La voce rude e bassa lo sorprese alle spalle mentre scendeva il buio.
– Ehi, George.
Era l’ora della preghiera serale, quando sotto la luce normale non distinguevi un filo nero da uno bianco. George mise mano alla cintura e si voltò, brandendo il coltello da frutta. Per tutta Istanbul, i muezzin nei minareti buttarono indietro la testa e intonarono la loro nenia.
Era l’ora giusta per ammazzare a calci un uomo in mezzo alla strada.
I rochi ululati percorsero a ondate convulse il Corno d’Oro, dove i barcaioli greci accendevano le lanterne dei loro guizzanti caicchi. Investirono la città di Pera, poche luci balenanti dal crinale scuro della collina di Galata. Lambirono il Bosforo, fino a Üsküdar, una macchia viola che sfumava nel nero delle montagne, e tornarono indietro dalla sponda asiatica, riecheggiati dalle moschee a fior d’acqua.
Un piede gli centrò le reni. George spalancò le braccia e barcollò verso un uomo che aveva il muso lungo come per un dispiacere.
Uno dopo l’altro, i muezzin innalzarono il loro grido, sempre piú forte, intrecciando un canto scintillante che esprimeva in mille modi la debolezza dell’uomo e l’unicità di Dio.
Il coltello non serví piú a niente.
La chiamata alla preghiera durò un paio di minuti, ma per George terminò prima. L’uomo dalla faccia triste si chinò a raccogliere il coltello. Era affilatissimo, ma aveva la punta spezzata. Non era adatto per un combattimento. Lo gettò fra le ombre.
Quando gli uomini tolsero il disturbo, un cane giallo sbucò cautamente da un uscio poco lontano. Un altro si allungò sul ventre e si accucciò, con un guaito speranzoso. La sua coda picchiava per terra. Il cane giallo lanciò un ringhio sommesso e mostrò i denti.
Maximilien Lefèvre si sporse dal parapetto e gettò il sigaro nella spuma che ribolliva dai fianchi del bastimento. La Punta del Serraglio andava disegnandosi di prua a sinistra, gli alberi ancora neri e fitti nella luce mattutina. Mentre la nave doppiava la Punta, rivelando la Torre di Galata sulla collina di Pera, Lefèvre estrasse dalla manica un fazzoletto per pulirsi le mani: erano appiccicose per l’aria salmastra.
Guardò le mura del palazzo imperiale, tergendosi la nuca con il fazzoletto. Nel quarto cortile del serraglio, seminascosta fra gli alberi, c’era un’antica colonna sormontata da un capitello corinzio, che a volte era visibile dal mare. Forse era l’ultimo vestigio di un’acropoli sorta in quell’area molti secoli addietro, quando Bisanzio era solo una colonia greca. Prima che diventasse una seconda Roma, prima che diventasse l’ombelico del mondo. La gente non sapeva che la colonna esisteva ancora: a volte la vedevi, altre no.
La nave beccheggiò e Lefèvre lanciò un grugnito di soddisfazione.
La riva stambuliota del Corno d’Oro si profilò all’orizzonte, una sfilata di cupole e minareti che balzavano in avanti, una dopo l’altro, per poi ritrarsi pudicamente. Sotto le cupole, sparsi a cascata sull’affollato litorale, i tetti di Istanbul, tinti di rosso e arancione nel primo sole. Era il panorama che lasciava sempre ammirati i visitatori: Costantinopoli, Istanbul, città di patriarchi e di sultani, frenetico caleidoscopio del meraviglioso Oriente, orgoglio di quindici secoli.
La delusione arrivava dopo.
Lefèvre scrollò le spalle, accese un altro sigaro e volse l’attenzione al ponte. Quattro marinai scalzi con le magliette luride aspettavano il segnale del capitano, curvi sulla catena dell’ancora. Altri raccoglievano le vele in alto. Il timoniere accostò a dritta, posizionando la nave fra la riva e la corrente contraria. Il capitano alzò la mano, la catena si srotolò con un fragore di cannone, l’ancora morse il fondo e la nave beccheggiò lentamente all’indietro tendendo la catena.
Venne calata una scialuppa e Lefèvre vi prese posto dopo il suo baule.
Sul pontile di Pera, un giovane marinaio greco saltò a terra con un bastone per respingere la folla di ambulanti. Con l’altra mano, chiese la mancia.
Lefèvre gli diede una monetina e il giovane sputò.
– Soldo di città, – disse con disprezzo. – Soldo di città no vale, eccellenza –. Restò con la mano tesa.
