
eBook - ePub
Memorie del sottosuolo (Einaudi)
Nota introduttiva di Leone Ginzburg
- 160 pagine
- Italian
- ePUB (disponibile sull'app)
- Disponibile su iOS e Android
eBook - ePub
Memorie del sottosuolo (Einaudi)
Nota introduttiva di Leone Ginzburg
Informazioni su questo libro
Memorie del sottosuolo (1864) è il libro che annuncia i capolavori della maturità ( Delitto e castigo uscirà appena due anni dopo). Già inconfondibilmente dostoevskiana è la voce che procede allo scandaglio dell'animo umano senza risparmiarsi nulla e senza indietreggiare davanti alle verità piú amare. Con i suoi tratti ampiamenti autobiografici, il protagonista delle memorie è un uomo timido, senza risorse e protezioni, che la brutalità della vita sociale respinge nel sottosuolo, e a cui non resta che cercare uno sfogo provvisorio tormentando chi sta ancora piú in basso di lui: Liza, misera prostituta alle prime armi, incontrata in una sera di neve bagnata.
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Informazioni
Print ISBN
9788806177096eBook ISBN
9788858411315Memorie del sottosuolo
Il sottosuolo
I.
Sono un uomo malato... Sono un uomo maligno. Non sono un uomo attraente. Credo che mi faccia male il fegato. Del resto, non me n’intendo un’acca della mia malattia e non so con certezza che cosa mi faccia male. Non mi curo e non mi sono curato mai, sebbene la medicina e i dottori li rispetti. Inoltre, sono anche superstizioso all’estremo; be’, almeno abbastanza da rispettare la medicina. (Sono sufficientemente istruito per non essere superstizioso, ma sono superstizioso). Nossignori, non mi voglio curare per malignità. Voi altri questo, di sicuro, non lo vorrete capire. Ebbene, io lo capisco. S’intende che non saprei spiegarvi a chi precisamente io faccia dispetto in questo caso con la mia malignità; so benissimo che anche ai dottori non posso in nessuna maniera «fargliela» col non curarmi da loro; so meglio d’ogni altro che con tutto questo danneggio unicamente e solo me stesso e nessun altro. Ma tuttavia, se non mi curo, è per malignità! Se mi fa male il fegato, ebbene, mi faccia pure ancora piú male!
Già da un pezzo vivo cosí: da una ventina d’anni. Ora ne ho quaranta. Prima ero impiegato, ma ora non lo sono piú. Ero un impiegato maligno. Ero villano e ci provavo piacere. Perché sbruffi non ne pigliavo, di conseguenza dovevo pure ricompensarmi almeno con questo. (Arguzia di cattiva lega; ma non la cancellerò. L’ho scritta pensando che sarebbe riuscita una cosa molto arguta: e ora che ho visto io stesso che non volevo se non darmi ignobilmente delle arie, di proposito non la cancello!) Quando alla tavola alla quale sedevo accadeva che si accostassero dei postulanti per informazioni, digrignavo loro i denti in faccia e provavo un godimento inesauribile quando mi riusciva di amareggiarne qualcuno. Quasi sempre mi riusciva. Per la piú parte era tutta gente timida; si sa, postulanti. Ma fra i bellimbusti non potevo soffrire particolarmente un ufficiale. Egli non voleva sottomettersi in nessuna maniera e faceva un chiasso rivoltante con la sciabola. Per un anno e mezzo fui in guerra con lui per questa sciabola. Finalmente la vinsi. Smise di far chiasso. Del resto, questo accadde ancora nella mia giovinezza. Ma sapete, signori, in che consisteva il punto essenziale della mia malignità? In questo appunto consisteva tutta la faccenda, in questo appunto era racchiusa la maggiore schifezza: che in ogni momento, perfino nel momento della piú forte bile, ero vergognosamente conscio dentro di me che non solo non ero un uomo maligno, ma nemmeno inasprito, che non facevo che spaventare i passeri senza costrutto e con questo mi consolavo. Ho la bava alla bocca, ma portatemi una qualunque pupattola, datemi un po’ di tè con lo zucchero, e c’è caso che mi calmi, che ne abbia perfino l’anima intenerita, anche se poi finirò di sicuro col digrignare i denti contro me stesso e col soffrire d’insonnia per vari mesi dalla vergogna. Tale è il mio costume.
