Le stagioni di Giacomo
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Le stagioni di Giacomo

  1. 192 pagine
  2. Italian
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  4. Disponibile su iOS e Android
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Le stagioni di Giacomo

Informazioni su questo libro

Una piccola comunità dell'Altipiano di Asiago è uscita stremata dalla Grande Guerra: ovunque macerie, povertà, disoccupazione. Chi non emigra all'estero ha davanti a sé come unico lavoro possibile quello del «recuperante»: battere la montagna alla ricerca dei residui bellici da rivendere per pochi centesimi. Giacomo, il protagonista del romanzo, apprende il mestiere fin da bambino: quando una giornata di recupero significava un concreto aiuto al magro bilancio familiare, o un piccolo svago domenicale. Al seguito del padre e nel silenzio dei monti, impara a dialogare con i soldati scomparsi, ma anche a conoscere la natura, ad amarla, a decifrarne il linguaggio segreto. Quello che Rigoni Stern racconta è un mondo ancora integro, dominato da un forte senso della comunità, sapiente nella sua conoscenza e nel rispetto della natura e dei suoi ritmi: una civiltà armoniosa che oggi appare travolta da un degrado irreversibile. L'autore ce la restituisce con poetica semplicità in un libro che è testimonianza appassionata, narrazione di memoria e «foto di gruppo» di profonda verità umana.

Cronologia della vita e delle opere a cura di Giuseppe Mendicino.

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Informazioni

Editore
EINAUDI
Anno
2013
Print ISBN
9788806250782
eBook ISBN
9788858410516

1.

Sono passato e non c’era nessuno. Silenzio attorno e dentro le case. Lontano si sentiva abbaiare un cane e nel cielo gracchiare una coppia di corvi. La neve era arrivata bassa, fin sopra il Moor, ma anche se era freddo i camini non fumavano. Tutte le porte erano ben serrate, chiusi gli scuri alle finestre.
Ricordavo chi abitava qui porta per porta perché da ragazzo venivo quassú dal paese per giocare con il mio compagno di banco. Ricordavo dove erano le vacche, dove i cavalli, l’asino. E gli orti ben coltivati, e la fontana da cui sgorgava un’acqua freschissima: prima bianca, poi limpida dopo che l’aria incorporata svaniva dalla superficie del bicchiere.
Nella casa piú vecchia e piccola la porta era socchiusa. Forse era entrato qualcuno a vederla con l’intenzione di comperarla e ristrutturarla come casa per le vacanze; ma poi, sentito quanti erano i proprietari sparsi per la Francia, Americhe e Australia, aveva abbandonato l’idea. O forse a entrare saranno stati quei giovani di passaggio che non si sa da dove vengono e dove vanno. Avranno forzato la porta per passarvi la notte, ripartendo la mattina dopo.
La porta non ha vetri ma tavole d’abete inchiavardate, non ha serratura con chiavi o catenacci ma una maniglia fermata da un paletto e dal filo di ferro a un chiodo infisso tra le pietre del muro. Sono entrato dopo aver bussato e chiesto permesso. Il silenzio e la penombra erano carichi di ricordi che sembravano chiedere la parola.
La piccola finestra che guardava a mattina non mostrava piú il paesaggio perché bardane e ortiche cresciute all’esterno impedivano la vista. Si vedeva solo un pezzo di cielo.
Sul focolare annerito restava un po’ di cenere compatta e dura, simile a quella che rimane in fondo ai sepolcri. Il pavimento era cosparso di riviste con tanta pubblicità e donne nude ma, rimuovendole con un piede, sotto affioravano ramoscelli secchi e qualche foglia di faggio. C’erano ancora l’acquaio in pietra, i ganci dove appendere le secchie di rame per l’acqua, le scansie a vista dove venivano riposte stoviglie e posate. Mancavano la stufa da trincea che era stata recuperata da un ricovero austriaco, le quattro sedie, la panca e il tavolo. Il posto del tavolo mi ricordava che lí sotto, per la botola, si scendeva nel vano dove venivano riposte le patate, i cavoli agri, il lardo e i salumi dopo che si erano asciugati. Verso il soffitto di tavole e travi, basso per tenere il calore e nero per il fumo, saliva la scala di legno per le stanze sovrastanti. Erano piccole, scure, con finestre minuscole che dagli spessi muri guardavano a mattina, verso il bosco.
La Grande Guerra non aveva distrutto del tutto questa contrada; non l’aveva rasa al suolo come le altre vicine. Stranamente era rimasta in piedi anche se era stata sotto il tiro di tutte le artiglierie, anche se era stata abbandonata, ripresa e ancora abbandonata da italiani e austroungarici. Forse perché qui c’erano degli ospedaletti da campo, come dimostravano i tre cimiteri dove erano stati sepolti quattrocento soldati italiani? Queste vecchie case erano state solo saccheggiate e incendiate: i muri erano sempre quelli da secoli, come anche le grosse travi di larice che il fuoco aveva solo carbonizzato in superficie.
Adesso, da una trentina d’anni, le sette porte della contrada si aprono solamente quando i cittadini salgono dalla pianura per fare vacanza. I discendenti di coloro che le avevano costruite con le pietre scavate dalle montagne e con i tronchi scelti nei nostri boschi, che le avevano riparate nel 1920, che qui avevano iniziato o terminato la loro vita, o che da qui erano partiti per luoghi lontani di lavoro, o per guerre, non ci sono piú. Non si accendono focolari ma si fanno le grigliate all’aperto bruciando salsicce sui barbecue nei fine di settimana. Gli orti sono diventati parcheggi. Anche la fontana non c’è piú: impediva la manovra alle automobili. Tutto è cambiato. È molto lontano quello che era vivo dentro questa casa, rimasta vuota di tutto e piena di silenzio. Qui era nato e vissuto fino ai vent’anni il mio compagno di banco.

