In memoria di
Aristides de Sousa Mendes1,
Paul Grüninger2
e Alice Ferrières3
1. Una memoria difficile.
Per il mondo ebraico, la Seconda guerra mondiale è il luogo di una memoria intollerabile, inevitabile e difficile da trasmettere: nessuno si è battuto per salvare gli ebrei, nessun campo è stato liberato in seguito a un ordine, tutti lo furono per caso, perché erano situati lungo la strada delle truppe in marcia. Memoria intollerabile per i sopravvissuti: basti pensare al suicidio di Jean Améry1 nel 1978, di Primo Levi nel 1987, di Bruno Bettelheim nel 1990. Questa memoria difficile rimanda alla vergogna del ricordo (come dimenticare a quale grado di impotenza si è stati ridotti?), e alla vergogna indelebile dell’umiliazione: «Chiunque abbia subito la tortura non può piú sentirsi a casa sua nel mondo. La vergogna della distruzione è incancellabile»2. Ma questa memoria rimanda anche al senso di colpa del sopravvissuto, e alla vergogna di appartenere alla stessa specie dell’assassino. Come Primo Levi, che «si sente colpevole di essere uomo poiché gli uomini avevano edificato Auschwitz», e per il quale «c’è un’altra vergogna, piú grande, la vergogna del mondo»3. Come Karl Jaspers, che scriveva: «Il fatto di continuare a vivere dopo tali avvenimenti grava su di me come un senso di colpa inespiabile»4. Poiché siamo testimoni dell’orrore, Auschwitz ci impedisce di crescere con innocenza. E in una società da molto tempo ampiamente secolarizzata, è venuta meno la fede nel potere redentore di una tale sofferenza. La quale, lo sappiamo, non redime niente.
Come qualsiasi memoria collettiva, quella ebraica rielabora la Storia, cerca di scongiurare l’angoscia provocata dalla volontà di una distruzione radicale. La memoria ha bisogno di eroi. In Israele, il giorno consacrato alla commemorazione della catastrofe viene indicato con le parole: Yom hashoah ve hagvoura5. Sulla tomba di un eroe del ghetto di Varsavia, Klepfisz, c’è la scultura di un uomo con il torso ricurvo, il fucile in una mano e la granata nell’altra, la giberna al cinturone, eccetera, mentre sappiamo com’era la realtà del ghetto: poche armi, pochi equipaggiamenti, esseri delle tenebre, di carnagione scura, sporchi e inebetiti dalla fatica.
Può trasformarsi anche il ricordo dei testimoni, a cominciare da quelli che continuamente ripetono: avremmo saputo solo nel 1945. Formalmente è vero. Tuttavia, già nel 1942, gli indizi erano numerosi. Fin dal 16 marzo 1942, per esempio, Victor Klemperer, un ebreo senza diritti, confinato a Dresda, e che deve la sua sopravvivenza solo al fatto di essere «sposato con un’ariana», scrive nel suo Diario: «In questi giorni sento nominare, tra i KZ6 piú atroci, Auschwitz (o qualcosa del genere) dalle parti di Königshütte, nell’Alta Slesia. Lavoro in miniera, morte dopo pochi giorni»7. Bambini e vecchi venivano deportati davvero per motivi di lavoro? Etty Hillesum, ebrea olandese rinchiusa a Westerbork, scrive nel suo diario, il 3 luglio 1942: «Sono in gioco la nostra rovina e la nostra distruzione, non c’è da illudersi. “Si” vuole il nostro sterminio totale, bisogna accettare questa verità»8. E Marcel Mauss nel giugno 1942 dichiara a Germaine Tillion, mostrandole la stella gialla cucita sul vestito: «Capisce cosa significa tutto ciò? Io glielo posso dire oggi: significa lo ster-mi-nio»9. Allora si sapevano molte cose, o almeno si potevano subodorare, a condizione di cogliere i segnali.
