La lenta nevicata dei giorni
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La lenta nevicata dei giorni

  1. 256 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
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La lenta nevicata dei giorni

Informazioni su questo libro

Fernande e André sono una giovane coppia in fuga dai nazisti, che insieme ad alcuni amici ebrei trascorre il periodo della guerra in un beato ma angoscioso isolamento durante il quale il tempo sembra sospeso. La promessa che si fanno è quella di poter tornare un giorno alla casa del sogno: una villa a picco sul mare nel sud della Francia, sotto un enorme faro bianco. E se molti loro amici e conoscenti sono destinati agli atroci viaggi nei treni piombati, alla diaspora degli affetti e alla perdita dell'identità - prima ancora che della vita -, loro due invece ce la faranno. Dopo la guerra Fernande vive intensamente, fra Parigi e la casa del sogno. Ma il matrimonio con André diventa un rapporto di confidenza e intimità simili a quelle che si riservano agli amici. Nel frattempo Fernande incontra il Poeta, che la eleggerà a musa ispiratrice della sua arte, regalandole una trasgressione venata di dolcezza.
Il passato però resta sempre lí. Non è neanche un'eco, piuttosto una presenza costante, incancellabile, terribilmente dolorosa. Qualcosa che «non passa, non passa, non passa per nessuno di noi». Perché ciò che è accaduto è inestirpabile: tutti i personaggi in qualche modo lo incarnano, lo rivivono anche se non ne parlano mai.
La lenta nevicata dei giorni - che deve il titolo a un verso di Primo Levi - è un romanzo capace di ricomporre lo specchio infranto che è la memoria di chi sopravvive.

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Informazioni

Editore
EINAUDI
Anno
2013
Print ISBN
9788806214692
eBook ISBN
9788858410905

Allora

Il cunicolo
(tardo autunno, 1943)