2.

Il paese era ormai stato ricostruito, solamente qualche baracca restava qua e là; il nuovo municipio, tutto in blocchi di marmo rosa a vista, aspettava il principe Umberto di Savoia per essere inaugurato. Anche le sei nuove campane, posate sui tronchi davanti alle porte della chiesa, erano in attesa che il campanile venisse terminato per salire nella cella campanaria. Quando, finalmente, carpentieri e lattonieri finirono la cupola a cipolla, a inastare sulla cima la croce e la bandiera girevole per indicare la direzione del vento venne chiamato Gian Scarpa che a Chicago aveva lavorato sui grattacieli e non soffriva di vertigini. Dopo che Gian era salito fin lassú seguito dallo sguardo dei cittadini, si smontarono le strutture che avevano richiesto cosí tanto legname.
Le sei campane erano arrivate da Verona il 18 marzo del 1922, da quella stessa fonderia che le aveva fuse la prima volta nel 1820. Senza i batocchi pesavano complessivamente novantasette quintali e ci vollero due grossi autocarri per portarle quassú. Il Matío era la piú grande, anzi il piú grande, poi veniva la Maria, la Giovanna, il Toni, la Rita e il Modesto. Con il nome di questi santi erano state benedette e cosí erano chiamate ab antiquo, per nome, come persone della nostra comunità. Secondo la tradizione venivano suonate cosí: il Matío per il fuoco degli incendi, per allontanare i temporali, per chiamare a riunione il Consiglio comunale; la Maria per l’Angelus; il Toni da solo per il transitus degli uomini; la Giovanna da sola per il transitus delle donne e le due, insieme, a botti, per i funerali; tutte e sei, a distesa, suonavano nelle feste grandi, per i matrimoni e per la festa dei coscritti.
Si raccontava che poco lontano da dove era sorta la prima chiesa in tronchi, prima della Grande Guerra si potevano ancora vedere le buche dove le prime antichissime campane furono fuse. Il prete di allora, nel Trecento, aveva predicato che piú oro e argento le campane avessero contenuto, piú sonoro e armonioso ne sarebbe uscito il suono; cosí, il giorno della fusione, uomini e donne del paese gettarono nella lega incandescente gli anelli, gli orecchini e le collane. I nostri bisnonni raccontavano che quelle campane spandevano un suono chiaro e squillante come le allodole in primavera. Per conservarne lo spirito e la memoria le campane del prezioso bronzo vennero poi rifuse, alla presenza dei rappresentanti del popolo, in altre piú grandi nel 1820. Il concerto delle sei campane divenne famoso in tutto il Veneto e c’era gente che saliva dalla pianura per ascoltarlo.
Quel Matío suonò per l’ultima volta il mattino del 15 maggio 1916, alle sette, per dare avviso a tutti di lasciare le case: le grandi bombe austriache da 381 millimetri avevano incominciato la distruzione del paese. Quando nel 1919 i profughi ritornarono non esisteva piú nemmeno il campanile e delle campane furono raccolti pochi rottami per essere anche questi rifusi, solo come esile memoria, nelle nuove.
Per quasi sei anni restarono sul sagrato e Nino, Bruno, Mario, Bibi, Silvano, Rino, Rocco, Toni e tanti altri ragazzi quando giocavano attorno alla chiesa molte volte andavano a nascondersi lí sotto; nel giuoco qualche ragazzo le percuoteva con una verga di ferro per farle risuonare e costringere cosí ad uscire chi stava nascosto dentro.
Fu qualche giorno prima della festa patronale di San Matteo apostolo che vennero tirate sul campanile, e tirate è la parola giusta perché con argani, paranchi, carrucole e funi allestite dall’impresa dei fratelli Masain, tutto il paese si riuní per issarle come in un grande tiro alla fune. Anche i ragazzi delle scuole, attraverso gli insegnanti, furono invitati a partecipare. Le campane erano state preparate ai piedi del campanile; a una a una furono legate e innalzate con una lunghissima e grossa corda che ridiscendeva a terra attraverso l’armatura preparata nella cella campanaria. La lunga fila della gente partiva da sotto il campanile, passava davanti alla bottega degli Stern, risaliva per la strada del Mazzacavalli e arrivava fino al Croxebech.
Lentamente, a forza di braccia, il Matío si staccò da terra. Quando incominciò a dondolare nel vuoto immediatamente cessarono il vocio e gli incitamenti; solo due uomini dalla voce tonante davano gli ordini necessari mentre altri due gruppi, con corde laterali guidavano la salita. Il cuore di tutti era con il grande campanone sospeso nel vuoto. Fu il primo, poi via via salirono le altre.
Anche Giacomo, Nino e Mario erano lí a tirare con tutte le loro forze, stringendo i denti e le mani. Quando venne sera tutte e sei le campane furono lassú; di lí a qualche giorno avrebbero suonato a distesa per San Matteo patrono. Il padre di Mario diede ad ognuno dei tre ragazzi dieci centesimi e loro, di corsa, andarono dalla Betta del Toi a comperare tre mele succose e verdi per ristorarsi della fatica.

