Un matrimonio in provincia
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Un matrimonio in provincia

  1. 120 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
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Un matrimonio in provincia

Informazioni su questo libro

«Dalle prime pagine si riconosce una voce di scrittrice che sa farsi ascoltare qualsiasi cosa racconti». Italo Calvino *** Una storia ottocentesca, ma modernissima: una contestazione della donna romantica attraverso l'evidenza prosaica della fatalità piccolo-borghese.
È la storia della maturazione di una ragazza di provincia, figlia di un notaio, che riesce a fatica a liberarsi dell'«immensa uggia» che la soffoca per anni, abdicando all'amore, intenso ma inespresso, per un suo giovane pretendente e rassegnandosi, lei «fresca come una rosa», a sposare un quarantenne brutto e incolore. La Colombi, osserva Natalia Ginzburg, presenta «le persone e i fatti senza colorarli di rosa nè sollevarli in una sfera nobile» ma in «un modo ruvido, allegro e sbadato» che conquista il lettore. Italo Calvino pubblicò questo romanzo per la prima volta da Einaudi nella collana «Centopagine».

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Informazioni

Editore
EINAUDI
Anno
2013
Print ISBN
9788806196417
eBook ISBN
9788858409756

Un matrimonio in provincia

È difficile immaginare una gioventú piú monotona, piú squallida, piú destituita d’ogni gioia della mia. Ripensandoci, dopo tanti e tanti anni, risento ancora l’immensa uggia di quella calma morta, che durava, durava inalterabile, tutto il lungo periodo di tempo, da cui erano separati i pochissimi avvenimenti della nostra famiglia.
Non conobbi mia madre, che morí nel primo anno della mia vita. La famiglia si componeva del babbo, notaio Pietro Dellara; d’una vecchia zia di lui, una zitellona piccola, secca come un’aringa, che dormiva in cucina dove aveva messo un paravento per nascondere il letto, e passava la vita al buio dietro quel paravento; di mia sorella maggiore Caterina, che si chiamava Titina; e di me, che avevo ereditato dal mio compare il nome infelice di Gaudenzia, ridotto, per uso di famiglia, al diminuitivo ridicolo di Denza.
Avevamo una casa... Dio che casa! Un’anticamera, di grandezza naturale, ma chiara che abbagliava, e perfettamente vuota. Non c’era dove posare un cappello. Alcuni testi con un resto di terra arsiccia e dei mozziconi di piante, morte di siccità, perché nessuno si era mai curato di inaffiarle, la ingombravano qua e là, e servivano, quando occorreva, a tener aperto l’uscio che metteva in sala.
La sala vasta, quadrata, chiara, troppo chiara, perché non c’erano né tende, né cortine, né trasparenti alle finestre, era mobigliata con un divano addossato alla parete principale di contro alle finestre, quattro poltrone due a destra e due a sinistra del divano, appoggiate al muro, ed otto sedie lungo le pareti laterali, quattro per parte. Nel centro della sala c’era una tavola rotonda, coperta con un tappeto di lana; e sul rosone di mezzo del tappeto, c’era una scatola da guanti col coperchio di vetro, traverso il quale si vedeva un paio di guanti bianchi un po’ sciupatini. La scatola era un dono nuziale del babbo alla sua sposa, ed i guanti erano quelli che la mia povera mamma aveva portati il giorno delle nozze. Intorno alla scatola erano schierati sulla tavola: due cerchi da tovaglioli ricamati sul canovaccio, colla scritta «buon appetito»; un portasigari di velluto rosso, con una viola del pensiero ricamata in seta; una busta di pelle scura, imbottita di raso turchino, che stava sempre aperta per lasciar vedere una ciotola ed un piattino d’argento, dono del mio compare Gaudenzio alla mia mamma, in occasione della mia nascita.
Nessuna di quelle cose aveva mai servito all’uso a cui era destinata, perché il babbo le trovava troppo di lusso e per conseguenza le teneva in sala, la stanza di lusso della casa.
Dopo la sala veniva la camera del babbo con un gran letto nuziale, che la riempiva tutta. A capo del letto c’erano due pilette d’acqua santa d’argento cesellato, che il tempo aveva ossidate rendendole piú belle, due altre pilette di porcellana, in forma di angeli, colla gonnellina rialzata che faceva da coppa, e finalmente una quinta piletta di rame inargentato, che però aveva perduto l’argento, era la sola che contenesse veramente l’acqua santa. E sopra le pilette erano appesi molti rami d’ulivo, e palmizi, ed un fascio di lumencristi, dai quali si sarebbero potuti contare gli anni dacché il babbo aveva messo casa, cominciando dai primi, rappresentati da candelette sminuzzate, tenute insieme soltanto dall’anima di bambagia, sulla quale quei vecchi pezzetti di cera annerita, ciondolavano come una filza di salsiccie, e passando via via, d’anno in anno, pei lumencristi scrostati, sgretolati, contorti, poi per quelli intieri ma gradatamente sudici, che, dal color castano, venivano giú giú per tutte le sfumature del giallo, fino a quello dell’ultimo anno, intatto, quasi bianco, coi fiorellini rossi e verdi dipinti, che erano una bellezza.
