L'adolescente (Einaudi)
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L'adolescente (Einaudi)

Prefazione di Angelo Maria Ripellino

  1. 576 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
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L'adolescente (Einaudi)

Prefazione di Angelo Maria Ripellino

Informazioni su questo libro

«Sin dalle prime pagine si ha l'impressione di essere entrati nel vivo di una "cronaca di famiglia", ma di una cronaca estremamente diversa da quelle pacate e armoniose di Tolstoj. Alla dignità idealizzata, alla saldezza morale delle stirpi tolstojane, Dostoevskij oppone l'immagine d'una famiglia sconnessa, sdrucita, in rovina. E, ispirandosi alle rubriche dei giornali, nelle vicende di questa famiglia rispecchia gli intrighi di una società avida e iniqua, che per la brama di denaro non esita a far comunella con spavaldi avventurieri.
Confessione autobiografica di un giovane ventenne, L'adolescente si snoda in una vertiginosa sequenza di fatti, in un turbine di avvenimenti ancor piú intensi e assurdi che quelli dei Demoni. Come sempre in Dostoevskij, una minuziosa ricerca interiore sottende lo sviluppo esterno degli avvenimenti. In accese tirate, in monologhi, in controversie drammatiche, egli rende il travaglio, le continue oscillazioni psicologiche dei personaggi».
Angelo Maria Ripellino

