L'angelo di Avrigue
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L'angelo di Avrigue

  1. 144 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
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L'angelo di Avrigue

Informazioni su questo libro

Ci sono romanzi-paesaggi cosí come ci sono romanzi-ritratto. Questo vive, pagina per pagina, ora per ora, della luce del paesaggio aspro e scosceso dell'entroterra ligure, nell'estremo suo lembo di Ponente, al confine con la Francia.
La voce narrante è quella di un marinaio che non prova nessuna impazienza d'un nuovo imbarco (patisce il «mal del ferro», l'angoscia che la lamiera del cargo trasmette durante le lunghe traversate) ma anche se ama la sua terra piú del mare, la gioa che ne trae gli sa sempre d'amaro. È una voce grave e pausata, con una naturale propensione per i toni lirici e sospesi; ma il suo vocabolario è ricco di parole vere e insolite e precise, che vengono dal linguaggio parlato a ridosso delle Alpi Marittime.
Come seguendo una tacita morale libertaria, il protagonista si rifiuta di giudicare il modo in cui ogni individuo spende la propria vita; ma vorrebbe capire cos'è quella spinta di autodistruzione che si sente nell'aria; e i suoi andirivieni lo portano a indagare sulla morte misteriosa di un giovane. Quattro personaggi di donne, ognuna con una sua ossessione, incrociano i suoi passi, ma le solitidini sommandosi non s'annullano. Italo Calvino

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Informazioni

Editore
EINAUDI
Anno
2014
Print ISBN
9788806193997
eBook ISBN
9788858412374

1.