A destra del letto c’era uno scrigno, dove il babbo teneva gelosamente rinchiusi i denari e quelle che chiamava «le reliquie di famiglia»: i ritratti al dagherrotipo di lui e della mamma quand’erano sposi, quasi completamente svaniti; la cuffiettina che aveva servito pel nostro battesimo; una quantità di fogli ingialliti, che contenevano le poesie giovanili del babbo, e finalmente i gioielli della mamma.
Dall’altra parte del gran lettone, c’erano otto seggiole a spalliera alta, ma punto antiche né belle, vecchie soltanto, e schierate in fila come tanti soldati. E se per caso una si staccava un dito dal muro, o rimaneva voltata anche solo d’una linea verso la sua vicina, il babbo correva a metterla a posto e non era contento se non s’era assicurato, chinandosi e prendendo la mira come se dovesse sparare, che gli otto sedili formavano una linea retta inappuntabile.
Dopo la camera del babbo, c’era una vasta cucina, dove la zia s’era tagliata fuori la camera da letto col paravento; il che non impediva che ci stessero a tutto agio una tavola ordinaria per usi di cucina, ed una tavola di noce piú grande, dove si pranzava.
Dietro la cucina c’era una stanzona larga, bassa di soffitto, colle pareti imbiancate a calce, dove si dormiva la Titina ed io. I nostri letti erano di quelli primitivi, fatti di cavalletti e panchette, con un saccone di cartocci ed una materassa. Ed a capo del letto avevamo anche noi la piletta dell’acqua santa, ma di terra verniciata come i tegami da cucina, delle immagini sacre che, per risparmiare la cornice, erano state appiccicate al muro colla pasta, ed un rosario di avellane con una noce per ogni paternostro, che ci aveva fatto commettere col desiderio chissà quanti peccati di gola, ed aveva dovuta la sua salvezza, nei primi anni al suo carattere sacro, e piú tardi al suo gran puzzo di rancido.
Non c’era un giardino, né un cortile, né un balcone per uscire a respirare all’aperto.
Ma, in compenso, il nostro babbo aveva la passione, la fede, la manía del moto. Per tutte le malattie, per tutti i guai della vita ammetteva due soli rimedi, ma erano infallibili: una lampada alla madonna, ed il moto.
Li usava anche come preservativi, come semplici misure igieniche; perché noi non s’avevano in casa né malattie, né guai; eppure la lampada s’andava a farla accendere ogni venerdí, e, quanto al moto, se ci penso mi dolgono ancora le piante dei piedi.
Dio! quanto camminare su quelle strade maestre larghe, diritte, bianche l’inverno di neve, e l’estate di polvere, che s’allungavano a perdita d’occhio nelle vaste pianure, fra i prati e le risaie del basso Novarese!
Ho detto che il babbo era notaio; ma il suo studio non era preso d’assalto dai clienti. Teneva un giovane praticante, e lui solo con quell’aiuto bastava a tutto, ed avanzava ancora il tempo per le nostre enormi passeggiate.
La mattina ci faceva alzare prestissimo, ci dava appena il tempo di vestirci, e via; lasciando la casa sossopra, i letti disfatti, s’andava giú giú, lungo una strada maestra qualsiasi, senza scelta, senza scopo.
A lui non importava che i luoghi fossero belli; non ambiva di fare delle escursioni alpine; punto. La sua passione era proprio di mettere un piede avanti l’altro, per molte ore di seguito, e di poter dire al ritorno: «Si son fatti tanti chilometri».
Quando si tornava eravamo stanche, e non ci sentivamo di sfacchinare per ordinare la casa. C’era una serva che veniva alle otto del mattino, e se ne andava verso le due. In quelle ore doveva ordinare, andare al mercato, far la cucina, servire in tavola, rigovernare.
Tutto dunque era fatto molto sommariamente. Ma il babbo, pel mangiare era sempre contento, per l’ordine di casa gli bastava che i mobili fossero bene a posto e le sedie bene in fila; e purché si facesse del moto non esigeva di piú.
Non ci mandava neppure a scuola, perché diceva che tutte quelle ore d’immobilità sono micidiali. C’insegnava lui di quando in quando a leggere, scrivere e far di conto. E durante le nostre passeggiate faceva la nostra educazione letteraria.