Questo rifiuto del ricordo spiega, in parte, la volontà di demonizzare gli assassini dopo la guerra. Facendone dei mostri disumani, o peggio, delle belve, la memoria cancellata crea una distanza ancora piú grande tra loro e noi. Questa distanza rende l’oblio (e la nostra vita) ancora possibili. Il fatto di appartenere alla stessa specie degli assassini, come lo sentono nella carne Levi e Jaspers, toglie il sonno. Dimentichi dell’unità del genere umano riproponiamo, per forza di cose, le scissioni operate dagli stessi assassini, che pretendevano di fare delle distinzioni in seno alla specie… Nascondere la dimensione umana del male significa occultare una parte essenziale della memoria da trasmettere. Demonizzare gli assassini significa liberarli dal senso di colpa e seppellire una seconda volta le vittime. Ora, gli assassini sono parte integrante della specie umana, e sono tanto piú colpevoli in quanto non tutta l’umanità accettò il crimine. I mostri sono legittimati dalla loro stessa mostruosità, ma sono colpevoli di essere dei mostri?
La giornalista ungherese Gitta Sereny10 chiede alla moglie di Franz Stangl, comandante di Treblinka, cos’avrebbe fatto suo marito se, nel 1942, gli avesse intimato di scegliere tra lei e la direzione del campo. «Sí… in ultima analisi, lui avrebbe scelto me», risponde la signora Stangl. Qualche ora piú tardi, tornata nel suo albergo, Gitta Sereny riceve un plico urgente speditole dalla sua interlocutrice. Quest’ultima si ricrede: il marito, scrive, avrebbe scelto il campo… E Gitta Sereny conclude: «La verità può essere una cosa terribile, a volte troppo terribile per poterci convivere»11.
Le vittime si sono preoccupate con forza, in modo ossessivo e perfino decisivo, di annotare, testimoniare, trasmettere. Nella zona di occupazione italiana, a Grenoble, il 27 aprile 1943, Yitzchok Schneersohn fonda il Centro di documentazione ebraica. Nel cuore del ghetto di Łódź, Schloyme Frank racconta nel suo diario, affinché ne resti una traccia scritta, l’orrore quotidiano; lo stesso fa, nel ghetto di Varsavia, Hillel Seidman, come decine di altri cronisti quali Chaim Kaplan, Abraham Lewin, e soprattutto Emmanuel Ringelblum, responsabile dell’«Oneg Shabbat»12. Perfino nell’orrore della rivolta del ghetto, Ringelblum ci lascia la descrizione degli ultimi giorni. Chiusi in alcuni bidoni del latte, questi testi vengono sotterrati e poi solo in parte ritrovati nel 1946 e nel 1950. Questa volontà di non dimenticare permette a molte vittime di sopravvivere ancora. Esse sanno quale dramma comporterebbe l’oblio definitivo delle tracce della violenza loro inflitta. La cancellazione delle prove è l’ossessione degli assassini13, cosí come l’oblio è quella delle vittime. La preoccupazione di sopravvivere, ci dicono, qualche volta permane al solo scopo di testimoniare. È proprio questo sforzo di memoria che permette a Varlam Šalamov14 di sopravvivere, dopo venticinque anni di campo di concentramento, per far conoscere al mondo ciò che furono i campi di Kolyma, nella parte piú orientale della Siberia. Il bisogno di trasmettere è legato a quello di capire: la salvaguardia della memoria ci appare allora come un dovere civico15.
