Il desiderio di essere come tutti
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Il desiderio di essere come tutti

  1. 272 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
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Il desiderio di essere come tutti

Informazioni su questo libro

I funerali di Berlinguer e la scoperta del piacere di perdere, il rapimento Moro e il tradimento del padre, il coraggio intellettuale di Parise e il primo amore che muore il giorno di San Valentino, il discorso con cui Bertinotti cancellò il governo Prodi e la resa definitiva al gene della superficialità, la vita quotidiana durante i vent'anni di Berlusconi al potere, una frase di Craxi e un racconto di Carver...
Se è vero che ci mettiamo una vita intera a diventare noi stessi, quando guardiamo all'indietro la strada è ben segnalata, una scia di intuizioni, attimi, folgorazioni e sbagli: il filo dei nostri giorni.
Francesco Piccolo ha scritto un libro anomalo e portentoso, che è insieme il romanzo della sinistra italiana e un racconto di formazione individuale e collettiva: sarà impossibile non rispecchiarsi in queste pagine (per affinità o per opposizione), rileggendo parole e cose, rivelazioni e scacchi della nostra storia personale, e ricordando a ogni pagina che tutto ci riguarda. «Un'epoca - quella in cui si vive - non si respinge, si può soltanto accoglierla».

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Informazioni

Editore
EINAUDI
Anno
2013
Print ISBN
9788806194567
eBook ISBN
9788858412053
Prima parte

La vita pura: io e Berlinguer

Sono nato in un giorno di inizio estate del 1973, a nove anni.
Fino a quel momento la mia vita, e tutti i fatti che accadevano nel mondo, erano due entità separate, che non potevano incontrarsi in nessun modo. Me ne stavo nella mia casa, nel mio cortile, nella mia città; con i miei genitori, i miei fratelli, i compagni di scuola, i parenti e gli amici – e in un altro pianeta accadevano i fatti che guardavo in televisione. Ogni tanto i grandi ne parlavano, del mondo e dell’Italia in particolare; quindi c’era interesse verso quello che accadeva al di fuori della nostra vita. Ma noi tutti, in ogni caso, non c’entravamo niente. E io, ancora meno.
Era appena finita la scuola. Massimo, il mio compagno di banco, mi invitava il pomeriggio a giocare da lui. Era molto ricco, aveva una villa gigantesca a Briano. Aveva appena conosciuto un ragazzino del paese, basso, con tante lentiggini e pochi capelli; non sapeva stare fermo, parlava soltanto in dialetto, e ci sembrava che sapesse tutto di ogni cosa come se fosse un adulto dentro il corpo di un ragazzino. Noi stavamo zitti, lo ascoltavamo e poi facevamo quello che faceva lui. Disse che ci avrebbe portato in un posto segreto, se avevamo il coraggio. Noi dicemmo subito di sí, anche se avevamo paura. Ci vedemmo il giorno dopo, era tardi, ma il sole non calava mai, e il ragazzino con le lentiggini ci disse di seguirlo. Percorremmo un bosco, lui sapeva benissimo come muoversi, dove andare. L’aveva già fatto tante volte, disse. E disse anche che non avremmo dovuto parlarne con nessuno. Noi giurammo, senza fare domande.
Arrivammo davanti a un muro. Abbastanza alto, ma non troppo alto. Ancora un po’ diceva, e ci faceva strada. Camminavamo sfiorando il muro con la spalla. Poi arrivammo in un punto e lui disse: qui. Mise il piede in un piccolo buco che sapeva, si spinse in alto, si aggrappò al bordo e si tirò su. Fate come me, disse. E saltò dall’altra parte, sparendo. Massimo fece esattamente lo stesso.
Toccava a me, adesso. Di là, Massimo diceva: dài, salta. Di qua, avevo paura di non farcela. Mi aggrappai al muro, misi il piede cercando di trovare un punto che potesse reggermi, mi tirai su con forza, e con molta piú fatica di quanto avessi visto fare agli altri due, schiacciando tutto il torace contro il bordo, mi issai sul muro. E saltai giú. Non c’era piú nessuno ad aspettarmi. Ero sempre in mezzo agli alberi, ma dall’altra parte del muro, e la luce arrivava forte: gli alberi, mi resi conto, erano pochi. Subito oltre vidi i due, fermi, che si guardavano intorno.