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Informazioni

Editore
EINAUDI
Anno
2013
Print ISBN
9788806235222
eBook ISBN
9788858411872

L’adolescente

Parte prima

CAPITOLO PRIMO

I.
Spinto da un impulso irresistibile, mi misi a scrivere questa storia dei miei primi passi sul cammino della vita; anche se, in fondo, avrei potuto farne a meno. Una sola cosa so di sicuro: mai piú mi metterò a scrivere la mia autobiografia, anche se dovessi vivere fino a cent’anni. Bisogna essere troppo volgarmente innamorati della propria persona per scrivere senza ritegno di se stessi. L’unico argomento che possa addurre a mia discolpa è che non scrivo allo scopo per cui scrivono tutti gli altri, non scrivo cioè per avere elogi dal lettore. Se cosí, all’improvviso, mi venne l’idea di scrivere parola per parola tutto ciò che m’accadde l’anno scorso, fu per un mio intimo bisogno, tanto fui colpito da quel che avvenne. Narrerò soltanto gli avvenimenti, evitando con ogni sforzo tutto ciò ch’è superfluo, e anzitutto evitando ogni fronzolo letterario; il letterato scrive per trent’anni e infine non sa affatto perché abbia scritto per tanti anni. Io non sono un letterato, né lo voglio essere e considererei cosa indegna e volgare il trascinar sul mercato letterario l’intimità dell’anima mia e la descrizione dei miei bei sentimenti. Tuttavia, con rammarico ho anche il presentimento che difficilmente potrò fare a meno d’abbandonarmi a descrizioni di sentimenti e a riflessioni (fors’anche volgari): a tal punto agisce sull’uomo, in modo demoralizzante, ogni occupazione letteraria, sia pure intrapresa unicamente per se stessi. Le riflessioni potranno a volte apparire perfino banali, perché ciò cui tu attribuisci un valore molto probabilmente non ne ha alcuno per un estraneo. Ma tutto questo non è che una digressione. Comunque, eccovi anche una prefazione; al di là di essa, non vi sarà null’altro del genere. All’opera dunque: non vi è nulla di piú saggio che l’accingersi a un’opera; anzi, direi, a qualsiasi opera.
II.
Comincio, ovvero vorrei cominciare, a scrivere i miei ricordi dal 19 settembre dell’anno scorso in poi, cioè precisamente dal giorno in cui per la prima volta incontrai...
Ma spiegare chi io incontrai, cosí senz’altro, quando nessuno ne sa nulla, sarebbe assai poco interessante: sono convinto che perfino questo tono sia banale: pur avendo preso l’impegno con me stesso di evitare qualsiasi fronzolo letterario, ecco che, fin dalla prima riga, casco appunto in questi fronzoli. Pare inoltre che, per scrivere sensatamente, non basti averne soltanto il desiderio. Noterò ancora come in nessuna lingua europea sia cosí difficile scrivere, come in russo. Rileggendo quanto ho scritto or ora mi sono accorto d’essere assai piú intelligente di quanto non appaia da ciò che ho scritto. Come può essere che quanto viene espresso da un uomo intelligente sia assai piú stupido di ciò che in lui rimane inespresso? L’ho notato piú di una volta in me stesso anche nelle mie relazioni verbali con gli altri durante tutto quest’ultimo anno fatale, e ciò m’ha procurato un’intensa sofferenza.
E benché io voglia cominciare col 19 settembre, tuttavia intercalerò qui due parole per spiegare chi io sono, dove sono stato fino a quel giorno e per conseguenza che cosa vi poteva essere press’a poco nella mia mente in quel mattino del 19 settembre, affinché tutto diventi piú comprensibile per il lettore e, può darsi, anche per me stesso.
III.
Ho ultimato il corso liceale e ho già ventun anni. Il mio cognome è Dolgorukij. Mio padre legittimo è Makar Ivanovič Dolgorukij, ex servo dei proprietari terrieri Versilov. Di modo che giuridicamente sono un figlio legittimo, benché sia, al massimo grado, illegittimo e non esista il minimo dubbio riguardo alla mia origine. Ecco, come avvenne: ventidue anni fa, il proprietario terriero Versilov (ed è lui il mio vero padre), allora venticinquenne, venne a visitare un suo possedimento nel dipartimento di Tula. Suppongo che a quel tempo egli era un tipo assai insignificante. È curioso che quest’uomo, il quale fin dalla mia infanzia mi fece sí grande impressione ed ebbe un cosí vivo ascendente sull’evoluzione del mio spirito, influenzando per lungo tempo tutto il mio avvenire, rimanga oggi ancora per me un completo enigma, sotto moltissimi rapporti. Ma di ciò parlerò piú tardi, non potendone trattare cosí di sfuggita. Di quest’uomo, d’altronde, sarà pieno tutto il mio quaderno.
