E Chiodi disse con forza sospirosa: – Partigiano è, sarà chiunque combatterà i fascisti –. Cocito lampeggiò uno sguardo circolare su tutti quelli che avevano istantaneamente accettata la definizione di Chiodi. Poi disse: – Ognuno di voi è infallantemente sicuro di riuscire un partigiano. Non dico un buon partigiano, perché partigiano, come poeta, è parola assoluta, rigettante ogni gradualità.
BEPPE FENOGLIO, Il partigiano Johnny.
Il mio primo incontro con Giulio Questi risale all’inizio degli anni Novanta, in una delle sue venute nella città natale, Bergamo. Voleva conoscermi perché – cosí mi era stato detto da un comune amico – aveva apprezzato un mio saggio, Un processo partigiano, pubblicato negli Atti di un convegno tenutosi nell’ottobre 1988 a Belluno (Guerra, guerra di liberazione, guerra civile, a cura di Massimo Legnani e Ferruccio Vendramini, Franco Angeli, Milano 1990): vi avevo ricostruito la vita e la morte di Angelo Del Bello «Mino», che aveva organizzato una banda partigiana fra le piú attive in bergamasca, tra la primavera e l’estate del 1944. Un combattente autentico, abile e coraggioso, ma allo stesso tempo ostinato, riottoso, incapace di accettare ordini: le sue azioni, ma anche la sua forte personalità finiscono per farlo diventare un mito fra la popolazione contadina della Val Seriana. Si muove in autonomia, Del Bello, costellando il suo cammino di sequestri, espropri, eliminazioni di fascisti e di spie. Giulio Questi fa parte della sua banda nei primi mesi dell’anno, affascinato, in un certo senso, dalla personalità strabordante di Mino, che è uno che la Resistenza la fa davvero:
La banda si sciolse all’inizio di primavera per difficoltà logistiche. Di lui seppi, nell’estate, che aveva reclutato nuovi uomini e che svolgeva un’attività che disturbava i comandi delle brigate sul territorio. Assistetti con terribile angoscia all’esecuzione a raffiche di Sten di suoi tre uomini in un’osteria di Valgoglio. Lo stesso giorno, in un’altra località, veniva ucciso Del Bello con altri tre uomini. Lo ricordavo con simpatia e con affetto. Era stato il mio comandante per alcune settimane. Un buon comandante (Testimonianza di Giulio Questi, raccolta il 10 settembre 2010 da Adele Gaia Ballini e pubblicata in Racconti di luce e d’inchiostro. Giulio Questi narratore, tesi di laurea, Università degli studi di Bergamo, Facoltà di Scienze umanistiche, a.a. 2009-2010, d’ora innanzi citata come Testimonianza GQ).
Quando ci incontrammo, di questo parlammo, principalmente: ricordo che rispetto alle osservazioni che avevo avanzato e scritto usò il termine «oneste». Mi sarei reso conto, con il tempo, che l’episodio di quella fucilazione aveva colpito nel profondo la personalità di Questi, aprendo probabilmente un perenne turbinio di domande sui significati reconditi della violenza, sul suo essere parte integrante e decisiva dell’animo umano.
Nei giorni che si trattenne a Bergamo, Giulio venne spesso nella sede dell’Istituto della Resistenza, con una curiosità e un’attenzione che – non ho alcun imbarazzo a riconoscerlo – mi rendevano orgoglioso. Volle sapere del nostro lavoro, di come eravamo organizzati, come facevamo a vivere economicamente («a tirare avanti», diceva), che rapporto avevamo con la città, con le associazioni partigiane, con la politica. Domande, e poi ancora domande. Capii allora che con Giulio non bisognava mai essere frettolosi, mai convinti di aver risposto a sufficienza.
Quando iniziò a interessarsi del nostro archivio, fu straordinario assistere con quanta cura prendeva in mano i documenti, come leggendoli gli tremasse un poco la mano per la commozione. Era un continuo riaffiorare di ricordi, di storie, probabilmente di volti e di voci, il riaffacciarsi di un mondo che era stato suo. Dicevo a me stesso che Questi era stato partigiano per tutti i venti mesi, cosa abbastanza rara nei curricula partigiani, frequentemente limitati a periodi di lotta molto piú brevi, e che già nel settembre-ottobre 1943 era stato arrestato dalla Feldgendarmerie tedesca di Bergamo:
Passai venti giorni nella loro prigione. Uscii senza danno dagli interrogatori, forse perché sapevo mentire e avevo l’aspetto di un ragazzino. Uscito di prigione andai in montagna secondo le indicazioni dell’organizzazione (Testimonianza GQ).