Fra via alla Villa Quiete e viale Enrico Thovez, quasi nel punto di confluenza – poco sopra quello che un tempo si chiamava viale dei Colli Inferiori, dove scorre il fiumiciattolo sul quale si affacciavano le manifatture –, c’è un cunicolo nascosto fra le case. Non è propriamente sottoterra, ma quasi: c’è una piccola volta, a misura di bambino, che si snoda in discesa per una quarantina di metri, sommersa dalla vegetazione. Sui mattoni porosi si è depositata una coltre di muffa e muschio, d’estate il glicine fiorisce almeno due volte e lo sommerge, d’inverno è un reticolo di rami e nodi, persino il convolvolo gli sta appiccicato addosso come per proteggerlo, nasconderlo. Devono essere tanti anni che non lo usa piú nessuno, perché lo sbocco a monte è tappato da un cumulo compatto di terra e foglie secche, sembra quasi pietra. A valle, volendo, si potrebbe ancora mettere il naso dentro, l’ingresso del cunicolo sta incuneato fra le case del nuovo complesso residenziale che hanno ricavato dai vecchi laboratori ormai in disuso: «Ampi monolocali», «Loft luminosissimi», «Mansarde di prestigio», recita il cartello dell’ufficio vendite, con il disegno del progetto che ormai è stato completato e le case sono lí, a grandezza naturale quasi uguali a quelle dipinte. Ma prima o poi lo tapperanno per ragioni di sicurezza: se un bambino ci entrasse per gioco, potrebbe essere pericoloso.
– Corri Teresa, corri piú lesta che puoi!
La bimba si voltò verso il padre, lasciando cadere il pugno di castagne d’India appena raccolte in un vecchio cestino di paglia che le aveva dato sua madre; l’intreccio aveva ceduto e si era sfilacciato in piú punti, sul fondo c’erano tre buchi. Teresa in quel cestino ci faceva la minestra: rimestava foglie secche, aghi di pino, qualche sfalcio d’erba lasciato dal padre, e quelle grandi castagne lucide. Cuoceva e cuoceva e poi imboccava le sue bambole immaginarie, una per una, con infinita pazienza e uno slancio d’amor materno quasi adulto.
– Corri Teresa, presto, stanno arrivando!
La bambina si voltò di qua e di là, in cerca di qualcuno, di qualcosa. Poi guardò suo padre, impalata.
– Passa di lí, sotto, passa di lí… Stanno arrivando i corvi!
Il padre si alzò in punta di piedi. Era in pendenza e faticava a tenersi in equilibrio. Si appoggiò al lungo rastrello. Da quell’angolo del giardino, oltre la coltre di alberi e siepi, al di là dell’imponente muro di cinta sormontato da una selva di variopinti cocci di bottiglia, s’intravedeva il corso. In quel periodo di guerra era quasi sempre deserto. I pochi passanti andavano di fretta, a capo chino, ansiosi di un riparo: gli spazi della città erano costellati di invisibili sabbie mobili e non tornare a casa era quasi piú facile che ritrovarla dopo essere usciti. Ma il quartiere addossato alla collina era sempre tranquillo e anche in tempo di pace il passaggio era rado. Per questo e altro, quel pomeriggio i tre corvi – neri dalla testa ai piedi – sfondavano il paesaggio: ancor prima di vedersi in tutta la loro prepotenza, si scorgevano nel movimento d’aria, nel riflesso delle voci, nel rumore di tacchi contro il selciato. Avevano lasciato la camionetta dietro la curva, forse per depistare, e stavano salendo a piedi, in parata.
– Corri ad avvertire la signora Lydia che non torni a casa quando scende dal tram, corri prima che salgano!
Teresa rivolse a suo padre uno sguardo implorante, poi fissò per un’ultima volta il cesto, il mucchietto di castagne, l’invisibile famiglia di bambole sedute per terra in attesa della minestra, controllò i lacci di tutte e due le scarpe e prima di buttarsi dentro il cunicolo gettò un’occhiata al cielo. Pareva sicura che non l’avrebbe mai piú rivisto, un cielo cosí limpido e intenso come se l’avessero appena pitturato.
Dentro era tutto buio e appesantito da un’umidità che sgocciolava dalle pareti, trasudava dal terreno infido: buche, zolle di terra, qualche piccolo dosso disegnato dalle talpe. Trascorso un tempo che a Teresa parve interminabile, una lama di luce le graffiò il viso e subito dopo si ritrovò fuori. Non l’aveva mai fatto, e in condizioni normali non l’avrebbe mai fatto: quel tunnel era l’incubo ricorrente delle sue notti, lo spauracchio del giardino. Arrivavano per mano, suo padre con il secchiello e il rastrello, lei con il cestino della minestra. Dopo un po’ che lui trafficava con le piante e l’erba, Teresa si calmava, riusciva a stare tranquilla con le sue invisibili bambole. Ma ogni volta che doveva tornarci, alla villa, era la solita storia d’angoscia che non raccontava a nessuno. Ogni volta che il padre le comandava: «Teresa vieni con me a fare i lavori alla villa!» lei sentiva un brivido lungo la schiena e dentro la gola: dal cunicolo nero uscivano talvolta dei lupi con le fauci aperte, talvolta dei mostri informi e bui piú del nero, solo gli occhi trasparenti e minacciosi. O la strega…
