L'eredità di Auschwitz
eBook - ePub

L'eredità di Auschwitz

Come ricordare?

  1. 216 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
eBook - ePub

L'eredità di Auschwitz

Come ricordare?

Informazioni su questo libro

In questa nuova edizione dell' Eredità di Auschwitz - in molte parti riscritta e ampliata - Georges Bensoussan indaga con sguardo acuto e lucido non tanto la dinamica della shoah come fatto storico, quanto il modo in cui la civiltà occidentale ha gestito e gestisce la memoria dell'evento: una memoria spesso mistificante e conciliatrice, che tende ad attenuare il portato traumatico dell'accaduto, piuttosto che farsi responsabilità bruciante. Per eludere le trappole della retorica è necessario - secondo Bensoussan - iniziare a prendere in considerazione le questioni politiche che questa storia solleva, a cominciare dal problema del suo insegnamento alle generazioni presenti e venture, e adottare un approccio critico che potrebbe anche apparire impopolare: la shoah è stata un'aberrazione imprevista e unica nel corso della Storia, o piuttosto una sua inevitabile evoluzione?

Domande frequenti

Sì, puoi annullare l'abbonamento in qualsiasi momento dalla sezione Abbonamento nelle impostazioni del tuo account sul sito web di Perlego. L'abbonamento rimarrà attivo fino alla fine del periodo di fatturazione in corso. Scopri come annullare l'abbonamento.
Al momento è possibile scaricare tramite l'app tutti i nostri libri ePub mobile-friendly. Anche la maggior parte dei nostri PDF è scaricabile e stiamo lavorando per rendere disponibile quanto prima il download di tutti gli altri file. Per maggiori informazioni, clicca qui.
Perlego offre due piani: Base e Completo
  • Base è ideale per studenti e professionisti che amano esplorare un’ampia varietà di argomenti. Accedi alla Biblioteca Base con oltre 800.000 titoli affidabili e best-seller in business, crescita personale e discipline umanistiche. Include tempo di lettura illimitato e voce Read Aloud standard.
  • Completo: Perfetto per studenti avanzati e ricercatori che necessitano di accesso completo e senza restrizioni. Sblocca oltre 1,4 milioni di libri in centinaia di argomenti, inclusi titoli accademici e specializzati. Il piano Completo include anche funzionalità avanzate come Premium Read Aloud e Research Assistant.
Entrambi i piani sono disponibili con cicli di fatturazione mensili, ogni 4 mesi o annuali.
Perlego è un servizio di abbonamento a testi accademici, che ti permette di accedere a un'intera libreria online a un prezzo inferiore rispetto a quello che pagheresti per acquistare un singolo libro al mese. Con oltre 1 milione di testi suddivisi in più di 1.000 categorie, troverai sicuramente ciò che fa per te! Per maggiori informazioni, clicca qui.
Cerca l'icona Sintesi vocale nel prossimo libro che leggerai per verificare se è possibile riprodurre l'audio. Questo strumento permette di leggere il testo a voce alta, evidenziandolo man mano che la lettura procede. Puoi aumentare o diminuire la velocità della sintesi vocale, oppure sospendere la riproduzione. Per maggiori informazioni, clicca qui.
Sì! Puoi usare l’app Perlego sia su dispositivi iOS che Android per leggere in qualsiasi momento, in qualsiasi luogo — anche offline. Perfetta per i tragitti o quando sei in movimento.
Nota che non possiamo supportare dispositivi con iOS 13 o Android 7 o versioni precedenti. Scopri di più sull’utilizzo dell’app.
Sì, puoi accedere a L'eredità di Auschwitz di Georges Bensoussan, Camilla Testi in formato PDF e/o ePub, così come ad altri libri molto apprezzati nelle sezioni relative a Storia e Teoria e critica storica. Scopri oltre 1 milione di libri disponibili nel nostro catalogo.