Proprio in quel tempo, cioè verso i venticinque anni, egli era rimasto vedovo. Sua moglie era stata una dama dell’alta società, tuttavia non molto ricca; una Fanariotova, da cui aveva avuto due figli: un maschio e una femmina. Le notizie ch’io potei raccogliere intorno a questa sua moglie, morta cosí prematuramente, sono un po’ incomplete e si perdono nel materiale da me messo insieme; del resto anche molti casi della vita privata di Versilov mi sono rimasti oscuri, tanto egli era stato con me sempre superbo, altezzoso, chiuso e trascurato, benché in certi momenti mi si mostrasse perfino umile: il che produceva in me grande impressione. Avverto tuttavia, sin d’ora, ch’egli aveva sperperato nella sua vita tre patrimoni piuttosto cospicui, in tutto ben quattrocentomila rubli e, può darsi, anche di piú. E oggi, naturalmente, egli non possiede un copeco.
Era, dunque, venuto allora in campagna «Iddio solo sa perché»; almeno cosí si espresse in seguito, parlando con me. I suoi piccoli figli, di solito, non erano con lui, ma con certi parenti; per tutta la vita, trattò cosí i suoi figli, sia legittimi che illegittimi. C’erano in quella proprietà moltissimi servi, fra cui il giardiniere Makar Ivanovič Dolgorukij. Aggiungerò qui, una volta per sempre, che raramente si trova una persona, che come me, per tutta la vita, si sia tanto irritata a causa del suo cognome. Questo era certamente stupido da parte mia. Ogni volta ch’io entravo in qualche scuola o m’incontravo con qualche persona alla quale, data la mia età, ero obbligato a rendere conto di me stesso, ogni volta, insomma, che un maestrucolo, un precettore, un ispettore, un prete, avendo chiesto il mio cognome, si sentiva rispondere che mi chiamavo Dolgorukij, immancabilmente credeva necessario aggiungere:
– Principe Dolgorukij?
E ogni volta io ero costretto a spiegare a questa gente oziosa:
– No, semplicemente Dolgorukij.
Questo semplicemente finí per farmi impazzire. Noto qui, come caso veramente straordinario, che non ricordo nessunissima eccezione: tutti facevano quella domanda. Alcuni, evidentemente, senza alcun bisogno; non capisco infatti a chi e perché mai occorresse sapere una cosa simile. Eppure, tutti quanti facevano questa domanda, tutti fino all’ultimo. Avendo inteso che mi chiamavo semplicemente Dolgorukij, di solito, colui che aveva fatto la domanda mi squadrava con uno sguardo ottuso e stupidamente indifferente, che dimostrava com’egli stesso non sapeva a quale scopo l’aveva chiesto, e poi si scostava da me. I compagni di scuola ponevano questa domanda nel modo piú offensivo. Come procede di solito uno scolaro all’interrogatorio d’un nuovo compagno? Chi va a scuola per la prima volta, generalmente, si sente come sperduto e sbalordito e diventa lo zimbello di tutti (e questo accade in qualsiasi scuola senza eccezione): gli altri lo comandano, lo canzonano, lo trattano come se fosse un servitore. Un ragazzaccio grasso e che ha l’aria di godere ottima salute si ferma, a un tratto, dinanzi alla sua vittima; per alcuni istanti la squadra con uno sguardo severo e altezzoso. Lo scolaretto nuovo se ne sta dinanzi a lui, muto; se non è un vigliacco, lo guarda di sbieco e aspetta quello che avverrà.
– Come ti chiami?
– Dolgorukij.
– Principe Dolgorukij?
– No, semplicemente Dolgorukij.
– Ah, semplicemente! che idiota!
E ha ragione: non vi è nulla di piú stupido del chiamarsi Dolgorukij senz’esser principe, e questa stupidaggine io la trascino meco, senz’averne colpa alcuna. In seguito, quando cominciai ad arrabbiarmi veramente, alla domanda: – Sei principe? – rispondevo sempre: – No, sono figlio d’un ex servo.
E infine, quando la mia ira giungeva al parossismo, alla domanda: – Siete principe? – risposi una volta con fermezza: – No, semplicemente Dolgorukij, figlio illegittimo del mio ex padrone, signor Versilov.