Verso le undici Gregorio andò ad Avrigue. Il pomeriggio lo avrebbe passato al bar dell’olandese dove di solito lo aspettava Jean-Pierre. Era un bel posto su uno sperone quasi sempre dorato e ventoso.
Per scendere sulla piazza prese un carruggio a svolte in cui il vento non entrava d’infilata. Si ricordava che portava a una piazzola detta la «porta della madonna» (una statua era murata sotto il cornicione della chiesetta) e dalla piazzola si scendeva per una scalinata alla piazza grande. Il carruggio era ormai disabitato: porte sbarrate, porte aperte sul vuoto, finestre semidivelte... nulla di male: nidi di miseria spariti! Nidi di silenzio, ora, e di topi. Avrigue era decisamente in decadenza: vi regnava la fame di sempre che ora pareva insopportabile, e i giovani se ne andavano.
I vecchi, ancora numerosi, erano tutti radunati sotto un portico. La piazza era vuota.
Un ragazzo l’attraversava, undici o dodicenne e con gli occhi già rassegnati. Portava un sacco di pigne, che le sue mani alzate dietro il capo curvo trattenevano a stento. Un altro sacco, vuoto, gli serviva da cappuccio e gli scendeva per la schiena, meno logoro della giacca sdrucita.
Veniva da lontano; dalle alture di scisti e sabbie con rosmarini ondosi e casoni fessurati.
Il mare da lassú è di un azzurro immobile e smorzato.
Gregorio conosceva ancora bene la vita del paese, vita e miracoli. L’immobilità delle cose garantisce dal trascorrere del tempo e dai mutamenti. Tutto è eguale, da sempre e per sempre: le feste, le esequie, le esistenze imprigionate, gli spersonalizzati destini personali, la miseria che viene dai secoli.
Erano stati tenaci lavoratori. Avevano costruito ripiani, scavato e ulivato. Da zero fino a seicento metri sul mare. La fatica tradotta in opere e la pena blandita dalla «buona morte». San Sebastiano e Nostra Signora dei Dolori. Feticci inventati per consolare ed uniti all’idea di questa fatica, da sola insostenibile. E Morte sparsa come una promessa sulla sofferenza ineluttabile.
Chi nel passato aveva creduto in una qualsiasi forma di felicità terrena, al di fuori dal possedere una casa in paese e una campagna rocciosa, si era perduto.
La vita era sempre stata uniforme.
Ciascuno conosceva il suono delle campane, la loro eco nei vicoli, l’inclinazione del sole sulle case, la linea d’ombra sui due versanti della valle in qualsiasi ora e mese di qualsiasi anno.
I fatti acquistavano la forza del mito e si radicavano nella memoria dei padri dei figli e dei nipoti: un triennio di Siccità, un intero anno di Piogge, il Maestrale, la Spagnola, il Tifo, la Fillossera, la Prima Guerra Mondiale.
Piú solenni le funzioni religiose se una morte accidentale, la pazzia, un suicidio venivano a rompere il senso del limite, a infrangere l’ordine.
I vecchi sotto il portico, che dava sulla piazza vuota, facevano un po’ di cronaca (come furono loro stessi a dire) parlando di rapine sequestri omicidi e altre cose «all’ordine del giorno».
La pensione di cui vivevano, chiamata «la minima», era pari e forse piú alta del reddito ricavato in passato da fasce e petraie. Ciò li disorientava e li rendeva persino allegri.
– Sono passato nel «carruggio vecchio», – disse Gregorio, – non c’è piú nessuno.
– Se ne sono andati tutti in giú.
– In giú dove?
– In giú sulla costa e piú giú ancora.
– Con un landò di lusso, andata sola.
Avevano un piede nella tomba e ancora voglia di scherzare, gli immutabili vegliardi, tranquilli e beati con la loro pensione. Si tolse nel salutarli il suo berretto da marinaio.
Andò in bottega a prendere il pane (forno e bottega erano in un vicolo) e nel riattraversare la piazza vide il prete in compagnia.
Teneva circolo come alla domenica; un uomo dall’aria timida, dolorosa. Non assomigliava ai preti di un tempo, eccessivi nel bene e nel male, sepolti in sacrestia, ancora alonati di reverente paura.
– Ha sentito? Un giovane è caduto dalle rocche di Crairora.
Disgrazia? suicidio? si chiedeva qualcuno.
– Disgrazia comunque, – disse il buon prete.
Voleva premunirsi contro il divieto di funerali religiosi. Sovente il prete è piú illuminato dei fedeli. La sua pietà varca la sua fede.
– L’hanno già visto in tanti, – disse un contadino, – ma nessuno lo conosce.
– Io vado, – disse il prete. – Chi viene con me?
– Andiamo immediatamente, – disse Gregorio.
– Senza paramenti, senza aspersorio? – chiese una voce.
– Vado cosí.
Salirono per i vicoli tra case che si spalleggiavano, poi presero un carruggio lungo, aperto sull’azzurro. Si immisero sullo stradone di Crairora.
La tunica ingombrava il prete, che arrancava male in salita e ogni tanto si fermava per tergersi la fronte dal sudore. Sembrava molto impressionato. Doveva essere un buon prete, non uno di quei tipi sbrigativi e vaghi davanti alla morte.
E andava piano. Un’ora per arrivare al passo dell’Annunciata.
Lassú il vento scuote ulivi e pini.
Il prete riposò; Gregorio appese la sporta del pane alla finestra della chiesetta, all’inferriata nascosta da un cespo di rosa canina.
– Ora non saliamo piú, prendiamo un sentiero che aggira il picco.
– Andiamo piano, – disse il prete, – tanto non c’è rimedio.
