Nera schiena del tempo
eBook - ePub

Nera schiena del tempo

  1. 312 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
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Nera schiena del tempo

Informazioni su questo libro

E cosí, con la sua inesauribile capacità affabulatoria e con il suo stile unico e raffinatissimo, ci racconta di vecchi libri che si fanno scoprire quasi intenzionalmente, degli autori di quei libri, dei libri che lui stesso ha scritto; ma non solo: di scrittori e critici come Francisco Rico, del suo amico e maestro Juan Benet, di John Gawsworth, ma anche di Francisco Franco, del fratellino Julianín morto a tre anni, di sua madre, dell'eredità del titolo di re dell'isola di Redonda...E la voce di Marías è qui piú sorprendente che mai, come se fosse «una voce capricciosa e imprevedibile ma che tutti conosciamo, la voce del tempo quando ancora non è passato né si è perduto e forse per questo neppure è tempo, forse lo è soltanto quello che è trascorso e può essere raccontato o cosí sembra, e che per questo è l'unico ambiguo».

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Informazioni

Editore
EINAUDI
Anno
2014
Print ISBN
9788806167998
eBook ISBN
9788858413029

Javier Marías

Nera schiena del tempo

Traduzione di Glauco Felici

Einaudi

Per mia madre Lolita
che mi conosceva,
in memoriam;
e per mio fratello Julianín
che non ha potuto conoscermi,
e perciò senza memoria.

