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I dodici abati di Challant
Il miracolo di santa Odilia. Gli occhi dell'imperatore
- 384 pagine
- Italian
- ePUB (disponibile sull'app)
- Disponibile su iOS e Android
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Informazioni su questo libro
Sospesi tra storia e invenzione in un Medioevo che sembra vero, sono qui raccolti in un unico volume tre romanzi di Laura Mancinelli, in cui l'autrice approda a una visione fantastica e ironica della tradizione e della società medievale. I dodici abati di Challant, dove, in una cornice di ironia mondana e gaudente, dodici monaci ricevono l'incarico di sorvegliare un feudatario che eredita un castello con la clausola di mantener fede a un maligno obbligo di castità. Il miracolo di santa Odilia, immagine della vita che si afferma in chiave religiosa, ma non trascendente, attraverso la storia di due Odilie: la prima devota e pia, la seconda giovane e bella. E infine, conclusione ideale di questa metafora, Gli occhi dell'imperatore, dove una contessa piemontese, un cavaliere-musico-poeta e l'imperatore Federico II, ormai prossimo alla morte, partecipano a un affascinante percorso di avventure e sentimenti, che è anche un intreccio di entusiasmo, rassegnazione e senso del destino.
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Informazioni
Il miracolo di Santa Odilia
I.
Il convento senza campanile
Ci fu un tempo in cui quasi tutte le colline del Monferrato si fregiavano di un campanile o di una torre, segno del potere che vi dominava, religioso o temporale, piú spesso l’uno e l’altro fusi insieme. Dove quel coronamento verticale mancava, pareva che vigneti e boschi e coltivi sottostanti fossero privi di protezione, orfani del blasone che derivava da una autorità riconosciuta da tutti e rispettata.
Per questo il piccolo convento di monache aggrappato al pendio di una collinetta ai margini del Monferrato, privo del riparo di un bel campanile quadrangolare, sembrava ancora piú piccolo, piú modesto e fragile. Chi non ne conosceva l’esistenza non lo avrebbe mai trovato, circondato com’era da un anfiteatro di colline tutte di uguale altezza, quasi sepolto tra alberi da frutto e boschi di querce. Quel convento non aveva né chiesa né nome, perché una chiesa si costruisce sulle reliquie di un santo, o di una santa, da cui viene pure il nome al convento.
Ma in quel convento di monache non c’era stata nessuna santa.
È pur vero che era di recente fondazione: l’avevano fondato i conti di Agliano, potenti signori tra i signori del Monferrato, desiderosi di accrescere il loro prestigio con un’opera di pietà. Avevano destinato alla fondazione del convento la dote della contessa Odilia, una giovane della casata, sottraendola cosí ai pericoli e all’eccessivo dispendio della vita mondana, nonché all’eredità delle vastissime lor terre. E l’avevano fatto assecondando una pia inclinazione della giovane Odilia e un suo scarso successo nell’ambiente di corte, con la segreta speranza di avere una santa in famiglia, la qual cosa li avrebbe compensati del non aver mai avuto né un re né un principe, e neppure un vescovo.
Non erano molti i santi in quelle terre, vuoi per influsso del clima, o della natural disposizione della gente, o della conformazione dei luoghi, privi di quelle impervie altezze che predispongono ai mistici pensieri, luoghi atteggiati in un continuo ondular di colli, dolci e modesti, terreni caldi e ricchi di sapidissime linfe pronte a riversarsi nei frutti della terra. Un regno di Pan piú che del Paracleto.
Per questo con tanto maggior desiderio i conti di Agliano volevano una santa nella lor famiglia, qualcosa che nessuno dei potenti vicini aveva, neppure i superbi signori di Cortazzone, loro rivali da sempre, e irriducibili. «Quando su quella collina si leverà il campanile della chiesa di Santa Odilia» pensavano con fiduciosa lungimiranza, «costruita sulle reliquie della nostra santa, piú nessuno potrà reggere con noi il confronto», e volgevano lo sguardo in direzione della possente rocca di Cortazzone.
Ma la contessa Odilia, nominata fin dalla fondazione badessa del convento, non si sa perché, non divenne santa. Né in vita, né in morte, non si verificò attorno a lei nessuno di quegli avvenimenti prodigiosi che l’autorità ecclesiastica ritiene segno inequivocabile di santità.