Allora venni fuori alla luce anche io.
Certo, lo avevo capito subito che quel muro era il muro della Reggia. Tutti lo sapevamo, a Caserta, che cominciava dal centro della città e saliva sulle colline. Ma non avevo mai calcolato il perimetro dell’interno con le misure dall’esterno. Cioè, quando il ragazzo aveva detto: qui – non potevo rendermi conto di dove ci trovavamo.
Quindi, restai senza fiato.
Eravamo in cima, appena sotto la cascata, il punto che chiunque desiderava raggiungere quando entrava nella Reggia. Avanzai lentamente, con una mano che sfiorava l’acqua oltre il bordo della grande fontana, attirato dalla statua di una donna seminuda, coperta da un panno svolazzante, poggiato sulle parti che non bisognava vedere. Intorno a lei c’erano varie altre donne piuttosto disperate, anche loro seminude. Dalla parte opposta c’era un cervo attorniato dai cani, che sembravano malintenzionati. Del cervo mi importava poco, della donna molto di piú.
La cosa davvero incredibile, però, è che non si vedeva nessun altro. La Reggia aveva chiuso, erano andati tutti via, e il ragazzino con le lentiggini addirittura sosteneva che in questo momento, qui dentro, in tutto il parco, i boschi, il giardino inglese e gli appartamenti, c’eravamo solo noi tre. Ma a lui questa cosa non sembrava eccezionale, la diceva soltanto per rassicurarci riguardo al frigorifero.
Il sole era tramontato da un po’, la sera scendeva molto lenta ed era ancora giorno, quel giorno appena luminoso, bellissimo. Massimo e il ragazzo con le lentiggini erano andati dritti dove quello ci aveva portati: in un angolo c’era un frigorifero enorme, con una catena e un lucchetto che il nostro amico aveva imparato ad aprire con facilità. E dentro c’erano cornetti algida, coca cola, aranciate, acqua – qualsiasi cosa.
C’era quel frigorifero, era questo il segreto che non dovevamo rivelare. E c’era la Reggia completamente vuota, ma non eravamo venuti per la Reggia. Se gli altri due stavano zitti – quando stavano zitti, in una pausa dall’eccitazione – si percepiva con chiarezza il rumore lento, lieve, dell’acqua della cascata, che era una cascata morbida. Un rumore che non avevo mai sentito cosí nitido. Le statue della donna e delle amiche, del cervo e dei cani, erano lí, piú ferme e piú mute, sole. Tutte le volte che ero stato quassú – tante, soprattutto la domenica, o quando veniva qualche parente o un amico da fuori, eravamo arrivati fino a qui, che era il termine delle visite, il punto piú alto (sulle rocce della cascata non si poteva salire), il luogo piú bello della Reggia – c’era sempre una quantità di gente che si accalcava sul bordo della vasca, indicava il cervo e raccontava che era stato trasformato in cervo, e perché la donna si copriva pudica. C’erano bambini che mettevano le mani nell’acqua (l’avevo fatto anche io adesso), le carrozze con i cavalli, il bus che arrivava e scaricava altri visitatori poi ripartiva.
Invece adesso, qui, nella Reggia, non c’era davvero nessun altro.
Mi posizionai con una bottiglia di coca cola fredda al centro dello spiazzo, seduto sul bordo della fontana, e diedi le spalle alla donna e al cervo. Massimo e l’altro facevano casini con frigorifero e gelati, sparivano tra gli alberi; erano eccitati, tornavano, correvano e infilavano di nuovo la testa nel frigorifero. E poi dopo aver preso quanta piú roba potevano, dissero: andiamo. E io dissi sí. Con la coda dell’occhio aspettai che saltassero dall’altra parte, mentre Massimo diceva: vieni, dài.
Non è che non avessi paura, avevo paura eccome di restare da solo, anche soltanto per un attimo. Ma la verità è che desideravo farlo, e lo desideravo tanto che pensavo meno alla paura: restare qui da solo, nella Reggia, forse da solo in tutta la Reggia, anche soltanto per trenta secondi. Non avevo nessuna idea del perché volessi farlo, ma sentivo con precisione che lo desideravo.
Loro scavalcarono, non immaginavano che non li stessi seguendo, perciò non protestarono, forse cominciarono ad andare. E io rimasi qui, spalle alla fontana e di fronte a me la lunghissima distesa del parco, di tutte le vasche, la Reggia in fondo e gli alberi che delimitavano i boschi sui lati.