Credo di non aver confuso ancora mai la finzione con la realtà, anche se le ho mescolate in piú di una circostanza come tutti quanti, non soltanto i romanzieri, non soltanto gli scrittori ma coloro che hanno raccontato qualcosa da quando è cominciato il nostro tempo conosciuto, e in questo tempo conosciuto nessuno ha fatto altro che raccontare e raccontare, o preparare e meditare il suo racconto, o ordirlo. Quindi, qualcuno racconta un aneddoto su quanto gli è successo e per il semplice fatto di raccontarlo lo sta già deformando o forzando, la lingua non può riprodurre i fatti e quindi non dovrebbe neppure tentare di farlo, ed ecco perciò che in alcuni processi, immagino – in quelli dei film, che sono quelli che conosco meglio –, si chiede a coloro che sono coinvolti una ricostruzione materiale o fisica dell’accaduto, si chiede di ripetere i gesti, i movimenti, i passi avvelenati che hanno percorso o come hanno pugnalato per diventare colpevoli, e di impugnare ancora una volta l’arma e di assestare il colpo a chi ha cessato di essere e non è piú per causa loro, o in aria, perché non è sufficiente che lo dicano o lo raccontino con la massima precisione e con la massima imparzialità, bisogna vederlo e si richiede loro una imitazione, una rappresentazione o messa in scena, anche se adesso senza il pugnale in mano o senza il corpo in cui infiggerlo – sacco di farina, sacco di carne –, adesso a freddo e senza aggiungere un altro delitto né una nuova vittima, adesso soltanto come simulazione e ricordo, perché quello che non possono mai riprodurre è il tempo passato o perduto né resuscitare il morto che ormai è passato e si è perduto in quel tempo.
Ciò indica una insicurezza estrema della parola, tra l’altro perché la parola – compresa quella parlata, compresa la piú rozza – è in se stessa metaforica e pertanto imprecisa, e inoltre non la si concepisce priva di ornamento, spesso involontario, ce n’è perfino nell’esposizione piú arida e di solito ce n’è nell’esclamazione e nell’insulto. È sufficiente che qualcuno introduca un «come se» nel suo racconto; addirittura, è sufficiente che faccia una similitudine o una comparazione o parli in maniera figurata («è diventato una furia» o «si è comportato da cafone», questo genere di espressione colloquiale che appartiene piú alla lingua che a colui che parla e la sceglie, non serve di piú) perché la finzione si insinui nella narrazione dell’accaduto e lo alteri e lo falsi. In realtà la vecchia aspirazione di ogni cronista o sopravvissuto, riferire l’accaduto, dare conto di quel che avvenne, lasciare traccia dei fatti e dei delitti e delle gesta, è una pura illusione o chimera, o meglio la frase stessa, quel concetto stesso, sono già metaforici e fanno parte della finzione. «Riferire l’accaduto» è inconcepibile e vano, o piuttosto è possibile soltanto come invenzione. Anche l’idea di testimonianza è vana e non c’è testimone che possa in verità assolvere il proprio impegno. E oltretutto ognuno dimentica sempre troppi istanti, perfino ore o giorni e mesi e anni, e la cicatrice di una coscia che vide e baciò ogni giorno per lungo tempo del suo tempo conosciuto e perduto. Dimentica anni interi, e non necessariamente i piú insignificanti.
E tuttavia mi allineerò qui con quelli che hanno preteso di farlo qualche volta o hanno finto di esserci riusciti, riferirò quel che è accaduto o quel che è stato riscontrato o soltanto saputo – l’accaduto nella mia esperienza, o nella mia fabulazione, o nella mia conoscenza, o tutto è soltanto coscienza che non cessa mai – come legame con la scrittura e con la divulgazione di un romanzo, di un’opera di finzione. Non è certo cosa grande né ancora grave e neppure eccitante, forse potrà essere divertente per il lettore curioso disposto ad accompagnarmi in principio, per me ha il divertimento del rischio di raccontare senza motivo e quasi senza ordine e senza tracciare un piano e senza ricercare coerenza, come se lo facessi con una voce capricciosa e imprevedibile ma che tutti conosciamo, la voce del tempo quando ancora non è passato né si è perduto e forse per questo neppure è tempo, forse lo è soltanto quello che è trascorso e può essere raccontato o cosí sembra, e che per questo è l’unico ambiguo. Credo che quella voce che sentiamo sia sempre fittizia, forse lo sarà qui la mia.