Mi sono calunniato poco fa, dicendo che ero un impiegato maligno. Per malignità mi sono calunniato. Facevo semplicemente lo stupido, tanto coi postulanti che con l’ufficiale, ma in sostanza non son mai potuto diventare maligno. Ogni momento riconoscevo in me stesso molti, moltissimi elementi dei piú contrari a questo. Sentivo che pullulavano addirittura in me, questi elementi contrari. Sapevo che tutta la vita erano pullulati in me e volevano venir fuori, ma io non li lasciavo, non li lasciavo, apposta non li lasciavo venir fuori. Mi tormentavano fino alla vergogna; mi conducevano fino alle convulsioni, e finalmente mi vennero a noia, come mi vennero a noia! Ma non vi sembra, signori, che ora io mi penta di qualcosa dinanzi a voi, che vi chieda perdono di qualcosa?... Sono sicuro che vi sembra cosí... Ma, del resto, vi assicuro che per me è lo stesso, anche se cosí vi sembra...
Non solamente non sono riuscito a diventare maligno, ma niente addirittura: né cattivo né buono, né mascalzone né onesto, né eroe né inetto. Ora poi concludo l’esistenza nel mio angolo, stuzzicandomi con la rabbiosa e del tutto inutile consolazione che una persona intelligente non può nemmeno diventare seriamente qualcosa, ma diventa qualcosa solo chi è stupido. Sissignori, l’uomo del secolo diciannovesimo deve ed è moralmente obbligato ad essere una creatura soprattutto senza carattere; l’uomo di carattere invece, l’uomo d’azione, ad essere una creatura soprattutto limitata. Questa è la mia convinzione da quarant’anni. Ora ho quarant’anni, e quarant’anni sono tutta la vita; infatti è la piú tarda vecchiaia. Vivere piú di quarant’anni è sconveniente, volgare, immorale! Chi vive piú di quarant’anni? Rispondete sinceramente, onestamente. Io vi dirò chi vive di piú: gli sciocchi e i farabutti. A tutti i vegliardi lo dirò in faccia, a tutti questi rispettabili vegliardi, a tutti questi vegliardi dall’argenteo crine e bene odoranti! a tutto il mondo lo dirò in faccia! Ho il diritto di parlare cosí, perché arriverò fino ai sessant’anni. Fino ai sessant’anni camperò! Fino agli ottant’anni camperò!... Aspettate! Fatemi riprender fiato...
Di sicuro pensate, signori, che voglia farvi ridere. Vi siete ingannati anche in questo. Non sono affatto un uomo cosí allegro come vi sembra, o come forse vi sembra; del resto, se a voi, irritati da questa cicalata (e già sento che siete irritati), verrà in mente di chiedermi chi sono io precisamente, vi dirò che sono un assessore di collegio1. Facevo l’impiegato per avere qualcosa da mangiare (ma unicamente per questo), e quando l’anno scorso uno dei miei lontani parenti mi lasciò seimila rubli per testamento, diedi subito le dimissioni e mi stabilii nel mio angolo. Anche prima stavo in quest’angolo, ma ora in quest’angolo mi sono stabilito. La mia camera è misera, brutta, all’estremo della città. La mia serva è una donna di campagna, vecchia, cattiva per stupidità, e per di piú puzza sempre. Mi dicono che il clima di Pietroburgo mi sta diventando dannoso e che coi miei meschini mezzi è molto caro vivere a Pietroburgo. Tutto questo lo so, meglio di tutti quegli sperimentati e saggissimi consiglieri e tentennoni lo so. Ma rimango a Pietroburgo; non me ne andrò da Pietroburgo! Non me ne andrò perché... Eh! Ma già, fa proprio lo stesso, che io me ne vada o non me ne vada.
Ma, del resto, di che cosa può parlare col maggior piacere una persona perbene?
Risposta: di sé.
Be’, allora parlerò proprio di me.
II.
