Stramonio
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Stramonio

  1. 216 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
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Stramonio

Informazioni su questo libro

Seduto sul davanzale di un ospedale un uomo parla a due piccioni e racconta una storia, cosí come avrebbe fatto «il signor Hrabal»: e noi, come i due ignari volatili, ascoltiamo srotolarsi i fatti e le ragioni di un ragazzo minuto, un Candido che cerca disperatamente la sua maturità tra una serie di abbandoni e di insuccessi fino al suo primo e tanto desiderato lavoro: lo spazzino.
Cosí, sotto l'insegnamento del suo caposquadra - il burbero e anarchico Lupo - e attraverso le loro mille comiche e tragiche avventure, assistiamo a una educazione alla vita compiuta attraverso la pulizia di una città.
Stramonio guarda il mondo dalla parte di chi perde, di chi non è sotto i riflettori del successo o del potere, ma si fa strada nella vita alla luce di un fiammifero. *** « Stramonio è nato qualche anno fa, quando, durante un incontro con alcuni studenti liceali, uno di loro mi domandò come fosse possibile per un ragazzo diventare adulto oggi, in mezzo all'immondizia che ci circonda. Mi parve evidente che, per il mio interlocutore, la parola "immondizia" comprendesse, in modo stimolante, l'enorme quantità di ciarpame culturale, politico, mediatico in mezzo al quale viviamo». Ugo Riccarelli

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Informazioni

Editore
EINAUDI
Anno
2013
Print ISBN
9788806196875
eBook ISBN
9788858411193

Maturità

Fate bene attenzione a quello che ora vi racconto. Cosí il signor Hrabal avrebbe cominciato una delle sue storie e allora voglio anch’io usare le stesse parole per raccontare la mia e voi ascoltatemi attentamente perché non sarà semplice capire tutto quanto. Inoltre non mi sembrate molto intelligenti, con quell’andare avanti e indietro, il capino grigio e lo sguardo fisso. Sembrate piú interessati alle briciole di pane che alle chiacchiere di un uomo seduto sul davanzale di questo schifoso ospedale, ma non posso pretendere altro pubblico, perché quando si arriva alla fine di una storia quello che è stato è stato: il destino o la nostra stupidità o l’orgoglio, fa lo stesso. Insomma: è quello che abbiamo mangiato, digerito e sputato, solo questo fa la vita degli uomini. Il resto conta poco.
Ma forse non v’importa nulla delle mie parole e fate bene a pensare alle briciole. In fondo, cosa sanno degli uomini, i piccioni?
Ad ogni modo, lasciatemi parlare e almeno tu, Hanta, stai a sentire. Non badare a Díte, lascialo beccare in pace e apri bene le orecchie, se le hai da qualche parte. Io provo a cominciare dal principio, e non è neanche tanto tempo fa, la mattina di luglio afoso quando aprii la porta dell’aula e trovai la Commissione già lí ad aspettarmi, schierata come un plotone di esecuzione dietro al tavolo, assieme al sorriso del Presidente che con un blazer blu mi invitava a venire avanti. Ora, cosa potevo aspettarmi da uno in blazer blu stirato e in un luglio infame di umido e calore come quello? E dagli altri, facce da brave madri di famiglia e impiegati di concetto, intenti a sfogliare un libro per farsi venire in mente una domanda? Era il giorno del mio esame di maturità. Beati voi piccioni che non avete esami, ed era il giorno del mio diciottesimo compleanno.
Forse era destino che io fossi là per essere giudicato lo stesso giorno in cui toccavo i diciott’anni e diventavo responsabile per legge di me stesso, autorizzato ad avere stato giuridico di cittadino e a mandare in Parlamento ogni sorta di candidato eleggibile. Io, adulto e titolare delle mie azioni e poi, una volta passato al controllo qualità, dichiarato idoneo per esercitare la mia maturità nel mondo, al di fuori del glorioso Istituto «Rodolfo Ippolito Fiuti».
