Non è ammissibile, hai detto, che mia madre pianga tutto il santo giorno. Non vi paghiamo perché stiano bene?, hai gridato. Andavi su e giú per la stanza brandendo il libretto degli assegni. La direttrice della casa di riposo, seduta dietro la scrivania, ti invitava a sederti con lo sguardo, senza nemmeno provare a fiatare. Ma tu la ignoravi, e quando alzavi la voce lei chiudeva gli occhi per difendersi con pazienza e con coraggio. È inammissibile, hai ribadito. Soprattutto considerando la cifra che ogni mese lasci per garantire a tua madre un istituto di cosiddetta eccellenza. Le tue urla erano cosí alte che la porta si è aperta e si è affacciata una guardia – un uomo calvo, corpulento e con il naso arrossato, la faccia di un buttafuori da discoteca – ma la direttrice gli ha fatto segno che andava tutto bene. Ti sei fermato per un istante, e quando l’uomo corpulento si è tirato dietro la porta hai ripreso da dove ti eri interrotto. È inammissibile che ogni volta che vengo a trovare mia madre, lei sia in uno stato – hai detto – di knock-out tecnico.
Ti sei infuriato ancora di piú quando la direttrice ha detto che tua madre non solo non era in uno stato di knock-out tecnico, per usare la tua discutibile espressione pugilistica, ma anzi era una delle piú dinamiche dell’istituto. Come fa a essere dinamica – le hai domandato utilizzando il suo discutibile aggettivo – una persona di novantadue anni, di oltre cento chili, che sta sdraiata in un letto e piange dal primo all’ultimo minuto che le stai accanto? La direttrice si è alzata, ha fatto il giro della scrivania, e ti ha raggiunto. Si è seduta di fianco a te, in quelle che nel lessico dell’istituto chiamano con malcelato disprezzo le «sedie dei parenti». Su quelle sedie si firma, si compilano gli assegni, si reclama, e si enumerano tutte le ragioni per cui è per il loro bene che si depositano lí i vecchi genitori. Le assicuro, ti ha spiegato con una voce e uno sguardo di consumata morbidezza, che sua madre in sua assenza è una donna molto dinamica.
Cosí ti sei lasciato convincere, e la settimana dopo hai fatto quello che la direttrice ti chiedeva: sei andato senza preannunciare la tua visita. La direttrice ti ha accolto nel suo ufficio. Adesso le farò vedere – ti ha detto con un sorriso sardonico – il knock-out tecnico di sua madre. Avete fatto tre piani di scale – tutti gli infermieri la salutavano ostentando la parola «direttore» – e ti ha condotto davanti alla porta semichiusa di una stanza. Quindi ti ha invitato a guardare. Dal taglio dello stipite hai visto tua madre, in tutta la sua enormità, che intratteneva un gruppo di altri ospiti con vecchie canzoni licenziose. Lei cantava e alcuni di loro le andavano dietro, altri battevano il tempo. Ridevano tutti. Tu, con l’occhio nella fessura, ti sei tirato indietro, e non hai piú detto niente. Hai ringraziato, hai sceso le scale insieme alla direttrice, le hai stretto la mano. Dopo sei entrato in macchina. Erano anni che non bestemmiavi piú.
Sono stati tutta la notte chini sopra il tuo letto d’ospedale, tre per lato e tuo marito che camminava per la stanza. Per tutta la notte ti hanno guardata respirare, la tua pancia che saliva e che scendeva con fatica coperta soltanto dal lenzuolo. A turno hanno controllato la frequenza del respiro, contandone le andate, mentre tua madre, piú esperta di tutti loro in questo genere di cose, ti diceva sottovoce di soffiare forte fuori. Ma tu non reagivi in nessun modo. Te ne stavi quasi immobile, su quel letto di metallo, le gambe divaricate, i capelli sudati sulla fronte e scomposti sul cuscino. E il tuo respiro batteva il tempo per tutti, e cosí loro inspiravano ed espiravano tutti insieme – qualcuno tossiva, e poi chiedeva scusa –, la stanza che di colpo diventava una cassa toracica con vista sul giardino.
Ogni tanto un infermiere sporgeva la testa nella penombra, si avvicinava al letto e controllava a quante gocce scendeva il tuo dolore estremo. Quindi senza dire niente se ne andava via. Lo accompagnavano tutti con lo sguardo – ogni tanto qualcuno provava ad alzarsi per seguirlo, ma poi restava giú – e tornavano a chinarsi sul tuo letto, tre per lato, tuo marito alla finestra, e tua madre che continuava a dirti di soffiare. Vicino a te c’era un letto vuoto, e tuo nipote si è scusato perché non era il momento, ma ha chiesto se poteva dormire qualche ora. Si è tolto le scarpe ed è salito su, con i suoi tredici anni e i jeans consumati sul ginocchio. Si è addormentato in un attimo, su quell’altro letto di metallo, e il suo fiato si è subito accordato a quello degli altri, e al tuo che te ne stavi andando.