Informazioni

Editore
EINAUDI
Anno
2014
Print ISBN
9788806215910

L’EREDITÀ DI AUSCHWITZ

In memoria di
Aristides de Sousa Mendes1,
Paul Grüninger2
e Alice Ferrières3
1 Aristides de Sousa Mendes, console del Portogallo a Bordeaux nel giugno 1940, concede in pochi giorni trentamila visti d’ingresso nel suo paese a quanti cercano di sottrarsi all’avanzata tedesca. Richiamato sul campo a Lisbona, viene destituito e la sua carriera è rovinata. Sempre piú povero e dipendente dalle opere di carità, l’anziano console muore in miseria nel 1954. È stato riabilitato nel 1987.
2 Il comandante di polizia svizzero Paul Grüninger, del cantone di San Gallo, fu punito con la perdita del grado militare nell’aprile 1939, condannato penalmente e messo al bando della società elvetica per aver abbondantemente e illegalmente favorito l’ingresso in Svizzera di oltre 3600 rifugiati ebrei austriaci nel 1938 e 1939. Morto in miseria nel 1972, è stato riabilitato soltanto nel 1995.
3 Protestante originaria delle Cevenne e giovane professoressa di matematica in un collegio femminile a Murat (Cantal), Alice Ferrières, dopo aver deciso, da sola, nel 1941, di mettersi in contatto con le autorità rabbiniche, si occupa degli internati nei campi di concentramento, quindi si adopera per salvare rifugiati e bambini ebrei alloggiati nelle fattorie dei dintorni o accolti nel convitto del collegio. Grazie a una rete di complicità, Alice Ferrières riesce a salvare oltre cinquanta persone.