Avevo escogitato questo modo di esprimermi, quando frequentavo la sesta classe del ginnasio1 e, benché presto mi fossi pienamente convinto d’agire stupidamente, tuttavia per un pezzo non volli smettere. Ricordo che uno dei miei maestri – l’unico però – trovò che io ero saturo «dell’idea tutta mia circa la vendetta sociale». Ma, in genere, la mia trovata era accolta con un silenzio che m’offendeva. Infine, uno dei compagni, ragazzo assai mordace e con cui soltanto una volta all’anno io scambiavo qualche parola, mi disse con aria seria, guardandomi però di sbieco:
– Simili sentimenti, certamente, vi fanno onore e senza dubbio avete di che esserne orgoglioso; però, io al posto vostro non mi vanterei tanto d’essere un figlio illegittimo, mentre voi, invece, sembrate farne una festa.
Da quel giorno cessai di vantarmi della mia origine illegittima.
Ripeto ch’è molto difficile scrivere in russo; ho scritto, intanto, ben tre fitte pagine per raccontare come tutta la vita m’adiravo a causa del mio cognome; e il lettore certamente ne avrà dedotto che m’irritavo appunto perché non ero un principe, bensí semplicemente un Dolgorukij. Fornire spiegazioni ancora una volta e discolparmi sarebbe per me umiliante.
IV.
Dunque, nella schiera dei servi, ch’era molto numerosa, oltre a Makar Ivanovič c’era una giovane: aveva appena diciott’anni, allorché il cinquantenne Makar manifestò improvvisamente l’intenzione di sposarla. I matrimoni fra servi, com’è noto, avvenivano ai tempi del diritto della gleba, previo consenso dei padroni e talvolta addirittura in seguito al loro ordine. Viveva a quel tempo nella terra dei Versilov una mia zia, cioè non veramente zia; era anch’essa una proprietaria terriera, e ignoro perché tutti la chiamassero sempre zia, anche nella famiglia dei Versilov, coi quali, in realtà, non era imparentata. Il suo nome era Tat′jana Pavlovna Prutkova. A quell’epoca aveva alle sue dipendenze, in quello stesso dipartimento e in quello stesso distretto, fino a trentacinque contadini, o anime. Lei non già che amministrasse la proprietà di Versilov (che contava cinquecento anime) ma, essendo quest’ultima vicina alla sua, la teneva d’occhio. A quanto ho sentito dire, questa sua sorveglianza valeva quella di qualsiasi dotto amministratore. D’altronde, le sue capacità non m’interessano affatto; aggiungerò soltanto, senza voler minimamente adulare o sembrare servile, che questa Tat′jana Pavlovna era un essere nobile e, perfino, originale.
Fu appunto costei, che anziché respingere le profferte matrimoniali del cupo Makar Ivanovič (dicono ch’egli fosse allora un uomo malinconico), le accolse, non si sa perché, colla massima benevolenza. Sof′ja Andreevna (la serva diciottenne, cioè mia madre) era orfana di padre e di madre già da alcuni anni; il suo defunto padre, che nutriva per Makar una stima straordinaria e gli era obbligato di qualche cosa, era stato anch’egli un servo; circa sei anni prima, sul suo letto di morte – a quanto raccontano – aveva chiamato Makar Ivanovič e, in presenza di tutta la servitú e di un prete, a voce alta e additando la figlia, gli aveva detto, a guisa di testamento: – Abbine cura e prendila in isposa, – ma siccome ciò avvenne un quarto d’ora prima del suo ultimo respiro, quelle parole potevano esser considerate come espressioni dettate dal delirio. D’altronde, egli, come servo, non aveva diritto di far testamento. Tutti però avevano udite le sue ultime parole. Per ciò che riguarda Makar, ignoro con quali sentimenti la sposasse; e cioè se con piacere o soltanto per adempiere a un obbligo. La cosa piú verosimile è ch’egli fosse del tutto indifferente. Era un uomo che già allora sapeva «far mostra di sé». Non già ch’egli fosse istruito (conosceva a memoria tutta la liturgia e in modo speciale la vita di alcuni santi, ma piú per averle sentite raccontare che per altro). E non era neppure uno di quei servi che amano ragionare; aveva semplicemente un carattere testardo, talvolta perfino ardito: si esprimeva pretenziosamente, emetteva giudizi inappellabili, e infine viveva «dignitosamente», secondo la curiosa espressione da lui stesso usata. Ecco dunque spiegato che uomo fosse a quel tempo. È innegabile che s’era acquistata la stima di tutti, ma pare al tempo stesso che tutti lo trovassero insopportabile. Avvenne precisamente il contrario, allorché cessò di far parte della servitú; da allora tutti si ricordavano di lui non altrimenti che come di un santo e di un uomo che aveva molto sofferto. Tutto questo lo so con certezza.