In montagna sarebbe rimasto fino ai giorni della Liberazione, dalla iniziale partecipazione alla banda di Aldo Battaggion a Zambla Alta fino alla discesa a Bergamo il 27 aprile, con la «Cacciatori delle Alpi», per «pulire» la città dai fascisti e dai tedeschi. Eppure – questo è un dato significativo della sua moralità – mai enfasi nel racconto, mai retorica o eccesso di compiacimento per quanto di positivo si possa aver compiuto: un cenno particolare al padre, che «aveva visto affermarsi il fascismo italiano da Parigi dove lavorava», e che gli avrebbe «aperto gli occhi», e a Bepi Signorelli, il secondo maestro, che lo introduce «nell’antifascismo operativo di Giustizia e Libertà».
Ogni tanto, in questa immersione nei ricordi partigiani, lasciava cadere un nome, accompagnandolo da una domanda quasi ossessiva: «C’è ancora?» La risposta era sufficiente, non aveva bisogno di altri commenti, sia da parte di chi la dava sia da parte di chi l’ascoltava: come avrei capito piú avanti, standogli vicino, Questi non ha mai avuto bisogno di esperienze – per quanto importanti – raccontategli da altri, e tanto meno di quella pluralità di voci che altri scrittori hanno adottato.
La memoria non è uno scaffale dove si trovano oggetti definiti e inanimati. È piuttosto una straordinaria pinacoteca di fantasmi che quando escono dai loro quadri e ti vengono incontro tu cerchi di dargli un volto. Ecco, direi che scrivere è dare un volto ai fantasmi. Voglio dire che memoria e fantasia sono la stessa cosa perché fatta di fantasia è la memoria. Non si tratta di due pedali differenti che puoi premere alternativamente a piacere. È chiaro poi che dove non c’è autobiografia non ci sono né memoria né fantasmi. Perciò mi è cara la frase di Marcel Proust: «La vera vita, la vita finalmente riscoperta e illuminata, la sola vita, dunque, pienamente vissuta, è la letteratura» (Testimonianza GQ).
Sempre in quei giorni cosí densi – erano allora ancora vivi molti suoi amici e compagni – trovò il tempo di chiedermi della rivista «Studi e ricerche di storia contemporanea», il semestrale dell’Istituto. Volle farsene un’idea approfondita, al di là di alcuni numeri che aveva avuto occasione di vedere. Anche qui fu preciso e circostanziato nel chiedere, mostrando un particolare interesse alle tipologie dei lettori. Rimase colpito quando seppe che circa duecentocinquanta copie erano inviate a istituti di ricerca, dipartimenti storici delle università, singoli studiosi; che «scambiavamo» la nostra rivista con una cinquantina di altre testate; che veniva inviata a tutti i soci dell’Istituto, oltre che agli abbonati. Capivo che riaffiorava, in alcuni momenti, il vecchio redattore de «La cittadella», il mitico periodico a cui Questi, con alcuni amici che venivano dalla Resistenza, aveva collaborato nel dopoguerra convulso e pieno di speranze. Lí pubblicò fra l’altro i suoi primi racconti, poi «ripudiati», come Le inarrivabili maschere, impietosamente definito «una vera e propria scivolata provocata da letture adolescenziali».
Quando passò a salutare, perché rientrava a Roma, dove ormai viveva stabilmente, mi assicurò che si sarebbe fatto vivo, che sarebbe rimasto in contatto con me e i collaboratori dell’Istituto, i «suoi nuovi amici». Nel tanto parlare che avevamo fatto, ovviamente gli avevo chiesto a cosa stesse lavorando, dopo aver ultimato per la Rai le cinque puntate de Il commissario Sarti, l’investigatore creato da Loriano Macchiavelli. Pensavo mi dicesse di qualche progetto legato al cinema o alla televisione, invece mi disse che stava riprendendo a scrivere, che l’uso del computer gli «rendeva il compito facile». Usandolo, quasi fosse un’esercitazione, provava «il sorprendente piacere di ritrovare un se stesso lontano», cosí mi disse.