II.
Le due Odilie
La badessa Odilia era stata, sí, monacata per volontà della famiglia, ma in fondo non ne era stata scontenta. Sapeva benissimo che tra le mura del convento la attendeva una vita piú tranquilla, meno faticosa e meno pericolosa che nel mondo. Sapeva che se fosse andata sposa a qualche signore dei dintorni, avrebbe corso il rischio di essere ripudiata con un pretesto qualsiasi, e aveva la certezza di dover sopportare una gravidanza all’anno, mentre i giochi d’amore il suo signore e marito li avrebbe fatti con qualche altra donna.
Per il resto, governare una casa o un monastero, era la stessa cosa: anzi, nel monastero sarebbe stata padrona assoluta, e non avrebbe dovuto mostrare i conti a nessuno; tranne al vescovo, una volta all’anno.
Per questo la contessa Odilia non aveva accettato malvolentieri che la sua dote servisse a fondare un convento anziché una famiglia. Inoltre aveva cosí anche la speranza di diventare santa, oltre alla certezza di andare in paradiso, e, tutto sommato, abbastanza comodamente.
Come badessa fu esemplare. Attenta, attiva come una brava padrona di casa, amministrò con parsimonia il suo piccolo convento, con un piccolo orto, stalla, ovile, e un bosco di querce. Compí puntualmente tutti i suoi doveri, comprese le pratiche di culto, delle quali si può dire che non dimenticò mai nessuna; si tenne lontana dagli uomini, che d’altra parte si tenevano lontani da lei perché non avevano nessun motivo di avvicinarlesi, e condusse, come si suol dire, una santa vita. Negli ultimi anni fu incline alla malinconia, e questa, forse, fu una delle cause della sua morte precoce.
Quando morí, infatti, ancora abbastanza giovane, non aveva nulla da rimproverarsi. Tanto che al confessore, chiamato al suo capezzale, non trovò niente da confessare.
Perché non fosse santa, era difficile dirlo. Il paradiso doveva esserselo conquistato di sicuro. Ma miracoli, niente. Eppure non correvano su di lei né dicerie né maldicenze, di quelle che raramente risparmiano una badessa: soprattutto nessuna voce che intaccasse la sua castità, per la quale anzi era portata ad esempio dal vescovo Zenone della diocesi di Asti.
Ma non si poteva neppure pensare ad un processo di beatificazione, perché intorno a lei non erano mai germogliati eventi miracolosi. Né in vita, né in morte.
La badessa Odilia negli ultimi tempi della sua vita, preoccupata di questa sterilità miracolifica, si era sottoposta a digiuni e penitenze supplementari, mortificando anche l’innocentissimo appetito di quegli erbaggi che l’orto forniva, o di quei semplici cibi che venivan dalla stalla, vuoi cacio fermentato con cipollette novelle, vuoi cagliata aromatizzata con spezie leggere, come soglion spesso fare le monache per la lor cena. Era giunta al punto di interdirsi anche i piú semplici piaceri, come aspirare il profumo delle rose o del caprifoglio, l’indugiare con gli occhi sui vividi colori d’una bella mela o, somma rinuncia, a negarsi la coppa di vino caldo che aveva l’abitudine di prendere prima di coricarsi. E andava a letto piena di tristezza, senza concedersi neppure in sogno quei piaceri che si era negata nella realtà.
Eppure, miracoli, niente. Né da viva né da morta. Neppure un miracolo piccolo piccolo, come sarebbe per esempio, parlare con gli storni che schiamazzavano sui meli dell’orto al tramonto, o con le tortore che le monache allevavano per quel loro brodo leggero e quella carne un poco insipida che non suscitava pensieri molesti. Veramente bisogna dire che la badessa Odilia non ci si era neppure provata. A parlare con gli uccelli, si intende.
Quanto alla sua morte, prematura, non se ne conosceva la causa. Ma ciò non sorprende, per quei tempi. Si diceva in giro che fosse morta di tristezza, in parte anche per le privazioni cui si era sottoposta e che avevano allontanato da lei quel poco di gaiezza che altrimenti avrebbe avuta. Triste e senza santità.