Forse la faccio lunga, ma vorrei che capiste l’importanza di quella data che per tutti sarebbe stata una data storica, ma per me lo fu in maniera particolare, io che fino a qualche tempo prima avevo dovuto esibire alla cassiera del cinema Apollo la carta d’identità quando lei ripeteva bimbo è vietato ai quattordici e mi obbligava a dichiarare i miei sedici anni compiuti allungando il documento oltre il bordo della cassa, in equilibrio sulla punta dei piedi per aumentare un metro e quaranta scarso di poca carne e ossa.
A scuola ero stato precoce e avevo cominciato a vivere sui banchi un anno in anticipo, dalle elementari che avevo fatto in privato dalle monache spagnole e poi su, per le medie, fino al Liceo Scientifico «Rodolfo Ippolito Fiuti» sempre un anno prima del dovuto, un anno che è stato come una specie di capitale accantonato in vista di tempi peggiori, come voi con le briciole lasciate per i momenti di magra. Data la mia scarsa prestanza fisica e l’altezza, siamo sinceri, fin troppo esigua, le prospettive della mia educazione infantile non poterono svilupparsi che in un bel mucchio di tempo passato a leggere, lo capiscono anche i piccioni. Avevo amici, certo, ma stavano in un mondo sempre troppo grande per le mie gambe inadatte ad inseguire palloni o a correre o a giocare ai quattro cantoni, e anche dopo, come facciamo noi umani adolescenti, a cimentarsi in lotte virili o in esibizioni sportive alle quali invece partecipavo soltanto come devoto spettatore. Perché, in fin dei conti, avevo i miei libri, e la mia prospettiva che forse era simile alla vostra, voi che guardate il mondo da un altro punto di vista e beccate le cose che gli altri buttano. Ho i miei libri, mi dicevo. E mi bastava, cosa di cui dovete tener conto se volete cercare di capire come abbia potuto macinare questa storia un’inezia come il sottoscritto.
E cosí, gli altri avevano ragazze e pallone mentre io me ne stavo da una parte, da dove sbirciavo senza troppi rimpianti, anzi, mi sembrava di poter avere tutto lo stesso e a modo mio ero felice anche se le ragazze non mi filavano e il pallone non si fermava mai sui miei piedi. Perché comunque potevo stare a guardare, potevo tenere dentro tutto quanto e un giorno avrei potuto raccontarlo a tutti, come sto facendo ora. E poi c’era il signor Hrabal, il mio scrittore preferito da quando lessi in un suo libro la storia di un cameriere piccolo come me, capisci Díte perché ti chiamo cosí? Ma torniamo all’esame, perché ho il vizio di parlar troppo e vorrei finire prima che gli infermieri arrivino con il dottore.
Dunque, Hanta, io entrai in quella stanza dove l’aria ristagnava nonostante il ventilatore girasse veloce, io timido e minuto, con il mio documento in mano e i muscoli tirati, attento a ogni cosa avrebbe detto quel blazer blu.
– Si segga, prego, – disse il Presidente e domandò al suo vicino su quali materie sarei stato interrogato.
L’altro scorse una fila di nomi sul registro e mugugnò qualcosa che francamente io non capii bene, ma che poteva essere una cosa come: «Ci parli pure di quel che piú le piace».
Mi sembrò un regalo e mi sembrò anche impossibile che quel signore tozzo e con il sudore che gli formava delle goccioline sopra i baffi, che proprio lui mi invitasse in modo tanto semplice verso ciò che amavo. Continuai a guardare il ventilatore girare fino a che stavolta sentii con chiarezza la stessa voce ripetermi: – Prego, di cosa le piacerebbe parlare?
Di che cos’altro avrei potuto parlare, Hanta?