Capitolo primo

I trabocchetti della memoria

1. Una memoria difficile.
Per il mondo ebraico, la Seconda guerra mondiale è il luogo di una memoria intollerabile, inevitabile e difficile da trasmettere: nessuno si è battuto per salvare gli ebrei, nessun campo è stato liberato in seguito a un ordine, tutti lo furono per caso, perché erano situati lungo la strada delle truppe in marcia. Memoria intollerabile per i sopravvissuti: basti pensare al suicidio di Jean Améry1 nel 1978, di Primo Levi nel 1987, di Bruno Bettelheim nel 1990. Questa memoria difficile rimanda alla vergogna del ricordo (come dimenticare a quale grado di impotenza si è stati ridotti?), e alla vergogna indelebile dell’umiliazione: «Chiunque abbia subito la tortura non può piú sentirsi a casa sua nel mondo. La vergogna della distruzione è incancellabile»2. Ma questa memoria rimanda anche al senso di colpa del sopravvissuto, e alla vergogna di appartenere alla stessa specie dell’assassino. Come Primo Levi, che «si sente colpevole di essere uomo poiché gli uomini avevano edificato Auschwitz», e per il quale «c’è un’altra vergogna, piú grande, la vergogna del mondo»3. Come Karl Jaspers, che scriveva: «Il fatto di continuare a vivere dopo tali avvenimenti grava su di me come un senso di colpa inespiabile»4. Poiché siamo testimoni dell’orrore, Auschwitz ci impedisce di crescere con innocenza. E in una società da molto tempo ampiamente secolarizzata, è venuta meno la fede nel potere redentore di una tale sofferenza. La quale, lo sappiamo, non redime niente.
Come qualsiasi memoria collettiva, quella ebraica rielabora la Storia, cerca di scongiurare l’angoscia provocata dalla volontà di una distruzione radicale. La memoria ha bisogno di eroi. In Israele, il giorno consacrato alla commemorazione della catastrofe viene indicato con le parole: Yom hashoah ve hagvoura5. Sulla tomba di un eroe del ghetto di Varsavia, Klepfisz, c’è la scultura di un uomo con il torso ricurvo, il fucile in una mano e la granata nell’altra, la giberna al cinturone, eccetera, mentre sappiamo com’era la realtà del ghetto: poche armi, pochi equipaggiamenti, esseri delle tenebre, di carnagione scura, sporchi e inebetiti dalla fatica.
Può trasformarsi anche il ricordo dei testimoni, a cominciare da quelli che continuamente ripetono: avremmo saputo solo nel 1945. Formalmente è vero. Tuttavia, già nel 1942, gli indizi erano numerosi. Fin dal 16 marzo 1942, per esempio, Victor Klemperer, un ebreo senza diritti, confinato a Dresda, e che deve la sua sopravvivenza solo al fatto di essere «sposato con un’ariana», scrive nel suo Diario: «In questi giorni sento nominare, tra i KZ6 piú atroci, Auschwitz (o qualcosa del genere) dalle parti di Königshütte, nell’Alta Slesia. Lavoro in miniera, morte dopo pochi giorni»7. Bambini e vecchi venivano deportati davvero per motivi di lavoro? Etty Hillesum, ebrea olandese rinchiusa a Westerbork, scrive nel suo diario, il 3 luglio 1942: «Sono in gioco la nostra rovina e la nostra distruzione, non c’è da illudersi. “Si” vuole il nostro sterminio totale, bisogna accettare questa verità»8. E Marcel Mauss nel giugno 1942 dichiara a Germaine Tillion, mostrandole la stella gialla cucita sul vestito: «Capisce cosa significa tutto ciò? Io glielo posso dire oggi: significa lo ster-mi-nio»9. Allora si sapevano molte cose, o almeno si potevano subodorare, a condizione di cogliere i segnali.
Questo rifiuto del ricordo spiega, in parte, la volontà di demonizzare gli assassini dopo la guerra. Facendone dei mostri disumani, o peggio, delle belve, la memoria cancellata crea una distanza ancora piú grande tra loro e noi. Questa distanza rende l’oblio (e la nostra vita) ancora possibili. Il fatto di appartenere alla stessa specie degli assassini, come lo sentono nella carne Levi e Jaspers, toglie il sonno. Dimentichi dell’unità del genere umano riproponiamo, per forza di cose, le scissioni operate dagli stessi assassini, che pretendevano di fare delle distinzioni in seno alla specie… Nascondere la dimensione umana del male significa occultare una parte essenziale della memoria da trasmettere. Demonizzare gli assassini significa liberarli dal senso di colpa e seppellire una seconda volta le vittime. Ora, gli assassini sono parte integrante della specie umana, e sono tanto piú colpevoli in quanto non tutta l’umanità accettò il crimine. I mostri sono legittimati dalla loro stessa mostruosità, ma sono colpevoli di essere dei mostri?
La giornalista ungherese Gitta Sereny10 chiede alla moglie di Franz Stangl, comandante di Treblinka, cos’avrebbe fatto suo marito se, nel 1942, gli avesse intimato di scegliere tra lei e la direzione del campo. «Sí… in ultima analisi, lui avrebbe scelto me», risponde la signora Stangl. Qualche ora piú tardi, tornata nel suo albergo, Gitta Sereny riceve un plico urgente speditole dalla sua interlocutrice. Quest’ultima si ricrede: il marito, scrive, avrebbe scelto il campo… E Gitta Sereny conclude: «La verità può essere una cosa terribile, a volte troppo terribile per poterci convivere»11.