Ora voglio raccontarvi, signori, sia che desideriate o non desideriate sentirlo, perché non ho saputo diventare nemmeno un insetto. Vi dirò solennemente che molte volte ho voluto diventare un insetto. Ma perfino di questo non sono stato degno. Vi giuro, signori, che aver coscienza di troppe cose è una malattia, una vera e propria malattia. Per il quotidiano vivere umano sarebbe anche troppo la comune coscienza umana, cioè di una metà, di un quarto inferiore alla porzione che tocca in sorte all’uomo evoluto del nostro disgraziato secolo diciannovesimo, e che abbia, per giunta, la doppia disgrazia di abitare a Pietroburgo, la piú astratta e artificiosa città di tutto il globo terrestre. (Le città possono essere artificiose e non artificiose). Sarebbe sufficientissima, per esempio, quella coscienza con cui vivono tutti i cosí detti uomini immediati e d’azione. Voi pensate, ci scommetto, che io scriva tutto questo per affettazione, per far dello spirito sugli uomini d’azione, e ancora per un’affettazione di cattivo gusto, che faccia chiasso con la sciabola, come il mio ufficiale. Ma, signori, chi mai può menar vanto delle sue stesse malattie, e ancora farne oggetto di affettazione?
Del resto, che dico? Tutti lo fanno; delle malattie appunto menano vanto, e io, magari, piú di tutti. Non discutiamo; la mia obiezione non ha senso. Ma tuttavia sono fermamente convinto che non solo la troppa coscienza, ma anche qualunque coscienza sia una malattia. C’insisto. Lasciamo anche questo per un minuto. Ditemi un po’: per quale ragione accadeva che, come apposta, in quegli stessi, sí, proprio in quegli stessi momenti nei quali ero maggiormente capace di sentire tutte le finezze «di ogni cosa bella e sublime», come si diceva da noi un tempo, mi capitasse non già di sentire, ma di fare delle azioni cosí poco eleganti, che... ma sí, insomma, che, sebbene magari tutti le facciano, mi venivano però fatte, come apposta, proprio quando maggiormente avevo coscienza che non si sarebbero punto dovute fare? Quanto piú avevo coscienza del bene e di tutto questo «bello e sublime», tanto piú profondamente mi lasciavo prendere nella mia melma e tanto piú ero capace d’impantanarmici del tutto. Ma il tratto principale era che tutto questo pareva che non fosse casuale in me, ma che proprio cosí dovesse essere. Come se questo fosse il mio stato piú normale, e niente affatto una malattia e una tara, cosicché, alla fine, mi passò anche la voglia di lottare contro questa tara. Finí che per poco non credetti (e forse credetti davvero) che questo fosse magari il mio stato normale. Ma sulle prime, all’inizio, quanti tormenti avevo sopportati in questa lotta! Io non credevo che succedesse ad altri, e poi lo tenni nascosto dentro di me tutta la vita come un segreto. Mi vergognavo (perfino adesso, forse, mi vergogno); giungevo al punto che provavo un certo occulto, anormale, vigliacchetto godimento a tornare, alle volte, in un’infame notte di Pietroburgo, nel mio angolo, e sentire fortemente che anche quel giorno lí avevo fatto di nuovo un’infamia, che ancora una volta quel che era fatto in nessuna maniera si poteva disfare, e rodermi internamente e segretamente, rodermi coi denti per questo, dilaniarmi e succhiarmi al punto che l’amarezza, alla fine, si convertiva in una ignominiosa, maledetta dolcezza e, alla fine, in vero autentico godimento! Sí, in godimento, in godimento! C’insisto. Perciò mi son messo a parlare, perché ho sempre voglia di sapere con certezza se anche altri abbiano di questi godimenti. Vi spiegherò: il godimento, qui, proveniva precisamente dalla troppo chiara coscienza del tuo avvilimento; dal fatto che tu stesso sentivi di esser giunto all’ultimo limite; che era una cosa pessima, ma non poteva neppure essere altrimenti; che ormai non c’era via d’uscita per te, che mai piú saresti diventato un altro uomo; che, se anche ti fosse rimasto tempo e fede per trasformarti in qualcos’altro, certamente tu stesso non ti saresti voluto trasformare; e se anche tu l’avessi voluto, non ne avresti fatto niente lo stesso, perché forse non c’era proprio nemmeno in che cosa trasformarti. Ma il punto principale alla fin fine, è che tutto questo avviene per le normali e fondamentali leggi di un’intensa coscienza e per l’inerzia che deriva direttamente da queste leggi e per conseguenza qui non solo non c’era da trasformarsi, ma neppure semplicemente da farci nulla. Il risultato di un’intensa coscienza, per esempio, è che hai ragione di dire che sei un mascalzone, come se per un mascalzone fosse un conforto sentire lui stesso che è veramente un mascalzone. Ma basta... Eh, ho parlato molto, ma che cosa ho spiegato?... Con che cosa si spiega qui il godimento? Ma mi spiegherò. Giungerò pure a un risultato! Per questo appunto ho preso in mano la penna...