La signora Lydia arrivò pochi minuti piú tardi, con il primo tram che si fermò alla palina, il numero 13. Era bella come sempre e non sospettava nulla: aveva indosso la solita paura di chi sa di essere braccato notte e giorno, ma niente di piú. Vestiva tutta di nero non perché fosse in lutto, ma forse per il contrario. Da quando aveva sposato l’ingegner Attilio Cordero sapeva che qualcuno lo portava per lei, il dolore della perdita, di un’assenza inguaribile. Il padre di Lydia, infatti, l’aveva pianta per una settimana, seduto per terra. Si era lacerato il bavero della giacca, aveva coperto tutti gli specchi di casa. Poi aveva cercato di dimenticarla e chissà se ci era riuscito… Ma forse Lydia si vestiva di nero soltanto per eleganza, o per mimetizzarsi in quel desolato paesaggio urbano di una Torino sotto la guerra e il pugno duro dei fascisti.
Scese dal tram, apparentemente sola. Poi si girò verso la porta, allungò le braccia e ne trasse fuori una bambina, piccola e stordita. Teresa non riusciva a credere a quello che le ripeteva sua madre: «Sai che Simone ha la tua età? È nata a maggio, proprio come te!» Non aveva mai osato rivolgerle la parola, mai nessuna delle tante volte in cui l’aveva incrociata nel giardino della villa o l’aveva intravista alla finestra della torretta lassú, quasi dentro il cielo.
Appena Simone toccò terra con i piedini sospesa fra le mani di sua madre che la teneva stretta sotto le ascelle, Teresa spuntò da dietro l’angolo, tutta sporca di terra, umida e scura. Aveva ancora il fiatone.
– Signora, signora! – gridò, ma sottovoce. Persino a lei che aveva solo sei anni la guerra aveva insegnato a tenersi rasoterra, con la voce e i movimenti.
Lydia si piegò in ginocchio verso la piccola, stringendola per il braccio.
– Teresa, che c’è?
– Sono arrivati i corvi neri, non può andare a casa signora… L’ha detto mio padre mi ha detto: corri corri lesta ad avvertire la signora che non torni a casa perché ci sono i corvi neri…
La donna guardò Teresa senza dire nulla, le fece una lunga carezza che dalla guancia destra risalí sul capo e scese sulla nuca, e prima di rialzarsi le diede un bacio sulla fronte. Leggero che era: Teresa non aveva mai sentito un bacio cosí. Poi la signora Lydia guardò su, verso la villa dove in quel momento i tre corvi stavano aspettando impettiti all’ingresso.
«L’ingegnere scende subito, prego aspettino qui», aveva detto Fedele abbassando lo sguardo verso il grembiale bianco con il bordo di pizzo un poco liso. Aveva una folta crocchia di capelli ormai grigi che stringeva in alto sulla nuca: nessuno in casa li aveva mai visti sciolti, dovevano essere lunghissimi. L’ingegnere però era ancora seduto alla sua scrivania nello studio ovattato dalle grandi tende rosse e dal mobilio massiccio, caldo. Teneva la testa fra le mani e singhiozzava. Gli ci volle un po’ prima di riprendersi e alzarsi per presentarsi a quei tre. Fuori dallo studio aveva gettato un’occhiata fino in fondo al corridoio, come per accertarsi che sua moglie non ci fosse davvero. «La signora non è ancora rientrata, – aveva detto Fedele. – Speriamo non lo faccia proprio adesso, speriamo».
Lydia sarebbe tornata a casa solo l’indomani, nel primo pomeriggio, accompagnata da un’insolita calura autunnale. L’ingegner Cordero disperava ormai di rivedere la moglie e la figlia, aveva trascorso la notte solcando avanti e indietro il grande salotto della villa, sempre nel medesimo punto: da un angolo all’altro del tappeto e di lí fino al mobile bar da una parte e alla vetrata che dava verso il giardino dall’altra; avanti e indietro a passo veloce come se qualcuno lo stesse aspettando ogni volta alla fine di quel tragitto. E piangeva, singhiozzava, parlava a se stesso, alla moglie, al passato che lei si era portata via, sparendo. Non pensò mai, nemmeno un istante, che l’avessero presa i fascisti. Di questo l’ingegnere era sicuro, anche se non seppe mai che Teresa era scesa giú per il cunicolo ad avvertire la signora, perché la bambina non lo disse a nessuno: suo padre si limitò a un cenno interrogativo quando lei tornò su al giardino, lei rispose con un cenno affermativo e la cosa finí lí, anche perché la signora Lydia l’indomani non disse nulla neanche lei, forse per non tradire la bambina, forse perché in quel tempo di guerra anche i muri e l’aria aperta avevano orecchie per sentire, occhi per spiare.
Appena entrata in casa lasciò la manina di Simone e fu un distacco quasi impossibile, dopo tutto quel tempo trascorso mano nella mano, madre e figlia.
Simone si buttò fra le braccia di Fedele: – Sono tornata, Fedele, – e quella faceva sí con la testa fra i singhiozzi, tenendo la bambina sollevata in alto. La signora Lydia invece circondò con un braccio il collo del marito e affondò la testa sotto il mento di lui, senza una lacrima, un sospiro. Poi si scostò per guardarlo con gli occhi pieni di una compassione amorevole, quasi materna. Lui non fece domande, lei non rispose alle domande che lui non aveva fatto, e nessuno seppe dove si erano nascoste, dove avevano passato la notte, e come.
Era bello, il fiume. E vivo, anche se pareva vecchio e sfinito, quasi immobile nell’estate trascorsa da poco. Le anatre accucciate sul pelo dell’acqua vi si riflettevano come in uno specchio, un gatto randagio spuntava ogni tanto fra il fogliame dell’argine, lo sguardo famelico.