Di colpo hai cominciato a respirare forte, strattonavi con tale violenza che il letto cigolava sopra il pavimento. Tuo marito dalla finestra è tornato e si è fermato in piedi accanto a te – ti ha soffiato appena sulla fronte – mentre tua madre diceva piano, come una preghiera, «Tu sei la mia bambina». Fuori intanto ha albeggiato, e tuo nipote si è girato su un fianco, dando le spalle agli altri, con il portafoglio che gli usciva dalla tasca per metà. È stato in quel momento che tu hai preso la rincorsa, e hai soffiato con tutta la forza che avevi, gli occhi semichiusi, il sudore che ti scendeva a gocce sulla fronte, le gambe quasi spalancate. Tuo marito, che ha capito, ti ha guardato con dolcezza e dopo ha chiuso gli occhi e si è piegato su di te. Mentre lí, davanti a tutti, veniva alla luce, senza un vagito, senza neppure un lamento, il tuo ultimo respiro.
Ci sono bambini che scoprono l’esistenza del padre il primo giorno di scuola. Fino a quel giorno il mondo è fatto di due, e anche in due funziona bene. La sveglia è la madre che passa la mano sul viso, ed è la madre che tutti i giorni monta il mondo perché il bambino ci possa stare dentro: incastra ogni pezzo in un altro perché lui possa stare in piedi da solo. Ci sono giorni in cui la madre sembra non trovare piú le istruzioni, ed è evidente la fatica che fa. Le si increspa il sorriso. Alle mandibole le spuntano due palline di rabbia. Qualche volta scoppia a piangere. Il bambino lo sa e si dispiace per lei, ma non pensa nemmeno per un istante che alla madre manchi qualcosa, e che costruire il mondo da sola è piú difficile perché c’è sempre un pezzo che manca. Il bambino non ci pensa, e aspetta la sera, quando la madre smonta il mondo pezzo per pezzo, lo rimette nella scatola e spegne la luce.
Poi arriva il primo giorno di scuola. Il bambino si è preparato da tempo, e con la madre ha comprato matite, fogli e colori. La mattina del primo giorno di scuola la madre prende la scatola e gli monta una passerella d’onore. Dove la passerella finisce, lí comincia la scuola. La madre lo aspetterà sulla passerella, dove il bambino potrà camminare al contrario all’uscita. Quando il bambino esce, però, non trova soltanto la madre ma anche dei padri che aspettano i suoi compagni di classe. È in quel momento che il bambino guarda la madre, ed è in quel momento che la madre lo guarda con degli occhi che avrà quel giorno soltanto: da quegli occhi il bambino capisce che dentro la sua scatola c’era un pezzo di meno, anche se sua madre è stata bravissima a fare stare in piedi il mondo lo stesso. È cosí che, di colpo, il bambino conosce la nostalgia delle cose che non sono mai state.
A quel bambino – e quel bambino sei tu – viene una malinconia sulla faccia che è come un vetro sporco di pioggia. Anche se continui a sapere che la passerella è sempre pronta ed è lí che ti aspetta per portarti con sé. Fino a quando un giorno, all’uscita di scuola, il padre di un tuo compagno ti prende in braccio per qualche minuto – senza nessuna ragione –, e tu gli appoggi la testa sopra la spalla. E quando tua madre ti vede, si accorge che la stai guardando con degli occhi che avrai quel giorno soltanto. E pensa a quando si trova una cosa – una spilla, un portafortuna, una chiave – dentro pantaloni mai piú indossati. Guardandoti in braccio a quell’uomo, sente quella stessa sorpresa. Soprattutto sente la malinconia di quando ci si rende conto che si è smesso di cercare una cosa, di quando ci si accorge che tra le tante cose imparate, si è imparato a vivere senza.
L’importante è calcolare la distanza giusta. A dirlo oggi sembra semplice – ora sei diventato infallibile, nel congegnare le menzogne come colpi perfetti – ma ci sono voluti sei mesi per individuare il punto esatto. La caramella va scartata e appoggiata sulla lingua a un chilometro e mezzo da casa: al curvone del centro commerciale, subito dopo il cavalcavia. Se sei a piedi è sufficiente molto di meno, basta cominciare a succhiare dalla ferrovia. Sai bene ciò che devi fare: rubare l’anima alla caramella, avvilupparla con la lingua, sormontarla come una valanga, travolgerla, e infine est...