Per esempio, ho un tremendo amor proprio. Sono diffidente e permaloso come un gobbo o un nano, ma, davvero, avevo dei momenti in cui, se fosse accaduto che m’avessero dato uno schiaffo, forse sarei stato lieto perfino di questo. Parlo sul serio: certo avrei saputo scovare anche qui uno speciale godimento, il godimento della disperazione, s’intende; ma è appunto nella disperazione che si hanno i godimenti piú ardenti, specialmente quando senti con molta forza che dalla tua situazione non c’è via d’uscita. E qui, nello schiaffo, qui poi ti schiaccia addirittura la coscienza della poltiglia a cui t’hanno ridotto. L’essenziale poi è che, per quanto si rigiri la cosa, ne viene pur sempre fuori che sono sempre io per primo il colpevole di tutto e, quel che piú offende, colpevole senza colpa e, per cosí dire, per legge di natura. Sono colpevole, in primo luogo, perché sono piú intelligente di tutti quelli che mi circondano. (Mi sono sempre stimato piú intelligente di tutti quelli che mi circondavano, e a volte, lo credereste?, ne ho avuto perfino scrupolo. Perlomeno, ho avuto tutta la vita uno sguardo obliquo e non ho mai potuto guardare gli uomini dritto negli occhi). Sono colpevole, infine, perché se anche ci fosse della generosità in me, non mi verrebbe che un tormento maggiore dalla coscienza di tutta la sua inutilità. Perché certo non avrei saputo far niente della mia generosità; né perdonare, perché l’offensore mi ha colpito secondo le leggi naturali, e le leggi naturali non si possono perdonare; né dimenticare, perché, anche se son leggi naturali, si sente pur sempre l’offesa. Infine, anche se io avessi voluto non essere generoso affatto, e al contrario avessi desiderato di vendicarmi dell’offensore, non mi sarei potuto vendicare di niente su nessuno, perché certo non mi sarei deciso a far nulla, nemmeno se avessi potuto. Per quale ragione non mi sarei deciso? Su questo ho voglia di dire due parole a parte.
III.