3.

Il 1928 era stato un anno particolarmente caldo e arso; mai, a memoria d’uomo, si erano da noi raggiunti i 39 gradi. Gli incendi dei boschi che la guerra aveva risparmiato ogni tanto spandevano sopra il paese il fumo acre degli alberi che bruciavano. La gente guardava sempre verso il cielo e da dove spirasse il vento, se magari una nuvola portasse refrigerio. Da mesi non crescevano funghi, ma nemmeno vespe, calabroni e farfalle volavano sopra gli orti dove, ormai, piú niente era verde. I faggi sulle rive a mezzogiorno erano diventati rossi come alla fine di ottobre, le betulle e gli aceri avevano le foglie rinsecchite; l’erba sui prati veniva prosciugata e mangiata dal sole. Il vento caldo, insistente, e le notti senza rugiada avevano portato a un letargo estivo simile e contrario al letargo invernale. Persino dove Dante Pasch aveva scavato un piccolo trogolo sopra un masso per abbeverare i silvidi, nella parte piú nascosta e ombrosa del bosco, non era rimasta una goccia d’acqua. Le pozze dove veniva raccolta l’acqua piovana per le bestie al pascolo, mostravano il fondo screpolato su cui restavano le impronte degli zoccoli. Le vacche avevano prosciugate le mammelle e ben poco latte scendeva nei secchi; di notte urlavano alle stelle e di giorno, nei posti piú ombrosi e un tempo umidi, cercavano qualcosa di verde da mettere nei rumini. Dalla pianura salivano i mercanti che con poche lire comperavano il bestiame da chi non aveva piú niente per alimentarlo. Nemmeno gli uccelli cantavano piú: la loro voce era un pigolio di lamento.
Anche l’acqua per gli uomini era scarsa, in certe contrade non ce n’era nemmeno per lavarsi il viso, persino dalle Gavelle, tre ore di strada a piedi, venivano con i cavalli e i carretti a prendere l’acqua della Kerla, alla Rendola, che mai non si era asciugata del tutto. Lí si faceva la fila per riempire ogni possibile recipiente. Da dove veniva quell’acqua misteriosa?
Fu impressionante e spettacolare l’incendio del Dubiello: le fiamme salivano per i costoni rocciosi bruciando come tede i larici secolari e strisciando come serpenti di fuoco lungo i fusti di pini mughi. Fu necessario richiedere l’intervento del Regio Esercito e due battaglioni del 57º Fanteria salirono da Vicenza. Tentarono di accerchiare il fuoco dal Basazenocio e dalla Busa del Molton, come in una manovra, ma quando le fiamme raggiunsero i Pianori dei Galli Cedroni e incontrarono le bombe inesplose del 1916, il colonnello ordinò di sospendere l’azione. Dopo qualche giorno l’incendio raggiunse la Strada del Principe Eugenio; finalmente, ma solo su quella montagna, provenendo dalla Valle del Portule, si scatenò un furioso temporale, con fulmini e grandine prima e acqua a secchie rovesciate dopo. Cosí l’incendio si spense.
Ma intanto si erano anche rinsecchite senza speranza di ripresa le migliaia di piantine di peccio messe per rimboschire dove erano passate le battaglie. A settembre fece pena la raccolta delle patate: dalla terra arida e sassosa si stentava a raccogliere la quantità seminata; ed erano tanto piccole: se non fosse stato che per l’inverno bisognava pure avere qualcosa da parte, non valeva la pena di raccoglierle.