Le vittime si sono preoccupate con forza, in modo ossessivo e perfino decisivo, di annotare, testimoniare, trasmettere. Nella zona di occupazione italiana, a Grenoble, il 27 aprile 1943, Yitzchok Schneersohn fonda il Centro di documentazione ebraica. Nel cuore del ghetto di Łódź, Schloyme Frank racconta nel suo diario, affinché ne resti una traccia scritta, l’orrore quotidiano; lo stesso fa, nel ghetto di Varsavia, Hillel Seidman, come decine di altri cronisti quali Chaim Kaplan, Abraham Lewin, e soprattutto Emmanuel Ringelblum, responsabile dell’«Oneg Shabbat»12. Perfino nell’orrore della rivolta del ghetto, Ringelblum ci lascia la descrizione degli ultimi giorni. Chiusi in alcuni bidoni del latte, questi testi vengono sotterrati e poi solo in parte ritrovati nel 1946 e nel 1950. Questa volontà di non dimenticare permette a molte vittime di sopravvivere ancora. Esse sanno quale dramma comporterebbe l’oblio definitivo delle tracce della violenza loro inflitta. La cancellazione delle prove è l’ossessione degli assassini13, cosí come l’oblio è quella delle vittime. La preoccupazione di sopravvivere, ci dicono, qualche volta permane al solo scopo di testimoniare. È proprio questo sforzo di memoria che permette a Varlam Šalamov14 di sopravvivere, dopo venticinque anni di campo di concentramento, per far conoscere al mondo ciò che furono i campi di Kolyma, nella parte piú orientale della Siberia. Il bisogno di trasmettere è legato a quello di capire: la salvaguardia della memoria ci appare allora come un dovere civico15.
La memoria collettiva è solo una pubblica riflessione sul passato? Se la memoria è innanzitutto il luogo di una traccia mnesica, non può che essere individuale. Ma cosí come ogni individuo esiste soltanto in rapporto agli altri, pure la memoria non può essere solitaria: è sempre comune e condivisa. Ciò che di piú intimo e doloroso (dunque di meno condivisibile) c’è nella memoria della deportazione è tanto fragile perché è difficile concepire un ricordo isolato (e astratto). «I ricordi che ci è piú difficile rievocare, – scriveva Maurice Halbwachs in La memoria collettiva, – sono proprio quelli che non riguardano che noi, che costituiscono il nostro piú esclusivo possesso. È come se i ricordi non potessero sfuggire agli altri che alla condizione di sfuggire anche a noi stessi»16. È quanto già testimoniava, giovane «ex combattente», lo storico Jules Isaac, in un articolo pubblicato nel 1919. Rivolgendosi ai civili incontrati sugli Champs-Élysées, li metteva in guardia: «Pensate di conoscerci, brava gente? Non illudetevi, non ci conoscete piú, non ci conoscerete mai piú, tanto è profondo l’abisso che separa i morti dai vivi, tanto è profondo quello che ci separa da voi. Siamo contrassegnati da un marchio segreto che vi sfugge. Siamo dei fantasmi…»17.
È quasi uno stereotipo continuare a ripetersi che la memoria è ingannatrice, che oscilla tra necessità di sopravvivenza e verità storica. E che non è affatto dettata da una preoccupazione storica, quanto piuttosto dall’esigenza di preservare il soggetto e il gruppo. L’immagine che ci facciamo del passato non è il passato, e nemmeno ciò che ne resta, ma solo una traccia che cambia ogni giorno, una ricostruzione, peraltro non casuale, poiché rimette insieme sprazzi di memoria che riaffiorano nell’oblio generale.
Come il pensiero automatico, la memoria si propone innanzitutto di essere rassicurante. «Quando ascolto le persone, – racconta una giovane scampata al genocidio del Ruanda (1994), una coltivatrice nella regione di Musenyi, – mi rendo conto che il loro ricordo del genocidio muta con il passare del tempo. Una mia vicina, per esempio, all’inizio raccontava che sua mamma era morta in chiesa; due anni dopo ha detto che era morta nella palude. Non c’è menzogna, per me. La figlia aveva un motivo, comprensibile, per volere che la mamma fosse morta in chiesa. Forse l’aveva abbandonata fuggendo nella palude e questo la turbava. O forse, autoconvincendosi che cosí, uccisa con un unico colpo fin dal primo giorno, avesse sofferto meno, riusciva ad accettare una realtà altrimenti troppo dolorosa. In seguito, con il tempo, si è un po’ tranquillizzata, è stata in grado di ricordare la verità e di accettarla»18.
L’immagine del sopravvissuto ossessionato dal senso di colpa ricompare in tutti i racconti di genocidio. Un’altra giovane ruandese aggiunge: «Ci sono anche persone che modificano continuamente i dettagli di una giornata fatale perché pensano di aver avuto, quel giorno, una fortuna che avrebbe benissimo potuto meritare qualcun altro»19. Questa memoria, per quanto fallace, resta una necessità per coloro che hanno dovuto attraversare delle prove, per i loro discendenti, e per tutti gli altri, testimoni muti di un’umanità intaccata dalla non-umanità. Al punto che il negazionismo è costitutivo del genocidio, ne è addirittura un carattere essenziale. Da sempre, gli assassini e i loro accoliti fanno di tutto per negare il crimine. A partire dal 1920 il regime turco pratica ufficialmente il negazionismo. Cancellare le tracce delle vittime è stata anche la preoccupazione costante degli uccisori hutu, come racconta una giovane scampata del Ruanda: «Volevano annientarci a tal punto che durante i saccheggi bruciavano ossessivamente i nostri album di fotografie, in modo che ai morti non rimanesse nemmeno piú l’opportunità di essere esistiti […]. Agivano per farci scomparire e per far scomparire, diciamo cosí, le tracce delle loro azioni»20. Non si tratta solo di cancellare i corpi, ma pure il ricordo di ciò che erano stati da vivi. Anche in questo il genocidio si distingue dal massacro episodico, appartiene a un altro registro, ha un’essenza quasi metafisica nel momento i...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. L’eredità di Auschwitz
  3. Prefazione
  4. L’eredità di Auschwitz
  5. Bibliografia
  6. Postfazione di Mauro Bertani
  7. Il libro
  8. L’autore
  9. Dello stesso autore
  10. Copyright