Nella direzione del convento le era succeduta una nipote, figlia di un fratello, scelta tra le fanciulle della famiglia perché si chiamava, suo malgrado, Odilia, come la defunta badessa. E la fanciulla, che pur si era compiaciuta del nome che la accomunava alla importante signora del convento, un giorno, quasi a sua insaputa, fu fatta monaca.
Su di lei si riversavano tutte le speranze della famiglia: che quella santità, che era stata negata alla prima Odilia, fosse concessa alla seconda. Che era molto piú bella della prima, e questo era già un punto a suo favore: le sante di solito sono belle. E amabile. Altro punto a suo favore. Infatti a che cosa rinuncerebbe chi non sa amare né farsi amare? C’erano quindi tutte le premesse perché diventasse santa. Cosí almeno pensavano i suoi parenti che l’avevano monacata. E guardavano con arroganza verso l’arrogante castello dei vicini signori di Cortazzone, che di sante in famiglia non ne avevano mai avute.
C’era però chi andava dicendo che la giovane Odilia era troppo bella, e troppo amabile. E che il velo le sarebbe pesato piú di una corazza.
Tutte chiacchiere, naturalmente. La giovane Odilia si sottopose docilmente, anche se un po’ sconcertata, al rito della monacazione e al suo noviziato. Si sottopose docilmente anche perché, avendo solo sedici anni ed essendo priva di ogni esperienza del mondo, non avrebbe proprio saputo che cosa fare per opporsi. D’altra parte la sua vita, almeno in principio, non cambiò molto. Le sue compagne di studio e di giochi, che come lei già prima venivano educate in convento, continuarono a giocare con lei a mosca cieca, a cantare con lei i salmi, a studiare con lei il latino di Marziano Capella. Nulla, in fondo, sembrava cambiato.
III.
La partenza dei crociati
Erano stati radunati dal marchese del Monferrato perché partecipassero con lui, guerrieri e compagni, alla crociata in Terra Santa: tutti giovani cavalieri dei castelli vicini, vestiti a festa, con le bardature bordate di bronzo e d’argento, i colori del casato tessuti sulle gualdrappe, le insegne ricamate sulle sopravvesti, stendardi di seta svolazzanti al sole di maggio. Si radunavano nel cuore delle colline del Monferrato per raggiungere Genova, dove le navi avrebbero salpato per la Terra Santa.
Tutti i signori dei dintorni erano venuti al luogo del raduno a salutare i partenti, benedire i figli, fratelli, sposi. Ogni famiglia nobile aveva fatto rizzare un palco, dove le donne sedevano agghindate colle vesti e i monili piú belli, con cestini di fiori al braccio per gettarli ai cavalieri piú amati.
Era una festa di signori e per signori, tutto vi era bello, pulito ed elegante. I contadini, quelli dalle mani sporche e le brache rattoppate, non c’erano, non esistevano. Il cielo, con il suo azzurro intatto, completava il quadro di quel mondo perfetto.
Solo chi avesse fatto attenzione alle fronde delle querce che circondavano i palchi, si sarebbe accorto che si muovevano troppo vivacemente per essere mosse dalla brezza sottile che circolava nell’aria. Ma la musica e l’eccitazione impedivano ai signori di accorgersene. Se vi avessero posto attenzione, avrebbero potuto veder brillare tra le foglie tanti occhi, visi di bambini che fin dal primo mattino si erano arrampicati lassú, loro, i figli dei contadini, per vedere la festa dei signori. Ma nessuno li scorse.
Tranne lei, la fanciulla Odilia, alla cui sorridente curiosità nulla sfuggiva.
Anche a lei era stato dato un cestino, e con le sue stesse mani lo aveva riempito di fiori cogliendoli nel giardino del convento: viole e pervinche, tutti fiori azzurri. Se ne era fatta pure una ghirlanda, e quando i cavalieri sfilarono lungo i palchi, se la mise in testa, sul suo velo bianco di novizia. Allora si accorse che lei sola, tra tutte le fanciulle, era vestita di nero.
– Madre, perché non ho messo anch’io il vestito di broccato? – Sua madre la guardò stupita, e stava per rispondere qualcosa, ma ne fu impedita da grandi urla di «evviva». Era cominciata la sfilata dei cavalieri.
Lentamente, frenando con le briglie i vivaci destrieri, i giovani facevano il giro dei palchi, in fila, solennemente, inchinandosi ad ogni palco. Le dame talvolta donavano un oggetto gettandolo al cavaliere o infilandolo sulla punta dell’asta. E i cavalieri sostavano piú a lungo dove attendevano un pegno, un gesto d’amore.