– Per un triste spettacolo non c’è da aver fretta.
Jean-Pierre aveva la fronte intatta. Un’elitra di libellula lo accarezzava ad ogni spiro del vento. Sopra la rocca, da cui era precipitato, un orlo rado di pini aleppensi e un prominente arbusto piú scuro accennavano dei sussurri.
Il prete pregava; lo accompagnava, nel passaggio, fin dove e fin che poteva.
Giunsero i carabinieri. Poi anche la madre. Si sarebbe detta di pietra se non avesse mormorato: «Épargne-moi ce nouveau chagrin, ne me fais plus souffrir!» come se fosse stato vivo e colpevole.
Restò a lungo seduto sopra un sasso.
Un falco girava nel cielo, si spingeva fin sul mare.
Martine Haillier tolse l’elitra dallo zigomo del figlio; camminò tra i rosmarini con gli occhi pieni di lacrime. Non aveva avuto la forza, o chissà cos’altro, di chiudergli gli occhi velati.
Un contadino disse al pretore d’averlo scoperto alle nove del mattino. Era già freddo, con gli occhi vetrati.
Al ritorno non fece la strada dell’andata. Aggirò il picco da oriente. La sua casa si trovava su quel versante.
Passò un botro e monticelli di creta bianca, poi un ginestreto spinoso.
L’uliveto soprano stava aggrappato a un pendio ripidissimo, come una grande farfalla dalle ali polverose. Piú in basso altri uliveti e altri massi scendevano già nell’ombra del crepuscolo, mostrando una bellezza senza pulviscolo, triste e quasi funebre.
Al di là del ritano, sulla sponda di un terrazzo, due girasoli piegavano la testa nelle grandi foglie già secche.
Il suo bosco di ulivi era inchiodato da un vento inquieto. Piú lontano la collina di Avrigue era avvolta da una luce minore.
Quel mondo che raccoglieva i suoi affetti se ne andava. Non tutto, gran parte. Restavano dei solchi, delle trame a suggerire la sua scomparsa.
Rami d’ulivo, tetti e profili di colli evocavano nella sera la presenza della terra. Sí, essa non era diversa dal mare, ridotta a incisioni quasi argentee.
Entrò in casa di notte.
Accese la stufa a legna, la cucina si riempí di fumo. L’amaro fumo dell’ulivo gli teneva compagnia. Non aveva nulla di lieto a cui pensare.
Il suo passato era deserto e mare diaccio. Deserto il tempo che precedeva il primo imbarco: corvi lo sorvolavano. E gabbiani – gabbiani d’avorio dell’Artide – erano i ricordi piú recenti.
Né quei corvi, né quei gabbiani gli facevano piú paura.
Ciò che temeva era una ricaduta in quel male del ferro che lo aveva costretto a sbarcare. Ripensò il mare irrigidito, duro campo d’arenaria...
Andò ad armeggiare intorno al focolare dell’altra stanza. Tornò in cucina e mise un ciocco ancora troppo verde ad asciugare sulla stufa.
Piú tardi, molto tardi, a notte inoltrata (erano le nove o le dieci) gli parve di riconoscere il motore della macchina di Ester e accese le lampade della porta e del sentiero.
Andò alla finestra, vide un gran cielo notturno. Enormi splendevano Aldebaran e Capella in salita sui crinali d’oriente e Deneb della Croce del nord proprio dietro la cima di Marie Angeré.
Ester lasciò la macchina in fondo alle terrazze e salí per l’uliveto. I suoi capelli sollevavano, ad ogni passo, riflessi castani, fulgori nell’ombra. La sua andatura era decisa e flessuosa. Si incantava a guardarla: l’Ester che gli appariva sul mare non aveva questo vigore, questa vita.
Ester sedette davanti alla stufa. S’era tolta il soprabito, un nero montgomery. Era bella, un tipo deciso, e portava conforto alle ore spoglie.
Le narrò dell’accaduto, del ragazzo trovato sulla scarpata, dei suoi occhi prima invetrati poi velati, della madre che mormorava frasi insensate e dolcissime.
Ester disse che già sapeva, ne parlava il giornale della sera.
– E che dicono? Perché non l’hai portato?
– Non c’era nulla... «Un giovane s’è gettato dalla rupe eccetera...» E il solito commento sulla gioventú che va in rovina.
– Non capisco perché l’abbia fatto. Tu che ne dici? Anche tu l’hai conosciuto, anche tu sei salita qualche volta al «bar dell’olandese».
– Lo conoscevo poco, solo fisicamente, voglio dire: solo di vista, – si corresse.
– Ti pareva strano?
– Non è la prima volta che un giovane cerca rifugio nella morte, – lei eluse.
– Sognava ad occhi aperti... le risorse non gli mancavano.
Ester manifestò il desiderio di uscire.
Il golfo d’ulivi era grigio, come un austero approdo. Il pendio aveva un costone chiaro e una china buia sul ritano. C’era un po’ di luna.
Un vento di montagna scosse il cespuglio da cui Ester stava spezzando un ramo.
Si voltò con il ramo nella mano. Un’altra raffica le spartí i capelli sulla fronte, le aprí il montgomery e le incollò la veste sul corpo. Non l’aveva mai ricordata come adesso gli appariva: sul mare, l’immaginazione era stranita dal «male...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. L'angelo di Avrigue
  3. Capitolo 1
  4. Capitolo 2
  5. Capitolo 3
  6. Capitolo 4
  7. Capitolo 5
  8. Capitolo 6
  9. Capitolo 7
  10. Capitolo 8
  11. Capitolo 9
  12. Capitolo 10
  13. Capitolo 11
  14. Capitolo 12
  15. Capitolo 13
  16. Capitolo 14
  17. Capitolo 15
  18. Capitolo 16
  19. Capitolo 17
  20. Capitolo 18
  21. Nota dell’editore
  22. Il libro
  23. L’autore
  24. Dello stesso autore
  25. Copyright