La memoria collettiva è solo una pubblica riflessione sul passato? Se la memoria è innanzitutto il luogo di una traccia mnesica, non può che essere individuale. Ma cosí come ogni individuo esiste soltanto in rapporto agli altri, pure la memoria non può essere solitaria: è sempre comune e condivisa. Ciò che di piú intimo e doloroso (dunque di meno condivisibile) c’è nella memoria della deportazione è tanto fragile perché è difficile concepire un ricordo isolato (e astratto). «I ricordi che ci è piú difficile rievocare, – scriveva Maurice Halbwachs in La memoria collettiva, – sono proprio quelli che non riguardano che noi, che costituiscono il nostro piú esclusivo possesso. È come se i ricordi non potessero sfuggire agli altri che alla condizione di sfuggire anche a noi stessi»16. È quanto già testimoniava, giovane «ex combattente», lo storico Jules Isaac, in un articolo pubblicato nel 1919. Rivolgendosi ai civili incontrati sugli Champs-Élysées, li metteva in guardia: «Pensate di conoscerci, brava gente? Non illudetevi, non ci conoscete piú, non ci conoscerete mai piú, tanto è profondo l’abisso che separa i morti dai vivi, tanto è profondo quello che ci separa da voi. Siamo contrassegnati da un marchio segreto che vi sfugge. Siamo dei fantasmi…»17.
È quasi uno stereotipo continuare a ripetersi che la memoria è ingannatrice, che oscilla tra necessità di sopravvivenza e verità storica. E che non è affatto dettata da una preoccupazione storica, quanto piuttosto dall’esigenza di preservare il soggetto e il gruppo. L’immagine che ci facciamo del passato non è il passato, e nemmeno ciò che ne resta, ma solo una traccia che cambia ogni giorno, una ricostruzione, peraltro non casuale, poiché rimette insieme sprazzi di memoria che riaffiorano nell’oblio generale.
Come il pensiero automatico, la memoria si propone innanzitutto di essere rassicurante. «Quando ascolto le persone, – racconta una giovane scampata al genocidio del Ruanda (1994), una coltivatrice nella regione di Musenyi, – mi rendo conto che il loro ricordo del genocidio muta con il passare del tempo. Una mia vicina, per esempio, all’inizio raccontava che sua mamma era morta in chiesa; due anni dopo ha detto che era morta nella palude. Non c’è menzogna, per me. La figlia aveva un motivo, comprensibile, per volere che la mamma fosse morta in chiesa. Forse l’aveva abbandonata fuggendo nella palude e questo la turbava. O forse, autoconvincendosi che cosí, uccisa con un unico colpo fin dal primo giorno, avesse sofferto meno, riusciva ad accettare una realtà altrimenti troppo dolorosa. In seguito, con il tempo, si è un po’ tranquillizzata, è stata in grado di ricordare la verità e di accettarla»18.
L’immagine del sopravvissuto ossessionato dal senso di colpa ricompare in tutti i racconti di genocidio. Un’altra giovane ruandese aggiunge: «Ci sono anche persone che modificano continuamente i dettagli di una giornata fatale perché pensano di aver avuto, quel giorno, una fortuna che avrebbe benissimo potuto meritare qualcun altro»19. Questa memoria, per quanto fallace, resta una necessità per coloro che hanno dovuto attraversare delle prove, per i loro discendenti, e per tutti gli altri, testimoni muti di un’umanità intaccata dalla non-umanità. Al punto che il negazionismo è costitutivo del genocidio, ne è addirittura un carattere essenziale. Da sempre, gli assassini e i loro accoliti fanno di tutto per negare il crimine. A partire dal 1920 il regime turco pratica ufficialmente il negazionismo. Cancellare le tracce delle vittime è stata anche la preoccupazione costante degli uccisori hutu, come racconta una giovane scampata del Ruanda: «Volevano annientarci a tal punto che durante i saccheggi bruciavano ossessivamente i nostri album di fotografie, in modo che ai morti non rimanesse nemmeno piú l’opportunità di essere esistiti […]. Agivano per farci scomparire e per far scomparire, diciamo cosí, le tracce delle loro azioni»20. Non si tratta solo di cancellare i corpi, ma pure il ricordo di ciò che erano stati da vivi. Anche in questo il genocidio si distingue dal massacro episodico, appartiene a un altro registro, ha un’essenza quasi metafisica nel momento i...