Per ciò che riguarda invece il carattere di mia madre, so questo soltanto: fino a diciott’anni Tat′jana Pavlovna, benché l’amministratore avesse insistito per mandarla a studiare a Mosca, l’aveva tenuta presso di sé e le aveva dato una certa educazione; le aveva insegnato a tagliare e a cucire, a comportarsi come una signorina perbene e perfino a leggere un po’. A scrivere in modo possibile, mia madre non imparò mai. Per mia madre il matrimonio con Makar Ivanovič era già da tempo cosa stabilita, ed ella lo giudicava vantaggiosissimo per sé. Mia madre andò a farsi impalmare con la maggiore indifferenza possibile in simili occasioni, di modo che la stessa Tat′jana Pavlovna la chiamò allora «pesce freddo». Tutte queste notizie riguardanti il carattere di mia madre le appresi dalla stessa Tat′jana Pavlovna. Versilov arrivò in campagna precisamente sei mesi dopo questo matrimonio.
V.
Voglio dire soltanto che mai riuscii a sapere e a spiegarmi in modo soddisfacente come nascesse la relazione fra Versilov e mia madre. Sono dispostissimo a credere, secondo quanto egli stesso mi disse l’anno scorso, arrossendo, nonostante l’aria disinvolta e «spiritosa» con cui mi raccontò tutto, che non vi fu nessun romanzo e che tutto avvenne «cosí». Credo che questa fosse proprio l’espressione usata da lui, e questo «cosí» è un vero poema; eppure avrei proprio voluto sapere in che modo aveva potuto aver inizio la loro relazione. Ho sempre odiato e odio tutte queste bruttezze in tutta la mia vita. S’intende, qui non si tratta da parte mia soltanto di malsana curiosità. Faccio notare che, pressoché fino all’anno scorso, quasi non conoscevo mia madre; sin dall’infanzia, infatti, fui affidato a persone estranee, perché cosí faceva comodo a Versilov; ma di ciò dirò in seguito. Non posso quindi minimamente immaginare che viso ella avesse a quell’epoca. Se non era bella, come aveva potuto esserne attratto un uomo come il Versilov d’allora? È un problema importante in quanto potrebbe rivelarmi un lato di lui assai interessante. Ecco perché mi pongo questa domanda; non perché sia spinto da morbosa curiosità. Egli stesso, uomo cupo e chiuso, ne parlò con quella meravigliosa disinvoltura, che non si sa proprio donde gli venga (quasi l’abbia in tasca); quando vide di non poterlo evitare, mi disse che a quel tempo egli non era che un «giovane cucciolo, stupidello, niente affatto sentimentale», e aveva agito cosí, perché aveva letto proprio allora due opere letterarie: Anton Goremyka e Polinka Saks2, che avevano avuto un’enorme influenza sulla giovane generazione del tempo. Egli aggiungeva – e con tono straordinariamente serio – ch’era venuto in campagna, può darsi, in seguito alla lettura di Anton Goremyka. Come mai poté questo «stupido cucciolo» iniziare una relazione con mia madre? Sono convinto che, se avessi anche un unico lettore, questi certamente riderebbe di me, come si ride dello sciocco giovincello che, pur volendo conservare la sua puerile ingenuità, pretende di mettersi a ragionare e giudicare di cose che non capisce. Ebbene sí; non ci capisco nulla, benché non faccia questa confessione per orgoglio, giacché so perfettamente quanto sia stupida simile inesperienza in un giovanottone ventenne. Dirò soltanto a quel signore che anch’egli, però, non ci capisce nulla, e glielo dimostrerò. È vero: nulla so delle donne, e nulla voglio saperne perché non intendo occuparmene per quanto io viva. Ne ho dato la mia parola. So tuttavia, e di sicuro, che certe donne seducono con la loro bellezza o con altri loro modi in un attimo; altre, invece, bisogna avvicinarle almeno per sei mesi prima di capire che cosa realmente siano, e per studiare simili donne e innamorarsi di loro non basta vederle e non è neppure sufficiente essere disposti a tutto. Occorre, anzitutto, esser dotati d’un certo acume. Ne sono convinto, nonostante la mia inesperienza; altrimenti bis...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. L'adolescente
  3. Prefazione di Angelo Maria Ripellino
  4. Nota bio-bibliografica
  5. Bibliografia essenziale
  6. L’adolescente
  7. Il libro
  8. L’autore
  9. Dello stesso autore
  10. Copyright