Mi sembrò, in quell’attimo, in un silenzio mai piú sentito – un silenzio fatto di acqua della cascata – di stare dentro qualcosa di gigantesco, che non poteva essere stato concepito soltanto per farci prendere i gelati dal frigorifero, non poteva essere stato concepito solo per noi che vivevamo qui in questo momento. Abitavo in un palazzo, laggiú sulla sinistra, vicino alle mura opposte, e ogni volta che mi affacciavo vedevo un lato della Reggia. E non me ne importava piú di tanto. Ci ero nato, era la mia vita, era capitato cosí, non era né un merito né una colpa, questa cosa enorme stava accanto a casa mia da quando esistevo, ci andavo la domenica come la gente di ogni città cerca il parco piú vicino per stare un po’ all’aria.
E però, per quei secondi, mi sembrò che tutto questo arrivasse da lontano, avesse una storia; e soprattutto che non riguardasse solo noi, la mia famiglia, Massimo e quell’altro, il frigorifero che avevamo scassinato, la mia città e quelli che conoscevo. Ebbi la sensazione di non stare piú dentro questa cosa enorme e consueta che stava di fronte casa mia, ma dentro qualcos’altro, meno riconoscibile nella mia quotidianità, piú riconoscibile in assoluto. In pratica, per un attimo entrò nella mia testa un’intuizione che coincideva con quella solitudine e allo stesso tempo la negava: proprio mentre ero solo al mondo, mi stavo accorgendo che non ero solo al mondo. Mi sembrò, per un attimo allucinatorio, che tutti i viali e i parchi fossero completamente occupati da centinaia di migliaia di persone, milioni, che avanzavano dagli appartamenti verso la cascata, ed erano tutti gli esseri umani che avevano messo piede nella Reggia da quando era stata edificata fino a questo pomeriggio. E c’ero anch’io, tra loro.
Questa sensazione di far parte del mondo, per qualche secondo, mi diede euforia e mi spaventò, proprio come ero euforico e spaventato di essere rimasto qui dentro. Ma non riuscii a cogliere l’essenza di quello che mi stava succedendo: anzi, credo di averlo compreso – meglio: intuito – per un istante, che subito svaní. Mi sembrò che la luce si fosse abbassata troppo; allora mi alzai di scatto, come per scappare, saltai il muro, con fatica ma con energia, perché volevo tornare di là, da Massimo e quel ragazzino, ma soprattutto volevo tornare dentro la mia vita, quella che conoscevo e che non mi faceva paura – non mi dava tutta quella euforia, ma nemmeno mi spaventava.
E infatti, il tempo di ricascare di là, e la sensazione di far parte del mondo l’avevo già perduta, mi sembrò una cosa passeggera e insignificante. Misi i piedi nella vita che stavo vivendo fino a quel momento, e tutti quei pensieri svanirono. Anche perché dovevo correre e raggiungere gli altri: già non si vedeva piú nulla.
Un paio di mesi dopo, una mattina, eravamo a Baia Domizia, come sempre. Agosto era quasi finito, e stava per cominciare il periodo dell’anno che odiavo di piú: tutti gli altri sarebbero tornati in città, noi invece saremmo rimasti al mare ancora per qualche settimana di settembre. Stavo giocando con mio cugino Gianluca sulla sabbia. Mia madre e le zie, quando stavano insieme, parlavano sempre in modo agitato, tanto da dare l’impressione che fossero preoccupate di qualsiasi cosa; ma stavolta erano piú spaventate del solito – indicavano quello che era scritto su un giornale, e dicevano: e adesso cosa facciamo.
Ecco, è stato questo che mi è sembrato subito diverso. Mettevano in relazione diretta quello che era scritto sul giornale e quello che dovevano fare. Non era mai successo. Per questo io e Gianluca abbiamo smesso di giocare, senza dirci nulla. Siamo rimasti immobili ad ascoltare. Di solito, quando accadeva, accadeva a uno solo e l’altro si arrabbiava, scuoteva il braccio. Adesso no. Eravamo in ginocchio, immobili, tutt’e due. Mia zia si è accorta di noi e ha detto: avete capito? Bisogna stare attenti, è pericoloso. Poi hanno detto che le cozze non le avrebbero mangiate piú e che però le avevano mangiate qualche giorno fa, hanno fatto i calcoli. Hanno detto: si muore. E hanno ripetuto piú volte, con disinvoltura, una parola che le inorridiva, ma questo non impediva di pronunciarla di continuo.