Un bel cavaliere si era fermato sotto il palco dei signori di Cortazzone, e una giovane dama si strappò una manica dell’abito di broccato, la baciò e la gettò piangendo al cavaliere.
– Madre, – disse Odilia tutta eccitata, – posso farlo anch’io?
– Che cosa?
– Strapparmi una manica per donarla a un cavaliere.
– Ma Odilia! – sussurrò la madre piano, perché i vicini non udissero, – tu sei monaca!
Fu allora che Odilia capí perché era vestita di nero, e perché non poteva regalare una manica del suo abito a un cavaliere. Improvvisamente i suoi occhi castani si riempirono di lacrime, silenziose.
Forse fu il luccichio di quelle lacrime ad attirare l’attenzione di un cavaliere biondo, tutto vestito di azzurro. Si fermò sotto il palco in attesa.
Quando le lacrime permisero a Odilia di scorgere qualcosa, vide due occhi azzurri che la fissavano dal basso, occhi ridenti che parevano chiedere qualcosa. Si asciugò le lacrime con la manica del suo abito nero e si specchiò in quell’azzurro, degli occhi, dell’abito, della gualdrappa.
Il cavaliere attendeva.
Allora Odilia si tolse lentamente la ghirlanda di viole e pervinche e la infilò sull’asta che lui porgeva.
Non so quanti notarono quel gesto, forse tutti. La madre certamente. Sospirò e non disse nulla. «Probabilmente morirà in battaglia, – pensò, – e se non morrà, si dimenticherà di questa piccola monaca lontana».
Ma Odilia non lo dimenticò.
IV.
La nuova badessa
Prima di formulare i voti solenni, che l’avrebbero fatta monaca per sempre, Odilia passò un’estate nel castello dei suoi genitori, e tornò a dormire nella sua stanza di fanciulla.
Nulla vi era mutato, e risvegliandosi al mattino aveva per un attimo l’illusione che anche per lei nulla fosse mutato. Ma appena la coscienza si ridestava, sentiva stringersi il cuore in un cerchio di ferro. Avevano messo nella sua stanza, forse perché si familiarizzasse con l’abito monacale, un ritratto della zia badessa, solenne, vestita di nero. Odilia, guardandola, si chiedeva se, oltre a divenire monaca, era anche necessario che divenisse come lei.
Non lo avrebbe mai voluto, né avrebbe voluto vivere quella vita priva di gioia, di emozioni, cosí diversa dalla vita dell’altra gente. Anche le sofferenze le parevano desiderabili, piuttosto di quel niente, di quel silenzio del cuore che leggeva negli occhi della badessa.
In piedi, davanti al ritratto, confrontando in esso la sua immagine futura, decise che non sarebbe mai stata simile a lei.
Poi rientrò in convento, e divenne monaca.
Le stagioni trascorrevano lente, là, nelle colline del Monferrato. La primavera cedeva all’estate, l’estate all’autunno, poi l’inverno con le sue lunghe nevi, i camini accesi nei castelli e nel convento, gli orti spogli, i giardini senza fiori.
La monaca Odilia guardava spesso dalla finestra della sua cella, attenta a ogni muoversi, mutare, fremere, al primo spezzarsi del ghiaccio, al vibrare dell’aria nel vento di primavera, all’inturgidirsi dei rami sotto la spinta delle gemme.
Infine veniva la primavera, e la monaca Odilia raccoglieva viole e pervinche e ne riempiva la sua cella. Poi sopraggiungeva l’estate, poi l’autunno e l’inverno nell’eterno succedersi delle stagioni. Gli anni non si contano quando non accade nulla. E tra quelle colline non accadeva nulla. Le notizie dal mondo giungevano al convento ovattate, come cose di altro pianeta, altra gente. Anche le guerre esistevano solo quando se ne vedevano le vittime o se ne sentivano i lamenti.
A diciotto anni Odilia era diventata badessa, e tutte le monache le avevano giurato obbedienza.
Fu una brava badessa, solerte e attenta nel governo del suo piccolo fe...
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- Copertina
- I dodici abati di Challant. Il miracolo di santa Odilia. Gli occhi dell'imperatore
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