Non sono il primo e non sarò l’ultimo scrittore la cui vita si arricchisce o si danna o soltanto varia a causa di quel che ha immaginato o fabulato e scritto e pubblicato. A differenza di quanto succede nei veri romanzi di finzione, gli elementi di questo racconto che comincio adesso sono del tutto casuali e irragionevoli, puramente episodici e accumulativi – tutti impertinenti secondo la puerile formula critica, o nessuno avrebbe bisogno dell’altro –, perché in fondo non è un autore a guidarli anche se sono io a raccontarli, non corrispondono a nessun progetto e non sono governati da nessuna bussola, la maggior parte proviene da fuori e sono privi di intenzionalità; quindi, non devono necessariamente dare luogo a un senso né costituiscono un argomento o una trama né obbediscono a un’occulta armonia e non soltanto non se ne deve ricavare una lezione – neppure dai veri romanzi si dovrebbe pretendere una cosa simile, e soprattutto non dovrebbero pretenderlo essi –, ma neppure una storia con il suo principio e con la sua attesa e il suo silenzio finale. Non credo che tutto questo sia una storia, anche se posso sbagliare dal momento che non conosco la fine. Il principio di questo racconto, lo so, è al di fuori di esso, nel romanzo che ho scritto tempo fa, o anche prima e allora è piú diffuso, nei due anni che ho trascorso nella città di Oxford insegnando come un impostore dilettevoli materie abbastanza inutili nella sua università e assistendo allo scorrere di quel tempo convenuto. La sua fine sarà a sua volta al di fuori, e di sicuro coinciderà con la mia, tra qualche anno, o cosí mi aspetto.
O può darsi che mi sopravviva quella fine come ci sopravvive quasi tutto ciò che emaniamo o ci accompagna o causiamo, duriamo meno delle nostre intenzioni. Lasciamo troppe cose messe in movimento e la loro inerzia cosí debole ci sopravvive: le parole che ci sostituiscono e che talvolta qualcuno ricorda o trasmette, non sempre confessandone la provenienza; le lettere levigate e le fotografie incurvate e le note lasciate su una carta gialla a colei che va a dormire sola dopo gli abbracci desti, perché ce ne andiamo di notte come miserabili di passaggio; gli oggetti e i mobili che sono stati al nostro servizio e con i quali siamo stati in contatto – una sedia rotta, una penna, una scena indiana, un soldatino di piombo, un pettine –, i libri che abbiamo scritto ma anche quelli che abbiamo soltanto comprato e che una volta abbiamo letto o che sono rimasti rinchiusi fino alla fine nel loro scaffale e proseguiranno rassegnati in un altro posto la loro vita di attesa in attesa di altri occhi piú avidi o tranquilli; i vestiti che rimarranno appesi tra la naftalina perché forse qualcuno addolorato si impegnerà a conservarli – anche se non so se c’è la naftalina, le stoffe scolorando e illanguidendo e senz’aria, dimenticando ogni giorno di piú le forme che davano loro un senso, e l’odore di quei volumi –; le canzoni che si continueranno a cantare quando noi non le canteremo né le canticchieremo né le ascolteremo, le strade che ci accolgono come se fossero interminabili corridoi e dimore che non badano ai loro inquilini effimeri e commutabili; i passi che non si possono riprodurre e non lasciano traccia sull’asfalto e sulla terra si cancellano, o no, quei passi non rimangono ma vengono via con noi o anche prima, con la loro innocuità o con il loro veleno; e le medicine, la nostra grafia frettolosa, le foto amate che teniamo in vista e che non ci guardano piú, il cuscino e la nostra giacca appoggiata su una spalliera; un casco coloniale venuto da Tunisi negli anni trenta a bordo della nave Ciudad de Cádiz ed è di mio padre e ancora conserva il soggolo, e quel servitore indú di legno dipinto che ho appena portato a casa con una certa esitazione, a sua volta durerà piú di me quella figura, probabilmente. E le narrazioni che abbiamo inventate, di cui si approprieranno gli altri, o parleranno della nostra passata esistenza perduta e mai conosciuta facendoci cosí diventare fittizi. Persino i nostri gesti li continuerà a fare qualcuno che li ha ereditati o li ha visti e senza volere è stato mimetico o li ripete di proposito per invocarci e per creare una curiosa illusione di momentanea vita vicaria nostra; e forse si conserverà isolato in un’altra persona qualcuno dei nostri tratti che avremo trasmesso involontariamente, con civetteria o come maledizione incosciente, perché i tratti portano a volte la buona ventura o disgrazie, gli occhi orientaleggianti e le labbra come se fossero dipinte – «bocca a pizzo, bocca a pizzo» –; o il mento quasi separato, le mani larghe e nella sinistra una sigaretta, non lascerò nessun tratto a nessuno. Perdiamo tutto perché tutto rimane, tranne noi. Per questo ogni forma di posterità forse è un oltraggio, e magari lo è anche allora ogni ricordo.