Colera, hanno detto.
Era scritta sul giornale quella parola, con caratteri molto grandi. Avete capito?, hanno continuato a chiedere.
Noi abbiamo capito che quello che era scritto sul giornale, coinvolgeva direttamente anche noi sulla spiaggia. Quando il giornale diceva cosa non bisognava mangiare, a cosa bisognava stare attenti, eravamo noi quelli che dovevamo stare attenti o non dovevamo mangiare.
Quella mattina ho capito definitivamente che ero nato. E qualche giorno dopo ho provato subito, per la prima volta, la sensazione di morire.
Non ci fecero fare piú il bagno, come se il mare intero portasse addosso il colera delle cozze. Tanto valeva tornare a casa. Non ero dispiaciuto, per niente; era già qualche anno che piangevo e mi disperavo: tutti tornano, anche i miei amici nel cortile, e voi mi lasciate qui. I miei genitori mi spiegavano con calma che era una cosa bella, mi faceva bene, tutti gli altri avrebbero voluto avere la fortuna che avevo io. Però intanto quelli sfortunati stavano tutti insieme a Caserta, si ritrovavano e si divertivano in quei giorni meravigliosi tra la fine delle vacanze e l’inizio della scuola; invece io e i miei fratelli, fortunati, restavamo da soli a Baia Domizia, con la tata, perché anche i miei genitori dovevano tornare a lavorare, anche loro erano sfortunati. E anche io volevo essere sfortunato – per questo piangevo e mi disperavo.
Quell’anno, grazie al colera, fummo sfortunati, e ce ne tornammo a Caserta prima della fine di agosto.
Vibrione. Questa era la parola. Finora non esisteva, avrei potuto attraversare tutta la vita senza sentirla mai pronunciare. Il vibrione del colera. Un germe patogeno. Violentissimo. Si impianta nell’intestino tenue e distrugge tutto l’epitelio. Ma non me lo spiegavano cosí. La parola vibrione veniva pronunciata da chiunque, però nella sostanza quello che avevo capito, o che mi avevano detto, è che il colera ti accorgevi di averlo perché a un certo punto ti veniva un dolore lancinante alla pancia, proprio fortissimo, e poi andavi in bagno e veniva fuori della roba bianca. Proprio cosí: bianca. E questa diarrea bianca cominciavi a espellerla e non smettevi piú, anche dieci o quindici volte al giorno. Fino a quando avresti cacciato fuori solo acqua, senza poterla trattenere. E poi, alla fine, morivi perché non avevi piú acqua dentro il corpo. Disidratato, dicevano.
Alla televisione ne parlavano di continuo, i casi sospetti aumentavano, lo spavento dentro e fuori casa era sempre piú incontrollato. Non ci occupavamo d’altro; tutto il resto dell’esistenza era sospesa, non contava piú nulla, lavorare o non lavorare, comprare il latte, uscire a fare una passeggiata. Era come se tutti dicessero: aspettiamo un attimo; come se dovesse passare un treno, o finire un rumore; e soltanto dopo ci avrebbero chiesto: allora, che stavi dicendo?
Un’altra parola che cominciai a sentire spesso era Cotugno. Al telegiornale si vedeva sempre questo palazzone, il Cotugno, dietro gli inviati che parlavano, e la folla che accerchiava l’ospedale: andavano lí in tanti. Si vedeva qualche medico in camice bianco che usciva e parlava al megafono, per calmare i parenti dei ricoverati. Nessuno poteva entrare, e i medici erano consegnati: non potevano uscire. Il Cotugno era un luogo inaccessibile, misterioso. Restavamo tutti fuori, dai parenti a noi che guardavamo la tv. E quindi l’immaginazione su cosa ci fosse lí dentro cresceva, e diventava ogni giorno piú mostruosa.
Se dicevano vibrione, pensavo che poteva essere già dentro di me. Se dicevano Cotugno, lo guardavo al telegiornale pensando che prima o poi ci sarei andato anche io. Dentro, però. Questo era cambiato, rispetto a tutte le cose che erano successe fino a ora.
C’entravo.