Almeno lui lo credeva, perché ci raccontava l’Iliade, l’Eneide, la Gerusalemme. Si animava, gesticolava narrando di eroi che si battevano soli contro un’armata, sollevavano macigni grossi come montagne e li scaraventavano contro il nemico, compievano le imprese piú stupefacenti ed inverosimili; e, quando finiva quelle narrazioni, il povero babbo era tutto ansimante ed in sudore, come se quelle gesta le avesse fatte lui.
Noi non dividevamo punto la sua ammirazione. Prive dell’attrattiva della forma, dette cosí fra due campi di granturco, quelle cose ci parevano stravaganze, e non ci riusciva di capire come potessero costituire la nostra educazione letteraria. Le confondevamo con certe fole bislacche, che ci raccontava la zia nelle sere di pioggia, e non le trovavamo neppure piú belle.
Tra il pranzo e la cena si faceva un’altra passeggiata sopra un’altra strada maestra, o magari sulla stessa del mattino.
A cena si mangiava freddo qualche avanzo del pranzo, e dopo, s’usciva un’altra volta, si correva all’altro capo di Novara fino al palazzo del mercato, un gran quadrilatero cinto da tutti i lati da bei portici alti e spaziosi, e si girava, si girava intorno a quel palazzo, sotto quelle arcate deserte e sonore, finché s’aveva la persuasione d’aver fatto un numero sufficiente di chilometri, per poter andare a dormire colla coscienza tranquilla.
Noi non eravamo malcontente di quel regime, e non ci annoiavamo di certo. Ma non eravamo neppur contente, e non ci divertivamo. Era un’apatia, un’indifferenza assoluta.
Nell’autunno uscivano di collegio certe nostre lontane parenti che ci chiamavano cugine, e, prima che partissero per la campagna, il babbo ci conduceva a vederle. Avevano una sala poco migliore della nostra; ma ci stavano continuamente, ci tenevano dei fiori, movevano i mobili, e pareva tutt’altra cosa.
Ci ricevevano là, fra i loro ricami ed i loro libri; salutavano graziose e disinvolte, e porgevano la mano al babbo, dicendogli con un coraggio che ci sbalordiva:
– Buon giorno, dottore.
Poi si volgevano a noi con molto buon garbo, e ci domandavano:
– Volete che andiamo di là a giocare, o preferite che si stia qui a discorrere?
Per noi erano due cose egualmente impossibili. Non avevamo mai giocato. Nessuno ci aveva mai dato un trastullo né una bambola; e per correre e saltare, in casa nostra non c’era posto. Le nostre ricreazioni erano quelle interminabili passeggiate. E quando le pioggie torrenziali, o la neve alta un metro, o un calore di trentasei gradi all’ombra, un caso di forza maggiore, rendeva le passeggiate impossibili per qualche giorno, quelle ore si dovevano occupare ad imparare il famoso leggere, scrivere e far di conto.
In conseguenza non sapevamo né giocare né discorrere; ed a quella domanda delle cugine Bonelli ci guardavamo fra noi un po’ confuse e non rispondevamo nulla.
E loro dicevano:
– Ebbene, stiamo qui, facciamo conversazione.
Mettevano un panchettino dinanzi alla finestra, tiravano quattro poltroncine basse basse intorno, poi sedevano loro due e facevano seder noi, mettendo tutte e quattro i piedi sullo stesso panchettino «per star piú vicine» dicevano; come se fossimo in gran confidenza. Ma noi, per vicine che si fosse, non si sapeva mai cosa dire. Però loro erano cosí belline e gentili, e sapevano tante cose, che eravamo contente soltanto di guardarle, e di star a sentire le loro chiacchierine del collegio dov’erano state, e della campagna dove andavano.
Dopo la campagna venivano poi loro a salutarci prima di tornare in collegio, e, se riescivano a trovarci in casa, il che non era facile, le ricevevamo maestosamente in sala, dicendo: «accomodatevi, sedete» e finalmente mettendoci a seder noi sul divano per dare l’esempio. E loro dicevano: «grazie, grazie» ma non sedevano mai, sfarfallavano un po’ intorno, toccavano tutte le cose sulla tavola, la scatola da guanti, i cerchi da tovagliolo, la coppa, e domandavano ogni volta, chi aveva fatto questo e regalato quello; e noi ripetevamo la leggenda d’ogni oggetto.
Poi correva in sala il babbo, che noi avevamo fatto chiamare in aiuto, e non so come avvenisse che, dopo due minuti, stava narrando con grande enfasi e grandi gesti, qualche impresa eroica degli Aiaci, o qualche sfuriata di Orlando. E quelle ragazzine ridevano, capivano, suggerivano, e sap...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Un matrimonio in provincia
  3. Nota introduttiva di Natalia Ginzburg
  4. Nota bio-bibliografica di Luciano Tamburini
  5. Un matrimonio in provincia
  6. Il libro
  7. L’autore
  8. Copyright