Io commetterò qui diversi oltraggi perché parlerò, tra le altre cose, di alcuni morti reali che non ho conosciuto, e quindi sarà una forma inattesa e lontana di posterità per loro. O in altre parole, sarò loro memoria senza averli visti e senza che abbiano potuto prevedermi nel loro tempo ormai perduto, sarò il loro fantasma. La maggior parte di loro non ha mai neppure messo piede nel mio paese né ha conosciuto la mia lingua, ma uno di loro sí, anche se della sua morte non ho invece riscontri, Hugh Oloff de Wet, che era a Madrid l’anno in cui sono nato io a Madrid e molto prima era stato sul punto di morire qui fucilato. Qui aveva anche ucciso, come in altri luoghi, prima e dopo. E ce n’è un altro che è nato invece nella mia stessa casa, credo nello stesso letto in cui sono nato io, e io molto piú tardi.
Si dice sempre che dietro ogni romanzo c’è una sequenza di vita o di realtà dell’autore, per quanto possa essere pallida o tenue e intermittente, o anche se è trasfigurata. Lo si dice come se si dubitasse della fantasia e dell’inventiva, e anche come se il lettore o i critici avessero bisogno di un appiglio per non essere vittime di una strana vertigine, quella di ciò che è assolutamente inventato o privo di esperienza e fondamento, e non volessero provare l’orrore di ciò che sembra esistere finché lo leggiamo – a volte respira e sussurra e addirittura convince – e che pure non è mai stato, o la ridicolaggine estrema di prendere sul serio quel che è soltanto una raffigurazione, si lotta contro la stringente coscienza che leggere romanzi è qualcosa di puerile, o quanto meno di inadatto alla vita adulta che cresce in noi sempre piú.
Tra tutti i miei romanzi ce n’è uno che ha consentito ai suoi lettori questa consolazione o questo alibi in misura maggiore degli altri, e non soltanto questo, ma ha anche invitato a sospettare che quanto vi si narrava avesse una corrispondenza nella mia vita stessa, anche se io non so se questa a sua volta è o no parte della realtà, forse non lo sarebbe se la raccontassi e qualcosa ne sto già raccontando. In ogni caso, quel romanzo intitolato Tutte le anime si è prestato anche alla quasi assoluta identificazione tra il narratore che non ha nome e l’autore che lo ha, Javier Marías, lo stesso di questo racconto, in cui invece narratore e autore coincidiamo e perciò non so se siamo uno o se siamo due, almeno finché scrivo.
Tutte le anime fu pubblicato da una casa editrice il cui nome è meglio non ricordare nel marzo o aprile del 1989, ormai otto anni fa (reca la data del marzo, ma lo presentò generosamente Eduardo Mendoza a Madrid, al Chicote, il 7 aprile, giorno molto annotato per altri motivi), e bastava guardare il risvolto della prima edizione, con esigue notizie biografiche sull’autore, per sapere che avevo insegnato all’università di Oxford per due corsi, tra il 1983 e il 1985, allo stesso modo del narratore spagnolo del libro, anche se qui non venivano fornite delle date. Ed è vero che quel narratore occupa lo stesso posto che ho occupato io nella mia vita o storia di cui conservo ricordo, ma questo, come molti altri elementi di questo e di altri romanzi miei, era soltanto quel che sono solito chiamare un prestito dell’autore al personaggio. Poco di quel che si narra nel libro coincide con quanto ho vissuto o saputo a Oxford, o soltanto con la parte piú marginale e che non modifica i fatti: l’ambiente smorto della città riservata o schiva e dei suoi professori atemporali che s’ingannano cosí tanto sul loro da fare e cosí poco sul loro destino (il loro spirito sempre usufruttuario); le buie e minuziose librerie di libri vecchi che visitavo con i guanti infilati e con lo sguardo all’erta, speranza dei librai che si avverava; i mendicanti assorti o torvi che popolano le vie al calar della sera e le percorrono sprofondati in qualche offesa remota o immaginaria, senza avere mai destinazione né meta né scusa; gli scampanii frenetici delle chiese vicine e sempre vuote di St Giles e St Aloysius che continuano a richiamare imperterrite i fedeli di altri secoli piú creduli, anime che ormai non esistono piú ma che forse per esse non sono morte; e la derelitta stazione di Didcot nella sua notte giallastra di lampioni languidi che sembravano sul punto di prendere congedo con ogni batter di palpebre della loro rassegnata ed esausta insonnia: lí una ragazza bionda con l’impermeabile e una collana di perle che fumava e segnava con i suoi piedi inglesi con le fibbie e i tacchi bassi il ritmo di una musica mandata a mente che nessuno piú ascoltava su quella banchina da attardati notturni; e la luce del giorno sospesa per ore nella primavera faceva sí che si arrestasse il cielo macilento, o perseverasse; o una fioraia dall’aria da zingara che si piazzava davanti casa mia la domenica mattina con il giubbotto nero di pelle e gli stivali alti e i lunghi capelli che sembravano di gomma nera e che io ho chiamato Jane nel mio libro e il cui nome nella vita era Anne, Anne Joseph e viveva nella vicina Reading dal famoso carcere sposata con Mr Hyde, Anne Joseph Hyde di diciannove anni, anche se pioveva o nevicava o il vento sferzava i suoi fiori modesti avvolti nella stagnola e doveva tirare su la lampo fino in alto abbassando il mento, e adesso deve avere trentuno anni, se è ancora lí, o nella città di Reading con Hyde; o il vecchissimo e minuto portiere dallo sguardo diafano che diceva buongiorno dalla sua guardiola della Tayloriana, dove lavoravo e tenevo le mie lezioni, che ho chiamato Will nel libro e con il quale ho parlato spesso lí ma mai nella vita, in cui si chiamava Tom, mai niente di piú del saluto allegro e adesso ho saputo che Tom è morto e cosí sono morti tutt’e due, Tom e Will; ed è curioso aver conosciuto di piú il portiere Will che non è mai esistito o non in carne e ossa, e compiangere di piú la sua morte