– Del signor Hrabal, signore, – risposi con un sorriso. Il professore allora fece una faccia strana, si incassò nelle spalle e aggrottò le sopracciglia stirando le labbra mentre dai suoi baffi sudati vidi cadere un paio di gocce sul registro che gli stava davanti. La prima cascò sul nome di Boselli e mi dispiacque, perché Boselli era un simpaticone e non mi sembrava bello che affogasse nel sudore di uno sconosciuto. L’altra fece un minuscolo laghetto su Caselli Romina, e allora il mio sorriso diventò aperto perché per Romina avevo un debole e quello mi sembrò un augurio, un chiaro segno del destino che mi invitava a svelarle per la prima volta la mia simpatia. Da piú di tre mesi avevo in tasca i versi che avrei voluto darle, ed ecco quella goccia che toccava il suo nome indicandomi la via da percorrere. Lo vedi Hanta com’è strana la vita?
E mentre io pensavo alle fossette delle guance di Romina il Professore ripeteva confuso «Craballo?» e si aggrappava all’antologia e la sfogliava qua e là senza convinzione.
Tentai di precisare: – Bohumil, signore, – e scandii le sillabe mentre continuavo a tener d’occhio un altro paio di gocce che stavano precipitando su Zorzi e Tanaro, ma lui insisteva a non capire. – Bocumil Craballo, – ripeteva tra sé, – di che periodo è? – cercando conforto presso i colleghi e quelli, destati dal trambusto, cominciavano a prestare attenzione e cosí consultarono altri testi mentre un brusio sommesso, come di un dispiacere che saliva piano piano e si impadroniva della Commissione.
– Contemporaneo, signore, – cercai di puntualizzare annuendo verso gli occhi del mio esaminatore, ormai ridotti a due fessure sottili che continuai a fissare prima per educazione e poi per imbarazzo, perché percepivo che se soltanto li avessi fatti girare intorno, i miei occhi, al di sopra o di lato o da qualsiasi altra direzione, avrei visto ogni professore sfogliar libri, aprire quaderni o cercare con lo sguardo in un punto in alto sul soffitto o in una mattonella in basso sul pavimento se per caso fosse scritta una qualche notizia, una spiegazione o un indizio sul nome strano che avevo pronunciato. In quel momento, mio caro Hanta, mi sembrò di aver pericolosamente cambiato il gioco delle parti e che il Presidente fossi diventato io per il magico tramite del signor Hrabal, mentre la Commissione tutta subiva l’esame e mi si strinse il cuore, e pensai allo sfracello di una rivoluzione che mi avrebbe portato solo guai e vendette, e cosí tentai di precisare ancora, con umiltà: – È uno scrittore ceco, signore, – e feci peggio, perché i baffi che avevano ormai allagato il registro iniziarono a muoversi e a puntualizzare come la cecità non potesse essere un indizio sufficiente a chiarire l’identità dello scrittore e del resto, specialmente nell’antichità, piú di un letterato era stato debole di vista e altri discorsi simili finché io non mi sentii in obbligo di informarlo che il signor Hrabal era ceco nel senso di boemo.
– Cecoslovacco, signore.
La parola immobilizzò la Commissione. Tutti mi guardarono fissi, pietrificati e per alcuni secondi si mosse solo il ventilatore, finché il professore di fronte a me si tirò indietro sulla sedia molto lentamente e con altrettanta lentezza, come se gli fosse piombata addosso una stanchezza enorme, prese un fazzoletto e cominciò ad asciugarsi il sudore dal viso.
– Ragazzo, questo è l’esame di letteratura italiana. Che c’entrano i cecoslovacchi?