L’acqua del rubinetto, dicevano, non si poteva bere piú. Le verdure crude non si potevano mangiare piú. Avevamo smesso di mangiare qualsiasi tipo di pesce, non solo i frutti di mare. Si usava l’acqua minerale per fare la pasta e il caffè.
Tutt’intorno si sentiva questo odore aspro di limone. Una cosa simile, la sento ancora nelle cucine pulite dopo pranzo. Ma qui era piú acre, perché si confondeva con la pelle, ed era come se si inasprisse. Molti però preferivano morire di colera piuttosto che strofinarsi addosso un limone e poi andare in giro con quell’odore. Anche io facevo cosí: già non mi piaceva lavarmi, poi lavarmi addirittura con il limone. Ti viene il colera, mi dicevano. Mi viene il colera, rispondevo.
Ero sfacciato, sicuro. Ma dentro di me, morivo di paura. Questa diarrea bianca mi terrorizzava, ci terrorizzava. Credo capitasse anche agli altri, non ho mai avuto il coraggio di chiederlo, ma andare in bagno era diverso da prima: mi sedevo, con il fiato trattenuto. Mi sforzavo poco, e stavo con la testa china tra le gambe a controllare. E ogni volta, tutto era a posto: non era bianca, non era liquida. Non avevo il colera. Per ora.
Poi arrivò quel pomeriggio al cinema. Ero contento, andavo con qualcuno, di sicuro non era mio padre – andavo sempre al cinema con mio padre, da anni, il pomeriggio, a vedere i western. Appunto per questo sono sicuro non fosse lui, perché sarebbe stato tutto diverso. Ma ormai non riesco piú a ricordare con chi. Era qualcun altro, forse piú di una persona: forse mio cugino Gianluca con mia zia, forse lui e basta, forse gli amici del cortile. Non lo so piú. In verità, ogni volta che ripenso a quel pomeriggio, la testa viene subito occupata da un ricordo sbagliato – forse perché anche quell’altra volta non ero stato bene: ero con una ragazza, e vedevamo L’ultimo metrò. Ovviamente non è possibile, perché non sarei mai andato a nove anni a vedere L’ultimo metrò di Truffaut, e per giunta da solo con una ragazza. E poi L’ultimo metrò è del 1980. Ma devo essere stato male anche quella volta, e anche quella volta è stato al cinema San Marco, prima fila in galleria, in modo da poggiare le gambe sulla balaustra. Era il posto migliore. Questa è l’unica cosa che accomuna i due momenti, oltre al fatto che sono stato male. Ricordo che guardavo L’ultimo metrò ed ero felice, e poi a un certo punto si è complicato tutto e ho cominciato a pensare solo: speriamo che finisca. E a quel punto non finiva piú.
E qui le somiglianze con quel film dei primi giorni di settembre del 1973, sono subito terminate. Perché di quel film non ricordo nulla, se non di aver sperato, al contrario, che non finisse mai piú. Di questo sono sicuro. Ricordo anche, in modo vago, la sensazione di euforia con i soldi in mano davanti alla biglietteria: perché era il primo film al ritorno dalle vacanze, e forse anche perché andavo al cinema senza i miei genitori, e mi sentivo grande. Ma è inutile, non riesco proprio a ricordare con chi fossi.
Era buio. Ero seduto, le gambe allungate sulla balaustra, e a un certo punto ho sentito una fitta alla pancia. Netta, violenta, breve. Mi sono detto: che sta succedendo. E per me quel film è finito subito; cancellato. Ho guardato gli altri accanto a me, erano tranquilli, guardavano lo schermo. Ho cancellato anche loro con quell’ultimo sguardo, è evidente.
Mi sono detto: sto esagerando, in fondo è una fitta, una sola, e la sento piú forte perché ho paura. Ma poi la fitta è tornata subito, e poi un’altra, e infine ha smesso di essere una fitta violenta e breve. È tornata, ed è rimasta. Avevo mal di pancia forte, tentavo di dirmi che era solo un mal di pancia forte, ma in realtà era fortissimo, aumentava, diventava ...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Il desiderio di essere come tutti
  4. Prima parte – La vita pura: io e Berlinguer
  5. Seconda parte – La vita impura: io e Berlusconi
  6. Fonti delle citazioni
  7. Dello stesso autore
  8. Il libro
  9. L’autore
  10. Copyright