raffigurata con carta e inchiostro – ma non è stata nemmeno scritta, perché alla fine di quel romanzo dico precisamente: «Vive Will, il portiere anziano» – che non quella del vero Tom il cui nome vero non era neppure Tom ma Walter come vedo adesso in una lettera da lui scritta il 5 giugno 1984, quando io ero lí e lo incontravo a volte con i suoi occhi meravigliati e celesti e con la mano cordiale sollevata, nel suo posto onorario alla Tayloriana che era ormai soltanto un prestito: gli permettevano di occupare la guardiola per un po’ in modo che si sentisse utile e non perdesse il filo della continuità, in modo che giocasse a essere ancora portiere, nella vecchiaia come nell’infanzia si è ingannati e si gioca con noi, e ci si nascondono le cose, o questo succede a tutte le età. E in quella lettera firma cosí, «Walter Thomas», e tra parentesi «(Tom)», nel caso che il professore a cui si rivolgeva non lo avesse riconosciuto con nome e cognome reali, di solito i padroni ignorano i cognomi di coloro che li servono, o di coloro che solo stanno e aspettano come nel verso di Milton. Tom scrive senza virgole e con una grafia abbastanza ferma e molto leggibile per la sua età, e dice che sono sessantatre anni che presta servizio a Oxford e che per questo motivo ha partecipato di recente a tre conversazioni radiofoniche del mattino in una emittente locale e un anno prima a un programma televisivo intitolato Ritorno a Oxford («molti professori si sono mostrati assai compiaciuti hanno detto che sono venuto proprio bene»). «Ormai sto diventando un po’ vecchio 93», aggiunge, e spiega come dopo aver prestato servizio per tre anni nella vecchia aeronautica, il Royal Flying Corps della Prima Guerra Mondiale, era stato portiere al Queen’s College e poi ad All Souls per piú tempo, appunto ad All Souls o Tutte le Anime (e io non l’ho saputo fino a questo momento) nella sua traduzione letterale e imprecisa, da dove è andato in pensione compiuti i settanta. Nomina Sir Arthur Bryant, al quale aveva prestato servizio a Queen’s e che gli diceva sempre che doveva scrivere un libro. «Adesso è morto», dice dello storico che di sicuro non si sarà mai preso il disturbo di scriverne la storia, «ma era un uomo per il quale era molto piacevole lavorare», osserva con la docilità di chi è sempre stato un servitore e si è forse sentito commutabile e secondario per quello, meno che un testimone. «Buona fortuna professore», cosí si accomiata Tom, che il destinatario della lettera resa pubblica chiama «l’uomo piú servizievole d’Europa». «Buona fortuna professore», cosí si accomiata anche da me, perciò, il portiere Will mansueto e contento che ho inventato o fabulato e che mi assegnava nomi diversi nel suo continuo viaggiare per il tempo – Dr Magill e Dr Myer e Mr Brome, e Dr Ashmore-Jones e Mr Renner e Dr Nott, e Mr Trevor e anche Mr Branshaw –, perché non c’è nulla di quello che so adesso di Tom che contraddica o neghi il mio Will di finzione, che trascorreva ogni giorno credendosi in un anno diverso della sua lenta vita e perciò per lui tutto il tempo era presente o ritorno e nulla era tempo passato o perduto che non si può piú riprodurre. E lui lo riproduceva senza la sua volontà e quindi aveva la fortuna che nessuno gli risultasse ambiguo. Chissà in quale anno vivo dei suoi percorsi lo colse la morte, in quale momento giovane o maturo o vecchio della sua lunga esistenza credette di accomiatarsi, in quale giorno infelice o allegro. Forse quel giorno in cui arrestò il suo corpo fragile era ancora viva per Will la moglie che lo aveva preceduto nel tempo reale, nel tempo nostro che lui aveva abbandonato, e credette di lasciare vedova colei della quale lui era stato vedovo per tanti anni. Della morte di Tom mi raccontò il nipote John, anch’egli portiere della Tayloriana senza dubbio per eredità, anche se quella eredità non comprendeva l’aspetto: un uomo corpulento e alto con i capelli separati al centro e dei baffi aggressivi come un boxeur d’altri tempi, all’apparenza tollerante con le debolezze altrui ma con troppo umore dubbioso, come dirò piú avanti. Poco tempo fa lo hanno licenziato, suo zio Tom si sarà risparmiato quel dispiacere.
Images
Insomma, soltanto la scena era reale e neppure tanto, era una Oxford vista di sghembo, una copia tracciata nella mia prospettiva immaginaria o falsa, lo stesso punto di vista fabulatore di chi trascorre una sola notte in un albergo leggendario che non registra la sua presenza insignificante e fantasiosa accanto ai personaggi celebri che pernottarono o presero alloggio lí, o forse si uccisero o furono uccisi per nobilitarlo e per chiudere una camera in cui ormai metteranno piede soltanto i turisti. Ho detto soltanto quel che è accessorio, mentre è cosí difficile sapere che cosa risulterà accessorio o fondamentale quando saranno conclusi il nostro libro o la nostra storia o vita e saranno tempo conosciuto o passato che ormai non può piú riprodursi. O forse lo può il libro, ogni volta che viene letto: ma no, ogni lettura lo altera, e invece nessuna lo riscrive.
E anche era reale quello che a molti lettori sembrò piú romanzesco e fittizio, pura invenzione al modo di Kipling, pura favola mia, la storia allora raccontata a tentoni dello sventurato e infelice e gioviale scrittore John Gawsworth, l’incredibile re di Redonda che non vide mai il suo regno ma lo vendette diverse volte e si fece chiamare Juan I, e il cui vero nome era a sua volta un altro, Terence Ian Fytton Armstrong, del quale ho inserito e ho descritto nel romanzo due fotografie che adesso torno a mettere qui come memoria per quelli che l’hanno letto e come conoscenza immediata per coloro che no e dovranno familiarizzare con il su...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Nera schiena del tempo
  3. Il libro
  4. L’autore
  5. Dello stesso autore
  6. Copyright