Infatti, gli uomini che sanno vendicarsi e, in generale, difendersi, come fanno, per esempio? Non appena li invade, mettiamo, il sentimento della vendetta, in tutto il loro essere intanto non rimane piú nulla, all’infuori di questo sentimento. Una persona cosí si butta addirittura diritto alla meta, come un toro infuriato, con le corna abbassate, e forse solo un muro lo può fermare. (A proposito: davanti a un muro questa gente, cioè gli uomini immediati e d’azione, sinceramente cedono le armi. Per loro il muro non è una scusa, come, ad esempio, per noi, uomini che pensiamo e per conseguenza non facciamo niente; non è un pretesto per fare fronte indietro, un pretesto a cui di solito non crediamo neppur noi, ma del quale siamo sempre molto lieti. No, loro cedono le armi con tutta sincerità. Il muro ha per loro un che di calmante, di moralmente risolutivo e di definitivo, magari perfino un che di mistico... Ma del muro parleremo piú innanzi). Ebbene, un uomo immediato cosiffatto lo stimo appunto un uomo vero, normale, come voleva vederlo la stessa tenera madre natura, mettendolo al mondo. Un uomo cosiffatto lo invidio fino a scoppiare di bile. È sciocco, su questo non vi contraddico, ma forse l’uomo normale dev’essere appunto stupido, che ne sapete voi? Forse, anzi, è una bellissima cosa. E io sono tanto piú convinto di questo, per cosí dire, sospetto, in quanto, se si prende, per esempio, l’antitesi dell’uomo normale, cioè l’uomo intensamente cosciente, uscito, s’intende, non dal seno della natura, ma da una storta (questo è già quasi misticismo, signori, ma io sospetto anche questo), quest’uomo della storta a volte cede a tal punto le armi davanti alla propria antitesi che coscienziosamente, con tutta la sua intensa coscienza, si considera un topo, e non un uomo. Sia pure un topo intensamente cosciente, ma pur sempre un topo, mentre qui c’è un uomo, e di conseguenza... ecc. E, soprattutto, è lui, è lui che si considera un topo; nessuno glielo chiede; e questo è un punto importante. Ma ora diamo un’occhiata a questo topo in azione. Supponiamo, per esempio, che esso pure sia offeso (è offeso quasi sempre) ed esso pure desiderî di vendicarsi. Di malignità, forse, se ne accumulerà in lui ancora piú che nell’homme de la nature et de la vérité 2. Lo schifoso, basso desideriucolo di ripagare l’offensore con lo stesso male forse gli pruderà dentro ancora piú infamemente che nell’homme de la nature et de la vérité, perché l’homme de la nature et de la vérité, per la sua innata stupidità, considera la propria vendetta puramente e semplicemente come un atto di giustizia, ma il topo, per effetto dell’intensa coscienza, qui nega la giustizia. Si giunge finalmente al fatto, all’atto stesso della vendetta. Il disgraziato topo, oltre a un’infamia iniziale, ha già avuto il tempo di ammucchiare intorno a sé, in forma di problemi e di dubbi, tante altre infamie; a un problema ha aggiunto tanti problemi insoluti che per forza gli si raccoglie intorno una specie di broda fatale, una specie di fango puzzolente, costituito dai suoi dubbi, dalle sue agitazioni e, infine, dagli sputi che gli piovono addosso dagli uomini immediati che stanno solennemente all’intorno in veste di giudici e dittatori e gli sghignazzano addosso a gola spiegata. S’intende che non gli rimane altro che fare con la sua zampetta un gesto di rinuncia a tutto e, con un sorriso di ostentato disprezzo, al quale esso stesso non crede, infilarsi ignominiosamente nella sua fessura. Là, nel suo lurido, puzzolente sottosuolo, il nostro topo offeso, maltrattato e deriso si sprofonda immediatamente in una fredda, velenosa e, soprattutto, eterna malignità.
Per quarant’anni di seguito ricorderà fino agli ultimi e piú ignominiosi particolari la sua offesa e, nel far ciò, ogni volta aggiungerà per suo conto dei particolari ancora piú ignominiosi, rabbiosamente stuzzicandosi e irritandosi con la propria fantasia. Si vergognerà esso stesso della sua fantasia, ma tuttavia rammenterà tutto, vaglierà tutto, si calunnierà con circostanze inverosimili, col pretesto che anch’esse potevano avverarsi, e non perdonerà nulla. Magari, comincerà anche a vendicarsi, ma in certo qual modo a tratti, a briciole, da dietro la tenda, in incognito, senza credere né al suo diritto di vendicarsi, né alla riuscita della sua vendetta e sapendo anticipatamente che di tutti i suoi tentativi di vendicarsi esso stesso soffrirà cento volte piú di colui del quale si vendica, mentre quello, magari, non avrà nemmeno di che grattarsi. Sul letto di morte rammenterà di nuovo tutto, con gli interessi accumulatisi nel frattempo e... M...
Indice dei contenuti
- Copertina
- Memorie del sottosuolo
- Nota introduttiva di Leone Ginzburg
- Nota biografica
- Bibliografia essenziale
- Memorie del sottosuolo
- Il libro
- L’autore
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