Lungo quel corso d’acqua Lydia aveva ritrovato il paesaggio della sua infanzia, che credeva perduto per sempre. Era nata in Madagascar, a un passo dalla selva tropicale, dentro un’aria intrisa di perenne umidità, eppure tersa, un po’ come il Po a Torino d’autunno. Suo padre faceva l’ingegnere minerario e aveva visitato mezzo mondo, prima da solo e poi con la sua piccola famiglia. La madre di Lydia veniva da Praga, ma non ci era mai piú tornata: quella vita nomade al seguito del marito le piaceva, sembrava fatta apposta per lei. Quando Lydia aveva cinque anni si erano trasferiti nei paraggi di Budapest. E poi il Congo. Marsiglia. Qui Lydia aveva conosciuto Attilio e poco dopo era arrivata a Torino. È una città pigra, ma che ti attanaglia e non ti lascia piú andare via, diceva sempre lei. Pigra mica tanto, commentava Attilio, guarda come tutto si muove, si sviluppa… È il progresso! Solo apparenza, ribatteva Lydia, guarda come dorme, e noi con lei… Scuoteva la testa, chissà se per ironia o disperazione. Neanche la nascita di Simone l’aveva svegliata da quella specie di incantesimo che in fondo era innamoramento. Per Attilio che aveva piú o meno l’età di suo padre, per la città dove si era fermata, finalmente.
Ma la paura e lo smarrimento, il pensiero terribile di non poter tornare anche se la casa era appena lassú, poco oltre l’argine e il filare di alberi lungo la strada in salita verso le colline, tutto questo non se ne andava. Era una strana, terribile sensazione di minaccia e confidenza, come se la casa non fosse piú stata la stessa, da quando i corvi neri avevano suonato il campanello e chiesto di lei per portarla via.
Lydia quel pomeriggio tornò, mano nella mano con sua figlia che aveva tenuto per mano tutta quella notte. Tanti e tanti di quegli anni dopo di allora che si faceva fatica non solo a contarli, anche immaginarli, Simone Cordero Gottlieb avrebbe ritrovato quella strana e terribile giornata sulle rive di un altro fiume, non il Po lungo il quale avevano camminato allora lei e sua madre, fino allo stremo. Chissà perché, quello sarebbe stato il primo ma anche l’ultimo ricordo che serbava di lei. Quella passeggiata atterrita e disperata e triste e angosciosa ma anche bella, divenne l’alfa e l’omega della sua vita, prima dell’orfanità.
– Tu e Simone dovete andare via, – disse Attilio quella sera, sottovoce, in camera da letto.
Entrambi sapevano che i fascisti sarebbero tornati: la caccia all’ebreo non era una scommessa, era un esercizio di tenacia e sicurezza, non ammetteva smacchi, mani vuote. Gli ebrei non avevano le ali, non avevano un manto mimetico, la loro voce era inconfondibile, cosí come lo erano gli indirizzi delle loro case. Prima o poi i fascisti li scovavano, e li consegnavano ai tedeschi. La caccia all’ebreo finiva sempre cosí: con una cattura.
– E tu?
– Io non posso. Resto qui. Non posso abbandonare la ditta e la casa, non ritroverei piú nulla quando la guerra finirà… Se finirà.
Nella stanza accanto Simone si lamentò. O forse era il vento.
– Comunque, – proseguí lui, – per voi due è troppo pericoloso restare qui. Torneranno. Domani, dopodomani… Non potete restare. Troveremo un posto.
Lydia si alzò dalla poltroncina rossa e uscí dalla stanza senza dire nulla. Tornò poco dopo.
– Ha il sonno agitato, la bambina. Era tutta scoperta, e parlottava, sbuffava… Chissà che cosa sta sognando.
– Lydia, ascolta…
Lei scosse la testa: – Ci nasconderemo in giardino. Basta.
Attilio si mise le mani sul capo, affondò il viso dietro gli avambracci e prese a dondolare con tutta la schiena, avanti e indietro, avanti e indietro. Dopo un lungo momento guardò sua moglie, fece cenno di no.
Tre giorni piú tardi, alla stessa ora, i corvi neri tornarono. Non trovarono l’ingegnere, che era andato in ditta anche se le lavorazioni erano quasi ferme e i pochi operai rimasti facevano piú che altro la guardia ai materiali in attesa che qualcosa succedesse, o non succedesse piú. Andare in ditta era un modo per restare e sentirsi vivo anche se non c’era nulla da fare.
La mattina stessa, all’alba, erano venuti a prenderle con un piccolo autocarro che faceva la spola fra Giaveno e la città per conto dell’ospedalino. Era ancora buio fitto: con una parvenza di luce al di là della cresta piú alta della collina pareva un miraggio piú che un annuncio d’alba. «Tenetevi pronte da quando fa buio, – aveva detto l’autista prendendo gli accordi, – non si sa mai quando è meglio muoversi». E invece era arrivato quasi alla fine della notte, con i fari oscurati. Si era fermato davanti a casa loro e non era sceso dal posto di guida, aveva solo tirato fuori dal finestrino un lungo braccio, sventolandolo tre volte, silenziosamente. Un muto movimento d’aria che però era bastato. Un attimo dopo, dal cancelletto quasi invisibile fra l’edera del muro – non la porta principale, imponente –, la donna e la bambina erano uscite per mano. La bambina aveva con sé una piccola valigia di pelle chiara, la donna solo una bambola bellissima e troppo grande, con una faccia rosa di porcellana e gli occhi acquosi sgranati, ingigantiti da ciglia rigide e molto lunghe. Aveva salutato l’autista con un cenno del capo ed era entrata per ultima nel veicolo. In mezzo, fra lei e l’uomo, era rimasta la bambina: pareva troppo piccola per la sua età, quasi l...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. La lenta nevicata dei giorni
  3. Sempre
  4. Poi
  5. Infine
  6. Allora
  7. Poi
  8. Infine
  9. Nota
  10. Il libro
  11. L’autore
  12. Dello stesso autore
  13. Copyright