Vincendo un certo imbarazzo a sollecitarlo, ad invitarlo a riprendere una pratica che aveva dato esiti felici, parlammo de La cassa, il bellissimo racconto che era piaciuto a Vittorini fino a pubblicarlo, nel 1947, su «Il Politecnico», e dei luoghi dove Questi lo aveva ambientato, con quella esplicita indicazione della Val di Vetro, in alta Val Brembana, e i trasparenti riferimenti al cimitero di Valgoglio, in Val Seriana. Insistetti molto sulla necessità, quasi sull’obbligo, di non disperdere una memoria preziosa, gli dissi che la rivista era a sua disposizione se voleva scriverci qualcosa. Aggiungevo, ormai senza piú pudore, che fra l’altro già nel numero 41, del giugno 1994, avevamo chiesto a Gian Carlo Pozzi, curatore con lui della pagina letteraria de «La cittadella», una recensione di Racconti innocenti, il libretto uscito in edizione privata, a Roma, nel dicembre 1991, che riuniva sei brevi ma notevoli bozzetti, con una tipologia tutt’altro che sobria di frange di popolo e di eccentrici «maledetti» della montagna.
Tre dei sei racconti erano di argomento propriamente resistenziale: La cassa, appunto, fortunosa traslazione di un partigiano caduto in uno scontro, dai monti al fondovalle per dargli una sepoltura «per bene»; Tre volontari, storia di tre giovani dai connotati caricaturali, che si arruolano in una brigata malmessa di forestieri senza bandiera né uniformi; Il roccolo, in cui un partigiano in missione chiede asilo per la notte a un cacciatore rintanato nella torre di un roccolo, un «maledetto» bergamasco che bestemmia orrendamente e gode a schiacciare il cranio ai piccoli volatili finiti nella rete. Saremmo stati felici, gli dissi senza piú remore, di dare spazio a testi analoghi.
Giulio fu di parola: di tanto in tanto telefonava, rispondeva ai messaggi che gli inviavo, informava che stava scrivendo. Anni dopo avrei letto, con gioia, queste sue parole:
Negli anni Novanta mi tornò prepotente il bisogno di non perdere la memoria della mia gioventú che si faceva sempre piú lontana. Ricominciai a scrivere della Resistenza e sorprendentemente la scrittura mi venne facile come non mai. Ricuperai tutto quello che potei. Provavo un bisogno impellente di memoria fondata su dirette emozioni personali (Testimonianza GQ).
Nei primi mesi del 1996, Giulio tornò a Bergamo. Portava con sé un dono, un breve intensissimo scritto, Il tuffo, che pubblicammo nel n. 45 (giugno 1996). Il racconto allude alla vicenda di Del Bello, D. B. nelle prime righe, e in particolare alla figura di Antonio Belvisi, detto «Pantelleria», cosí diverso dagli altri uomini della banda, valtellinesi e bergamaschi, «tutti nati tra quelle montagne»: «si era aggregato a loro, da un paio di mesi, uno sbandato della IV Armata in rotta dalla Francia, troppo lontana la sua isola, quasi in Africa, per tornare a casa». Il clamore di quella lontana vicenda è come sopito, e quanto accade non si affronta direttamente, ma vi si allude attraverso una visione affascinante, quasi magica:
Stavano tutti increduli a guardare. Da lassú un lungo giocoso ululato echeggiò e si moltiplicò rimbalzando contro le rocce. Il corpo si staccò a volo d’angelo dalla montagna. Per un tempo che agli uomini sembrò interminabile il Pantelleria scese per il cielo azzurro, andando a scomparire con un piccolo spruzzo nella nuvola bianca che si rifletteva nell’acqua.
La scena è dominata dal tuffo di Pantelleria, in una sorta di sospensione sia del tempo che dello spazio, percorsa solo da oscuri presentimenti. La tragedia si presenta alla fine, sorprendente e amara:
A novembre arrivò la gran mattanza. Tutti gli uomini di D. B. erano stati individuati e catturati. Vennero fucilati.