– Mi scusi, signore, ma lei mi ha gentilmente chiesto di parlare di quello che piú mi piaceva, perciò ho ritenuto di poter riferire su Hrabal che è il mio scrittore preferito, al di là di ogni confine e nazionalità, – dissi io, deciso a far valere il diritto di rispondere su quello che piú amavo nonostante l’altro insistesse: – Abbiamo un programma preciso giovanotto ed è di quel programma che lei deve rendere conto, non di quello dei ciechi o degli storpi, – e mentre diceva questa battuta si guardava intorno compiaciuto cercando lo sguardo d’assenso della sua collega e continuò alzando la voce: – Qui si parla di Carducci, di Pascoli, di D’Annunzio, di letteratura italiana, caro il mio candidato. Della nostra letteratura!
– Capisco, signore, – ribattei io deciso, – ma lei mi ha chiesto di parlarle di quello che piú mi piace mentre i signori che lei ha nominato a me non piacciono per nulla.
Hanta, non voglio fartela troppo lunga, anche perché il tempo è quello che è, ma da qui in poi la discussione si fece pesante e coinvolse anche gli altri professori, con quelli che si schieravano dalla parte del mio inquisitore e quelli che ritenevano giusto e interessante sapere qualcosa di piú di «questo» scrittore, tra chi sosteneva la pericolosità di stabilire un simile precedente e chi proponeva con decisione una linea dura: – Il ragazzo deve essere esaminato sul programma di letteratura italiana. Che diamine, altrimenti di questo passo finiremo chissà dove –. Insomma, la Commissione era in subbuglio e l’indecisione era enorme.
Fu il blazer blu a sbloccare l’impasse: il Presidente che fino ad allora era rimasto silenzioso a osservarmi, fece un gesto imperioso per riportare un po’ di calma, si appoggiò al tavolo, si protese leggermente verso di me e mi domandò: – Gentile candidato, perché non le piacciono gli autori che il professore le ha citato?
– Perché non sono veri, signore. Nel senso che mi sento molto lontano dalle cose che dicono o forse le cose che dicono sono molto lontane da me, non saprei, – risposi io e il brusio ricominciò, i ventagli ripresero a muoversi freneticamente e il professore dai baffi sudati mi puntò un paio di occhi feroci sul volto: – Carducci non è vero?
– No, signore.
– E Pascoli?
– Neppure, signore.
– E D’Annunzio?
– Meno che mai, signore.
– E per bontà sua, potrebbe farci l’onore di nominare almeno un poeta di suo gradimento nato tra i patrii confini e che, se non le è troppo di incomodo, sia anche compreso nel programma d’esame? – concluse furibondo.
– Il signor Dino Campana, – dissi io e mi venne naturale continuare con alcuni suoi versi che sapevo a memoria, cosí fissai lo sguardo sul ventilatore e cominciai a citare lentamente: – Prendo la penna: scrivo: cosa, non so: ho il sangue alle dita: scrivo: «L’amante nella penombra si aggraffia al viso dell’amante per scarnificarne il sogno...»
– Alleluja, – fece il mio inquisitore lasciandosi andare con sollievo sullo schienale della sedia. – Almeno questo è italiano. Allora, parliamo di ’sto Campana...
Cosí, in qualche modo, l’esame si rimise su dei binari che parvero acquietare la Commissione, anche se a me rimase un lieve senso di insoddisfazione, visto che a Hrabal nessuno fece piú cenno. Fuori dell’aula mi aspettavano i miei compagni, i commenti, i complimenti e i saluti. Mi aspettava anche Romina e in quel clima di leggero entusiasmo mi sembrò naturale trovare il coraggio per confessarle finalmente la mia simpatia.