Lefèvre ammiccò. – Piastres de Malta, – disse serafico.
– Oho! – Il greco sbirciò la moneta e il suo viso si illuminò. – Moo-lto bene –. Raddoppiò gli sforzi con gli ambulanti. – Questi qui ladri. Volete che trova portantina? Albergo? Molto pulito, eccellenza.
– No, grazie.
– Qui uomini cattivi. Voi è prima volta qui in città, eccellenza?
– No, – scosse la testa Lefèvre.
I venditori sul pontile ammutolirono. Alcuni girarono i tacchi. Era sopraggiunto un uomo con le babbucce verdi. Di corporatura media, aveva i capelli candidi come neve e gli occhi di un azzurro penetrante. Portava un paio di pantaloni ampi e una camicia aperta di cotone rosso sbiadito.
– Il dottor Lefèvre? Seguitemi, prego –. Voltandosi aggiunse: – Qualcuno si occuperà del baule.
Lefèvre fece spallucce. – À la prochaine.
– Adio, m’sieur, – rispose lentamente il marinaio.
Quello stesso mattino, nel quartiere Fener di Istanbul, Yashim si svegliò sotto un caldo spicchio di sole primaverile e si tirò su a sedere, lisciandosi i capelli con un gesto sonnolento. Dopo poco scostò la coperta del Khorasan e si alzò dal divano, calzando automaticamente un paio di pantofole di cuoio grigio. Si vestí alla svelta e scese dabbasso, varcò la piccola porta bizantina di casa della vedova e uscí nel vicolo. Poche traverse e arrivò nel suo caffè preferito sulla Kara Davut, dove il proprietario lo salutò con un cenno del capo e mettendo un tegamino di rame sul fuoco.
Yashim si accomodò sul divano che guardava verso la strada, sotto le finestre sporgenti. Rannicchiò i piedi sotto il caftano. Quel gesto lo rese, in un certo senso, invisibile.
Un po’ dipendeva dal suo abbigliamento all’antica. Da anni il sultano incoraggiava i sudditi a vestire all’occidentale, con risultati incerti. Molti avevano sostituito il turbante con il fez rosso scarlatto, e gli ampi caftani con i pantaloni e lo stambulino, un curioso soprabito nero abbottonato fino al mento, ma pochi indossavano gli stivali stringati all’europea. Alcuni suoi vicini di divano sembravano scarafaggi, a piedi nudi, tutti gomiti e ginocchi appuntiti. Con il mantello lungo, marrone rossastro, e la veste color zafferano, Yashim avrebbe potuto confondersi con le grinze sul tappeto che copriva il divano; solo il suo turbante era bianco come il latte.
Ma l’invisibilità era anche una qualità tipica dell’uomo Yashim, ammesso di poterlo definire tale. Trasmetteva un senso di calma: la serietà degli occhi grigi, la morbida scioltezza dei movimenti, i gesti disinvolti, sembravano sviare l’attenzione, anziché attirarla. La gente lo vedeva, ma non lo notava; ed era quella mancanza di contorni netti, quello strano rinunciare alla sfida o alla minaccia, che costituiva l’essenza del suo talento e lo rendeva unico, perfino nella Istanbul dell’Ottocento.
Yashim non sfidava gli uomini che incontrava, e nemmeno le donne. Col suo volto gentile, gli occhi grigi, i riccioli scuri appena sfiorati, a quarant’anni, dal passare del tempo, era un ascoltatore, un silenzioso interlocutore, e un uomo solo in parte. Yashim era un eunuco.
Prese il caffè appoggiato su un gomito, e mangiò il çörek, pulendosi i baffi dalle briciole.
Decise di non fumare la pipa con il caffè, lasciò una piastra d’argento sul vassoio poi si incamminò verso il Gran Bazar.
Mentre girava l’angolo si voltò, giusto in tempo per vedere il padrone del locale raccogliere e addentare la moneta. Yashim sospirò. I soldi falsi erano come un veleno in corpo, una sostanza tossica che Istanbul non riusciva a smaltire. Sollevò il borsellino e sentí il fruscio palpabile della sua fortuna: in quel periodo la moneta corrente si scioglieva in mano come zucchero. Ma lo zucchero era dolce. Il sultano stava morendo, e nell’aria c’era solo amarezza.
Nella via dei Librai, si fermò davanti alla bottega di Goulandris, che vendeva libri usati e oggetti rari, e a volte anche i romanzi francesi che spesso facevano cadere in tentazione Yashim.