Già nella chiusa de Il roccolo, Questi aveva affrontato questo momento, angoscioso e terribile nel suo ricordo:
Arrivai a G. nel pomeriggio, sotto un cielo che si era rifatto plumbeo. Consegnai il messaggio sigillato al comando della brigata. Era un ordine di fucilazione. Tre ragazzi vennero disarmati e messi al muro. Intervenni di slancio, con una domanda di grazia. Venni messo al muro anch’io. Ritirai subito la domanda. Potei farmi da parte. I tre ragazzi caddero sotto i colpi degli Sten. Sí, Pietà era morta, da quelle parti.
La presa di possesso autobiografica, forse ancor di piú la rivisitazione del passato, è resa con uno stile e una lingua del tutto particolari, in piena autonomia narrativa e in assoluta libertà d’invenzione: il racconto si allontana dal puro ricordo delle cose viste, va al di là, in un certo senso, degli angusti confini della memoria, s’incarna in una vita propria. Il linguaggio richiama una poetica neorealistica (è evidente il debito con il primo Calvino), la trama è concreta, i fatti sembrano narrati con la scrupolosa aderenza della cronaca, la psicologia è di conio assai elementare, «con lo sguardo puntato su un mondo di vite umili, di anime primitive, di dannati senza scarpe e senza coscienza, un mondo ai margini dove i partigiani alla macchia hanno lo stesso ruolo dei “maledetti” della montagna, con groppi di velleità confuse» (G. C. Pozzi, Racconti innocenti cit.).
In queste due chiusure di racconti, la storia fa irruzione con forza, senza alcuna sbavatura, nell’opera letteraria, cosí come avviene in Uomini e comandanti, il secondo dei racconti che Questi mi diede perché venisse pubblicato sulla rivista (n. 47, giugno 1997). Siamo di fronte a uno dei momenti decisivi della Resistenza italiana, quando il generale Alexander impartisce le sue disastrose istruzioni ai patrioti italiani, in questo caso a «una raccolta dei peggiori arnesi, svaligiatori di tabaccherie e ladri di vitelli», «sbandati di zone lontanissime», confluiti in una «valle secondaria dal nome incerto (Valle del Bergamino Impiccato, ma anche del Prete Strozzato o della Ragazza Soffocata)».
A metà novembre scoppiò come un fulmine il proclama del Generale Alexander. Alcuni Comandi furono presi dal panico e dallo sconforto. Si annunciava un altro inverno. Mantenere tanti uomini sul territorio fu considerato impossibile. Molte brigate vennero smantellate, gli uomini invitati a tornarsene a casa o a nascondersi. Ci furono anche trattative di resa. Ci furono comandanti che si allontanarono di soppiatto, dopo aver balbettato un frettoloso e incerto appuntamento per il futuro. Corsero voci di tradimenti e di intese segrete col nemico. I pochi uomini rimasti giocarono «alla paglia piú corta» la propria sorte. Alcuni, allontanatisi dal loro territorio, si tramutarono in vagabondi armati e pericolosi, senza piú la legge della brigata a dettarne la morale.
Il racconto, dopo questo inizio cosí circostanziato, prosegue come se il «proclama» non provocasse alcuna conseguenza, come se la vita di quegli sbandati, ridotti a vagare per le montagne, non subisse alcun cambiamento. In realtà, come noi sappiamo, Questi non lasciò quelle montagne, nemmeno nel terribile «secondo inverno», legato tenacemente a quei luoghi che erano diventati ormai la sua seconda casa, di cui conosce ogni anfratto, ogni sentiero, ogni nascondiglio.
Il ricordo della montagna prende forma e fisionomia nell’invenzione letteraria, per assumere contorni fantastici, vorrei dire fiabeschi. Un’atemporalità indefinita di piccoli avvenimenti, su uno sfondo praticamente privo di fatti, dove nulla pare accadere, in una geografia incerta e indecisa. Cosí i luoghi, i paesi sono richiamati solo dalla lettera iniziale: solo il nostro arbitrio, che deriva dalla conoscenza dei luoghi dove Questi ha combattuto dal 1943 al 1945, può decidere che B., C., F. possono essere Branzi, Carona, Foppolo, ma solo l’azzardo potrebbe invogliarci a completare altri nomi di paesi, come G., Ch., S.
Se la geografia è indecisa, deformata, altrettanto avviene per i nomi dei diversi personaggi, mutuati spesso da quelli di battaglia (Tigre, Mosca, Tom,...