Hanta, cerca di capire, io non pensavo che fosse cosí complicato poter parlare a quel sorriso. Mi ero immaginato mille volte la scena, l’avevo scritta e riscritta, prima nella mia mente e poi sulla carta, proprio come fosse la sceneggiatura di un film. Avevo copiato e ricopiato i versi dei miei poeti preferiti, li avevo studiati e imparati a memoria e poi i migliori li avevo riscritti in un biglietto che da settimane mi portavo in tasca, tanto che era ridotto una specie di brandello. Per fartela breve, quel giorno avevo lei di fronte, lei che mi sorrideva e si chinava leggermente su di me per darmi un bacio sulla guancia e dirmi qualcosa che non riuscii a capir bene. Non so come funzioni tra voi piccioni, ma la mia testa ronzava e con la mano mi aggrappavo a quel foglietto sgualcito che nascondevo in tasca mentre cercavo di ricordare la parte che avevo preparato, però non riuscivo a far venire fuori nulla dalla mia bocca, non riuscivo a far salire o scendere il fiato: rimasi immobile per un bel po’, a guardare Romina che parlava e parlava, come fossi dentro un sogno o in un acquario e cosí, al riparo di un vetro, la guardavo e non mi lasciavo toccare dai suoi discorsi, da quelle parole che non avrei voluto sentire, da quel temporale che mi investiva, perché insomma, dopo avermi fatto i complimenti per l’esame, lei mi stava salutando e mi diceva che sarebbe partita per l’Inghilterra, sarebbe andata a studiare là. Niente di grave in fondo, ma mentre mi parlava aveva preso la mano di Boselli, e la stringeva, e tirava a sé il suo braccio, se lo metteva intorno alla vita e intanto mi salutava, mi dava un altro bacio sulla guancia e mi lasciava nell’acquario a vederla andar via, lei e le sue fossette, verso l’Inghilterra, abbracciata a Boselli.
Io ci rimasi parecchio dentro il mio acquario a pensare, e anche tornando verso casa me ne stavo ancora là dentro al riparo e intanto pensavo a questo abbandono, e mi dicevo che la maturità in fondo è saper affrontare senza timore le avversità, è non cedere alla voglia di piangere, guardare verso il futuro e considerare che ero appena diventato maturo e da pochi minuti ero entrato nella vita e la mia vita, tutto sommato, era ancora lí davanti che mi aspettava.
Cosí ripresi vigore, accelerai il passo e ancora non ero arrivato davanti al portone di casa che già il buonumore si era impadronito di me e i rumori del mondo avevano ripreso a farsi sentire.
Díte, finalmente sei sazio di briciole e allora ascolta anche tu perché forse puoi capire se non ho ragione a vedere un senso in quello che vi racconto. Come vi dicevo, aprii la porta di casa con il buonumore appena ritrovato perché in fondo avevo superato un ostacolo e, invece, mi ritrovai allo stesso punto di prima, nell’aula dell’esame. Infatti, anche se non c’era tutta una Commissione schierata ad aspettarmi ma soltanto mio padre e mia madre seduti dietro al tavolo di cucina, se ne stavano impalati proprio come i professori della mattina e le loro facce non esprimevano felicità o curiosità per la mia sorte: mia madre era seduta composta, con le mani unite e lo sguardo fisso verso un angolo della parete, mentre mio padre tamburellava con una mano sul piano del tavolo e con l’altra mi faceva cenno di venire avanti. – È andata bene, – dissi io convinto di poter spezzare quell’attesa imbarazzante. – Quindi sei maturo, – fece mio padre con naturalezza, e continuò subito: – Vedi figliolo, la maturità comporta l’assunzione di responsabilità piú grandi, come dire, la cessazione di uno stato di adolescenza nel quale ci si può permettere di non impegnarsi in modo diretto nei fatti della vita, perché ci sono gli altri, gli adulti, i genitori, i parenti, i professori che si prendono cura di noi. Ma arrivata la maggiore età, superata la Maturità, ci sono cose che un figlio adulto deve sapere, ci sono cose che un figlio adulto deve affrontare perché i suoi genitori, per esempio, non