Non c’erano lavori per gli uomini; il paese era stato ricostruito, per ultimo il municipio, e cosí, fin quando il terreno non gelò nel profondo e venne la neve, la gente, sfidando la legge, andava a recupero di bombe, cartucce, piombo, reticolati e di quant’altro si potesse vendere alla Ditta Briata. Chi poteva andava all’estero. Il sogno era l’America ma pochi avevano i soldi per pagarsi il viaggio fin laggiú; c’era chi vendeva le proprietà per farlo. I piú vogliosi andavano in Francia come primo passo per l’America: molti avevano fatto cosí trent’anni addietro.
E con l’inverno venne la fame. – Andate a dormire, – dicevano le madri ai bambini, – cosí non ci pensate.
Alle prime case del paese il podestà aveva fatto scrivere: NEL TERRITORIO DI QUESTO COMUNE È VIETATO L’ACCATTONAGGIO, ma ogni venerdí file di poveri, vecchie e bambini, venivano a bussare alle porte delle case del centro e si fermavano davanti ai negozi. Dopo una preghiera per i defunti di quella casa chiedevano la carità di un pugno di farina gialla, di un pezzo di pane o di una crosta di formaggio; con tanta premura ringraziavano: – Dio vi renda merito.
Nelle case, alla sera tutti si ritiravano molto presto e persino i filò nelle stalle si scioglievano prima del solito per risparmiare il lume. Fu all’inizio di quell’inverno di fame che donne e uomini con i carrettini a mano, dopo ore di strada sassosa venivano nella corte degli Stern per chiedere a credito un quintale di farina da polenta:
– In qualche maniera vi pagheremo, – dicevano.
– Abbiamo la casa piena di bambini.
E il signor Toni diceva ai figli o ai famigli: – Date a questa gente e segnate sul libro mastro.
Un freddo pomeriggio, era l’11 febbraio – a quell’estate caldissima e secca era seguito un freddissimo inverno! – le campane suonarono a distesa e la gente si domandava il motivo di tanta festa. Lo seppero il giorno dopo quando l’arciprete don Guido lo predicò alla prima messa e il podestà fece affiggere un avviso per i cittadini in cui si spiegava che lo Stato e la Chiesa si erano riconciliati. Mussolini e il cardinale Gasparri avevano firmato i patti. A scuola le maestre illustrarono il grande avvenimento.
Quando anche Giacomo ritornò a casa – aveva fame perché le due piccole patate e la tazza di latte del mattino erano state digerite da un pezzo – dopo aver mangiato un piatto di minestrone d’orzo con una fetta di polenta, raccontò alla madre e alla nonna quanto aveva spiegato la maestra Elisa: – Ora il Papa e il Duce si sono messi d’accordo; sono i due capi che stanno a Roma: uno comanda le anime e l’altro i corpi. Uno lo Stato e l’altro la Chiesa.
– E cosí, – disse la nonna che stava attenta, – è finita la storia del 20 settembre quando i settembrini del paese suonarono le campane per festeggiare la presa di Roma e monsignor Perbacco li denunciò.
– Come è questa storia,...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. «Stagioni», al plurale
  4. Come e perché è nato questo libro
  5. Le stagioni di Giacomo
  6. 1.
  7. 2.
  8. 3.
  9. 4.
  10. 5.
  11. 6.
  12. 7.
  13. 8.
  14. 9.
  15. 10.
  16. 11.
  17. 12.
  18. 13.
  19. 14.
  20. 15.
  21. 16.
  22. 17.
  23. 18.
  24. 19.
  25. 20.
  26. 21.
  27. 22.
  28. 23.
  29. 24.
  30. 25.
  31. 26.
  32. 27.
  33. 28.
  34. 29.
  35. 30.
  36. 31.
  37. 32.
  38. Cronologia della vita e delle opere. a cura di Giuseppe Mendicino
  39. Il libro
  40. L’autore
  41. Dello stesso autore
  42. Copyright