la predicazione, i primi discepoli, le prime guarigioni. I quaranta giorni di tentazioni del demonio non fanno parte del racconto. Evidentemente per Giovanni il Verbo fatto carne non si confronta col demonio perché non ha bisogno di mettersi alla prova.
Ho ricordato alcuni aspetti dei Vangeli sinottici e in particolare il diverso approccio iniziale dei quattro evangelisti alla storia del loro Signore. Quella diversità pone infatti una serie di questioni tutt’altro che trascurabili, se non altro perché, a parte i Vangeli e gli Atti degli apostoli, non abbiamo alcun altro documento sulla persona storica di Gesú di Nazareth, se non il nome, allora molto comune nelle terre di Palestina (ancora oggi è abbastanza diffuso), e il luogo di provenienza. Per ciò che attiene alla sua predicazione, le parabole con le quali egli stesso si espresse, le guarigioni miracolose che gli sono state attribuite, i personaggi privati e pubblici (alcuni dei quali storicamente esistenti) e infine la dottrina che gli apostoli ne ricavarono e sulla quale sorsero le prime comunità della nuova religione, non abbiamo altra fonte che i Vangeli. Da quelle pagine nasce il mito di Cristo, indifferentemente definito figlio dell’uomo e figlio di Dio e soltanto da Giovanni fatto coincidere anche con il Verbo, creatore di tutto l’esistente.
Il Verbo di Giovanni non è altra cosa che l’Essere. Solo che l’Essere di cui qui si parla e che ritroveremo nel momento della resurrezione dei corpi e delle anime capillarmente diffuso ovunque ci sia vita, s’identifica con un uomo, figlio dell’uomo.
L’enigma è questo e tutti ci riguarda perché da quell’enigma trasformatosi in mito e in grandioso simbolo religioso è nata una civiltà, un’istituzione che ha ormai duemila anni di storia, una fede che ha due miliardi di seguaci. E un confronto, di ciascuno di noi con noi stessi, con gli altri e col mondo.
Un enigma, un mito, una religione, una civiltà. Le anime pellegrine che vagano alla ricerca di se stesse, dell’amore, della verità, animate dalla speranza o segnate dalla disperazione, sono profondamente coinvolte da quell’enigma, chiamato Gesú. «Appare dal nulla, avvolto nel mistero, e subito scompare. Mentre gli altri lo vedono carico di un carisma abbagliante, egli fatica lungo il sentiero della vita. È l’eroe esistenziale: solitario, sradicato dalla sua famiglia e dalla sua dimora, irrequieto, sempre in marcia. Fino a metà della sua missione è ignaro di dove sta andando».
Cosí lo racconta uno dei suoi piú attenti studiosi, l’australiano John Carroll, in un libro recente intitolato L’enigma Gesú. Con parole molto efficaci Carroll ripropone un tema che fa parte integrante della storia del sapiens. Non è affatto il solo uomo che si è fatto Dio o che, a sua insaputa, lo è diventato. L’enigma riguarda lui stesso e quelli di noi che cercano di risolverlo perché ci interroga sulla natura dell’Essere, del suo tessuto, del suo rapporto con quanto esiste qui ed ora, con quanto è esistito nel passato ed esisterà nel futuro, fino alla fine dei tempi. Riguarda la filosofia, la scienza, l’anima. Riguarda la storia delle idee. Riguarda Amleto. Se Amleto fosse realmente esistito e non soltanto nella fantasia di Shakespeare, quanto sarebbe diverso dal Nazareno?
Amleto si pone le domande sull’Essere, alle quali non sa rispondere se non con la testimonianza della sua vita, delle sue contraddizioni, della sua profonda saggezza e della sua disperata follia. Gesú è anch’egli venuto per testimoniare con la sua vita. Ma che cosa? Che cosa voleva testimoniare o che cosa noi desideriamo credere che abbia testimoniato? Noi, anime pellegrine i cui desideri e i cui pensieri ingombrano il cielo, pensiamo che abbia testimoniato l’avvento di un miracolo: l’annullamento dell’amore per sé e il trionfo dell’amore per gli altri.
È stata ed è questa la storia di Gesú di Nazareth, figlio dell’uomo o Verbo incarnato che sia?
Ma tu, buon Gesú, hai avuto un compagno che fu divorato dalla colpa senza riuscire a trasformarla in amore per gli altri. Il suo comportamento fu esattamente l’opposto del tuo ed anche del gruppo di cui faceva parte. Esaminare il suo comportamento serve a chiarire ancora meglio il tuo. Giuda Kariot, lo zelota, fu quel compagno che ti tradí, ti vendette e infine si impiccò mentre il cielo esplodeva solcato dai fulmini, la terra tremava e tu sulla croce esalavi l’anima mortale.
Il personaggio di Giuda è uno dei punti centrali di quella storia perché il traditore, il peccatore, lo strumento designato e addirittura necessario, e la sua punizione segna il massimo d’incoerenza della divinità. Sono temi sempre ricorrenti tanto piú nella nostra modernità agitata d...