possono nascondergliele oltre, anzi, non sarebbe giusto che gliele nascondessero oltre –. La voce di mio padre stava diventando piú sicura e io temevo quel rinfrancarsi del tono che era spesso il segno di un lungo monologo che non permetteva replica. Non solo per la quantità di parole, ma per il ritmo serrato, le pause e i gesti delle mani che imponevano all’interlocutore di attendere la fine del discorso che altrimenti sarebbe stato monco e quindi strozzato e incomprensibile, mentre a me sembrava che fosse mio padre, e non il discorso, a rischiare di strozzarsi con quei grumi di parole che gli salivano e gli scendevano dalla gola, che diventavano acuti e poi fievoli, che parevano acquietarsi ma in realtà non si placavano mai. Io, mia madre o chiunque altro, rinunciavamo a inserirci nel fluire del ragionamento e, alla fine, ci abbandonavamo a quello che ci pareva un evento ineluttabile, come la pioggia durante un temporale, o il calore nel fuoco. Ma ora era successo davvero qualcosa di straordinario perché, dopo aver pronunciato «anzi, non sarebbe giusto che gliele nascondessero oltre», mio padre si era fermato, aveva posato lo sguardo sul tavolo di fronte a lui, e con la mano passava e ripassava il piano come si fa per pulire un vetro appannato. C’era un silenzio inusuale appena incrinato dal rumore sordo del palmo che sfregava sul legno, qualcosa di sinistro che avrei voluto interrompere. Allora, ruppi quell’attesa insostenibile con una domanda che risuonò nella cucina come un urlo, anche se fu emessa con la forza di un sussurro: – Cos’è che non mi potete piú nascondere oltre?
Per mio padre non fu facile spiegarlo, e non è facile neppure per me, adesso, dopo tanto tempo. E non solo perché sto parlando a dei piccioni ma perché non si può rivelare una specie di doppia vita al proprio figlio, all’improvviso, parlando pochi minuti dal pulpito di un tavolo di cucina. Perché di questo si trattava, amici, e capisco il suo imbarazzo, ma lui già da un paio di anni divideva la sua vita coniugale con un’altra donna, insomma, non so come spiegarvelo ma con mia madre le cose erano finite già da un pezzo e lui aveva una storia ben consolidata con un’altra, tanto che ora mi stava informando ufficialmente che sarebbe andato a vivere con lei.
– Ora sei un uomo, una persona maggiorenne, puoi assumerti le tue responsabilità e affrontare la situazione di fatto tra me e tua madre, che tra l’altro è perfettamente concorde, una situazione che non ti abbiamo rivelato subito per proteggerti da un eventuale dispiacere, poiché avrebbe potuto turbarti in un periodo cosí difficile come quello che hai appena concluso, con la fine della scuola, l’esame e tutto il resto.
Ecco che cosí me ne tornai nell’acquario da dove ero uscito poco tempo prima, a sentire la voce lontana di mio padre che mi forniva i dettagli dell’accaduto, a vedere mia madre che annuiva con un timido sorriso finché, alla fine di quel lungo monologo, l’uomo che avrebbe dovuto essere suo marito si alzò piú rincuorato, mi abbracciò e mi salutò con calore e sembrava una specie di soldato in partenza per il fronte o lo zio Elio, la volta che salpò per il Brasile dove doveva comprare una miniera, e ci salutò tutti con abbracci pieni di speranza che neanche Cristoforo Colombo. Solo che non era finito un anno e lo zio Elio era già tornato indietro senza un soldo perché l’affare gli era andato a buca, anche se poi lui raccontava che era stata la saudade a fregarlo, non altro, e non gli importava molto di chi insisteva a dire che la saudade ce l’avevano i brasiliani qua...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Stramonio
  3. Maturità
  4. Collocamento
  5. ARIA
  6. Lupo
  7. Stramonio
  8. Deperire
  9. Spazzatura
  10. Notte
  11. Nova
  12. Festeggiare
  13. Amare
  14. Democrazia
  15. Spurgare
  16. Piangere
  17. Iniziare
  18. Stramonio
  19. Postfazione
  20. Il libro
  21. L’autore
  22. Copyright