Il vecchio libraio fissò l’avventore con l’occhio buono e digrignò i denti. Goulandris non era il classico greco sfacciato e prepotente. Lui pensava solo a guardare, non a parlare. Aveva un occhio offuscato dalla cataratta, ma l’altro funzionava per due e registrava i movimenti del cliente, la rapidità con cui sceglieva un determinato libro, la sua espressione mentre lo apriva e cominciava a leggerlo. Libri vecchi, nuovi, greci, turchi, qualche raro volume in armeno ed ebraico, e ogni tanto addirittura in francese. Dmitri Goulandris li accumulava senza un criterio preciso, alla rinfusa. I libri non erano la sua passione. Ma quando si trattava di fissarne il prezzo, era tutto un altro conto. E cosí, con l’occhio buono, scrutò i segni.
L’eunuco però era bravo. Molto bravo. Goulandris vide un bel pezzo d’uomo sulla quarantina, i capelli neri appena ingrigiti sotto il piccolo turbante, avvolto in un morbido mantello dal colore indefinito. Goulandris credeva di poter smascherare tutti i trucchi che i clienti usavano per depistarlo: l’ostentata indifferenza, l’acquisto improvviso, l’impulso calcolato in modo da risultare totalmente spontaneo. Studiava le loro parole, i loro gesti. Coglieva il lampo della pupilla. Solo quel maledetto eunuco restava un enigma.
– State cercando un libro?
Yashim drizzò la schiena e si voltò. Era stato molto lontano, a rivivere i tormenti dell’amore non corrisposto insieme al suo vecchio amico Benjamin Constant. Si ritrovò nella familiare botteguccia del Gran Bazar, tappezzata di volumi fino al soffitto, illuminata da una fioca lampada, dove Goulandris, il proprietario, con un lurido fez grigio, sedeva a gambe incrociate sullo sgabello dietro lo scrittoio in stile europeo. Yashim sorrise. Non aveva intenzione di acquistare quel libro: Adolfo. Lo richiuse lentamente e lo mise a posto sullo scaffale.
Sorrise e fece un inchino, con la mano sul petto. Amava quel posto, quel grottino pieno di libri: non sapevi mai cosa ci avresti trovato. Lo stesso Goulandris non ne aveva idea: probabile che sapesse solo leggere e scrivere in greco. Quel giorno, fra i manuali europei di balistica, i vecchi rotoli imperiali con la magnifica tugra di un sultano, gli impenetrabili trattati religiosi greci, Yashim aveva scovato una manciata di romanzi francesi, che tanto gli piacevano: per quanto bizzarro, era un piccolo tesoro. Che il mese prima non c’era. E forse non ci sarebbe stato il mese dopo.
Yashim tirò giú tre libri che lo interessavano. Esitò un pochino sul terzo – lo desiderava da morire, ovviamente – poi lo infilò sotto gli altri, piazzando la pila sullo scrittoio. Goulandris si succhiò le labbra. Non mercanteggiò, non fece discussioni. Fissò i prezzi. Yashim soffocò a stento la delusione quando per il terzo libro Goulandris stabilí con solennità una cifra un po’ troppo alta per le sue tasche. Restavano gli altri due: ne ripose uno, a malincuore. Frugò nel borsellino. Goulandris estrasse un quaderno dal cassetto dello scrittoio e annotò qualcosa.
Alla fine, salutato con un cenno il vecchio libraio, Yashim uscí stringendo sottobraccio il primo volume dell’Art de la cuisine française au XIX ème siècle di Carême.
Ai piedi della collina svoltò verso il mercato.
Vide il pescivendolo fissare gelidamente la bilancia mentre pesava una spigola a un’anziana matriarca. Due uomini questionavano per un mazzo di carote. I soldi falsi insinuavano sospetti ovunque, anche se di George c’era da fidarsi, pensò Yashim. Era il titolare della sua bancarella preferita e gli forniva sempre ottime idee per la cena. George grugniva e diceva che i soldi erano merda.
Guardò piú avanti. George non c’era.
– Lui non sta venendo qui mai piú, effendi, – spiegò un droghiere armeno. – Un incidente, ho sentito dire.
– Un incidente? – Yashim pensò al fruttivendolo, alle sue mani enormi.
Il droghiere girò la testa e sputò. – Ieri loro arriva e dice: George qui non viene mai piú. Uno dei fratelli Constantinedes prende suo posto, loro dice.
Yashim si accigliò. I fratelli Constantinedes sfoggiavano lo stesso paio di baffi sottili e volteggiavano dietro le loro cataste di verdura come ballerini. Ma lui era sempre rimasto fedele a George.
– Effendi! Che posso fare p...